Rom e Sinti da tutto il mondo

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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Fabrizio (del 01/01/2012 @ 09:54:34, in Kumpanija, visitato 2149 volte)

immagine da barriodecuba.altervista.com

L'isola è conosciuta di sicuro, per diversi motivi, talvolta antitetici. Alcuni anni fa raccolsi in italiano del materiale sulla presenza dei Rom a Cuba. M'è venuta voglia di riproporlo. Per rispetto, inizio con Jorge Bernal, studioso argentino che per anni ha documentato la presenza di Rom e Kalé nell'America centrale e meridionale.

Seguono due pezzi, uno dell'agenzia ufficiale Granma e l'altro dell'Havana Journal, un'agenzia web anticastrista. La cosa divertente di questa storica contrapposizione politica è che i due pezzi sono quasi identici, anche se si guardano bene dal citare le informazioni della "concorrenza".


Estratto da "I Rom nelle Americhe" - La storia dei Rom a Cuba

Si sa poco del passaggio di alcune famiglie Rom che arrivarono a L'Havana all'inizio del 1900 e negli anni '20.
…erano un gruppo coeso e imparentato tra loro, uniti da linguaggio, tradizioni e professioni comuni. Mantennero questa unità a Cuba e negli altri paesi americani in cui arrivarono. Questo garantì ovunque la loro sopravvivenza, come emerge in questa storia molto conosciuta.

Come Dio creò gli esseri umani
Sapete come Dio creò gli esseri umani? Ve lo racconterò: prima fece la terra e tutte le cose che esistono: gli alberi, l'erba, gli animali…
Ma si sentiva solo, e così creò anche gli esseri umani. Modellò del fango e lo mise a cuocere, ma se ne dimenticò e quando lo estrasse dal forno, era tutto bruciato. Quello fu l'antenato del popolo nero. Non contento di questa sua creazione, fece un altro modello. Questa volta lo tolse subito dal forno e la statuetta era molto chiara. Divenne l'antenata del popolo bianco, i Gadjé. Fece poi un altro tentativo e stavolta calcolò con precisione i tempi di cottura. L'ultima statuetta era cotta a puntino e divenne l'antenato di tutti i Rom.


La leggenda riflette il sentimento dell'orgoglio che i Rom provano per la loro origine etnica, e che tutte le comunità hanno sempre difeso. I Rom si riconoscono in ogni paese perché hanno mantenuto precisi valori culturali, etici, estetici propri. In ogni posto dove sono arrivati, hanno mantenuto la loro autenticità e personalità, cercando di adattarsi ai diversi codici sociali.

Numeri e attitudine
I Rom a Cuba saranno 200, forse di meno. Sono comuni i matrimoni misti, perché le famiglie estese saranno due o tre. Un gruppo era composto da soli uomini e sposò donne cubane. Secondo la tradizione i discendenti seguono la linea paterna e le famiglie hanno mantenuto le tradizioni e la lingua Romanes. Molti hanno lasciato Cuba per ricongiungersi ai parenti in Venezuela e in altre parti del continente e mantenere le proprie tradizioni. Durante la permanenza a Cuba, avevano creato una cooperativa famigliare per il lavoro dei metalli, che in seguito fu assorbita dallo stato.
La maggior parte delle famiglie miste è rimasta a Cuba (una sola andò in Argentina) e hanno mantenuto una cultura mista. La lingua comune è lo spagnolo, ma riconoscono parecchi termini nella lingua romanes. Si considerano cubani di sangue Rom.

Durante le prime decadi del XX secolo, molte famiglie Rom arrivarono a Cuba, provenienti dall'Europa centrale e orientale, mantenendo il proprio sistema sociale di famiglia allargata. Il matrimonio è endogamo e deciso dalle famiglie, ai neonati è d'uso dare il nome degli antenati, per rispetto a chi diede origine al gruppo o clan (vitsa), gli anziani fanno anche parte dell'assemblea chiamata "kris", che per i Rom è la più alta struttura di legge e giudizio. Questa organizzazione è stata gelosamente salvaguardata e trasmessa di generazione in generazione, come in altri paesi americani ed europei, sino alle seconde/terze generazioni di Rom nati a Cuba.
Le famiglie che arrivarono a L'Havana si accamparono in una zona periferica che oggi si chiama Lawton. Era abitata allora da operai e piccoli artigiani. I Rom si mantennero però distanti dal nucleo originario, costruendosi per conto loro povere baracche di legno.
Nel nucleo originario si ricorda una famiglia estesa di nome Cuik, proveniente dalla Russia. Arrivarono a più riprese tra il 1912 e il 1924. Sino alla fine degli anni '40 vissero nelle loro tende.
Questo gruppo di esotici immigranti trovò a Lawton un clima di accettazione e riconoscimento sociale. Secondo i discendenti nessuno li disturbò mai e loro stessi vissero senza creare disturbi.
Crediamo anche che l'accettazione fu dovuta allo sviluppo che questi Rom diedero alla piccola metallurgia, attività che era particolarmente apprezzata nella Cuba di quei tempi. Una delle discendenti, che attualmente vive in Venezuela, racconta che anche dopo la rivoluzione non si sentì discriminata in alcun modo, anzi fu pienamente integrata nella forza lavoro dal nuovo regime e molti degli abitanti stanziali continuarono a frequentarla in cerca dei suoi pareri e consigli.
Nell'accampamento, continuarono con le occupazioni tradizionali: gli uomini nella piccola metallurgia e le donne come indovine.

Status sociale di uomini e donne
Nella tradizione Rom le donne acquistano rispetto sociale dopo il matrimonio, con la possibilità di creare una nuova famiglia. E' una dinamica sociale che si è mantenuta anche nel caso di famiglie miste; come anche quella di investire la donna del mantenimento delle finanze famigliari (il capitale costituito dalla cassa, dai gioielli e dall'oro, a cui i Rom attribuiscono anche proprietà mediche). Nella lingua tradizionale è il "galau" e alle donne (le romnià) spetta il compito di preservarlo e accrescerlo.
Diventando anziane, a Cuba e altrove, cresce il loro prestigio e vengono consultate dalla kris (vedi sopra).
A Cuba le romnì possono studiare e divorziare senza subire rivalse dal resto del loro gruppo.
Le famiglie miste hanno mantenuto anche la celebrazione tradizionale dei morti, "la pomana". E' un pasto offerto in onore del morto – nove giorni dopo la morte, sei settimane, sei mesi e poi nella ricorrenza annuale. Per l'occasione viene vuotata una coppa di vino o di acqua a favore del morto, che per quanto invisibile, rimane presente. Quando sono presenti immagini del morto, c'è l'uso di mettere un bicchiere pieno di fronte alla foto o al quadro, per far piacere alla sua anima. Oppure, nelle riunioni famigliari [i morti] sono invitati a condividere quanto bevono gli altri invitati.


I Gitani all'Avana RAFAEL LAM – speciale per Granma Internacional

I gitani sbarcarono a Cuba, in Brasile e in tutta l'America Latina sicuramente assieme ai primi colonizzatori spagnoli e portoghesi, dalle caravelle dei conquistadores… scrive il professore brasiliano Atico Vilas – Boas. E per questo anche la vita cubana è permeata da questa cultura leggendaria

Con la loro pelle scura e strane abitudini, i gitani hanno sempre suscitato curiosità: vengono chiamati anche Gipsy, Tzigani, Yeniche, Zingari e sono vittime di malintesi e di persecuzioni. Hanno sempre resistito tenacemente per la conservazione della loro personalità e autenticità esotica.

Sono vincolati al nomadismo, alle carovane, ai cavalli, le tende, le grotte, le caverne, carri e carretti, vagoni, accampamenti, strade e campagna aperta…

Sono cestai, toreri, lavorano lo stagno, fanno gioielli, predicono la sorte, sono musicisti e suonano in quartetti di chitarre; le loro espressioni vocali propongono lamenti lontani e raccontano le pene e le arroganze di un'emarginazione che è divenuta un'opera d'arte attraverso la prodigiosa e millenaria tradizione dell'Andalusia, una delle più interessanti del mondo, racconta lo scrittore spagnolo Felix Grande.

Buona parte della musica popolare cubana e latino – americana è nata in questo mondo periferico, umile e disprezzato dalle classi aristocratiche. Ricordiamo il tango, il samba, il merengue, i mariachis, il calipso, la bomba, il porro, il joropo, il son, il bolero, la rumba, la guaracha, la conga…

L'origine dei gitani è stata misteriosa per secoli, ma gli specialisti di oggi non hanno dubbi che sono originari dell'India nell'anno mille circa e questo è stato provato grazie alla loro antropologia, la medicina, l'etnologia e la loro lingua.

Cuba ha ricevuto i gitani per più di cinque secoli. Lo specialista d'arte, Antonio Alejo Alejo, racconta che era abituale vedere gli indù lavorare nella zona del porto dell'Avana.

La maggior ondata di gitani giunse a Cuba a partire dal 1936, in fuga dal franchismo, con la guerra civile spagnola. Poi vennero i fuggitivi dai terribili campi di concentramento nazisti.

La scrittrice Renée Méndez Capote dedica uno spazio ai gitani nel suo libro "Una cubanita che nació con el siglo" e in un numero della rivista Carteles del 1940 si legge un reportage che informa che i gitani si erano rifugiati nella zona delle colline di Lawton.

Molti usarono l'isola come una base per poi raggiungere altri paesi, ma diversi si integrarono alla vita di Cuba, che è sempre stata una nazione molto ospitale.

Joventud Rebelde l'anno scorso ha pubblicato un articolo sulla presenza dei gitani, su come vivono questi discendenti eredi delle famiglie giunte negli anni '20, che qui incontrarono il solo paese che permise loro di trascorrere una vita tranquilla.

Qui ci sono abitudini e modi di vestire, parole, attrazioni nei circhi, nelle fiere, le feste e carnevali, nel gergo musicale attuale della musica ballabile o salsa; nel filin degli anni '40 – 50 troviamo parole come jama (cibo), curda (ubriaco), puro (padre). Tra i dolci c'è il braccio gitano!

La moda dei giovani d'oggi è permeata dalle abitudini gitane: bracciali, catenelle ai piedi, collane, fazzoletti alla cintura e in testa, vestiti colorati, grandi anelli.

"Ma dov'è la verità gitana? Da quando ricordo io vado per l mondo con la mia tenda e cerco amore e affetto!" Ras e Sedjic.


Svelando la presenza dimenticata degli zingari a Cuba Mon January 31, 2005 | Posted By: Dana Garrett

Negli ultimi tempi le storie sugli Zingari sono di moda nelle soap operas di prima fascia televisiva alla televisione cubana.
Questo ha risvegliato domande da parte di molte persone sull'isola che – anche se consapevoli dell'influenza esercita dalle culture straniere nella formazione della nazionalità cubana – non erano sinora consci che nelle loro vene potesse scorrere anche sangue zingaro.
Viceversa, le nostre radici africane sono talmente manifeste, che esiste un noto detto per cui se un cubano non ha sangue congolese, sicuramente ne ha di Calabar (ndr: esiste Calabar sia in Nigeria che in Giamaica, penso si riferisca a ciò), questo significa che a Cuba non c'è modo di evitare di essere razzialmente mescolati.
La comparsa di una cultura cubana non è dovuta solo al contributo di africani e spagnoli, anche altre gruppi etnici hanno avuto il loro ruolo.
La storia mostra che nelle prime decadi del secolo scorso, masse di zingari immigrarono nell'isola, mentre per altri studiosi la loro venuta risale ai primi giorni della colonizzazione spagnola.
Ancora, per quanto qui gli zingari siano stati meno discriminati che altrove, lo stesso nel 1930 fu varata una legge per impedire la loro entrata nel paese. Legge che comunque fu largamente aggirata.
Nei ricordi degli anziani la loro presenza si lega a storie di indovini, donne che indossano colorati orecchini, braccialetti e collane; uomini di bell'aspetto che montano e smontano le loro tende.
Pedro Verdecie, avvocato in pensione e storico – che risiede nella provincia orientale di Las Tunas, si ricorda di gruppi di uomini e donne accampati in quell'area.
Dice Verdecie che questi nomadi praticavano la vendita al minuto di vari beni e che talvolta furono coinvolti in attività illegali, riuscendo comunque a instaurare un rapporto con la popolazione stanziale e scambiandosi costumi e tradizioni.
Nonostante la mancanza di documenti ufficiali che provino il passaggio degli zingari sull'isola, la verità è che in questi giorni i cubani sembrano aver iniziato ad apprezzare l'impronta degli zingari all'identità nazionale, col loro fascino vagante di bohemiennes.

 
Di Fabrizio (del 02/01/2012 @ 09:06:46, in Kumpanija, visitato 1568 volte)

Sul valico. Foto da geoportale.caibergamo.it

1 gennaio 2012: mi sveglio nel mio letto, da solo. Ricordi confusi della serata precedente.

Bisogno di un caffè come si deve, al bar. Per strada, una distesa di serrande abbassate. Voglio una conferma di dove mi trovo e so dove cercarla. Vado alla torre del binario 21, in Stazione Centrale, dove si abbracciano 100 anni di storia, simboli e lotte di questa città. Milano, un'altra volta riparto da qua.

31 dicembre 2011: tutto è iniziato verso le 16.30, con panettone, peperoni ripieni e 3 montenegro (più mixité di così!)... ci voleva poco a capire come sarebbe continuata la serata. Giro tra le piazzole, un abbraccio e un bicchiere. I falò accesi rivelano se in questo momento la famiglia sia povera o ricca. Si ride, si chiacchiera (quando la musica lo permette), la regola è che devi sentirti come a casa tua, anzi meglio. Ma il mezzo non sono il vino, il cibo, le canzoni, piuttosto un mezzo sorriso che traduci come un abbraccio vero.
Fuori lontano dai fuochi fa freddo, nelle baracche le stufe vanno a tutto volume: una continua sauna finlandese, solo i bambini corrono qua e là incuranti dello sbalzo termico.
Amici, parenti e conoscenti si susseguono da una piazzola all'altra, in un corteo incessante, che stabilisce chi è parte della tua gente, quelli su cui forse potrai contare.

Entro in un grande container familiare, la tavola apparecchiata, 3 o 4 famiglie sono sedute. Il via vai continua. Musica a palla anche qui, ballano i maschietti in giacca e cravatta e le femminucce vestite da principesse. Il rito di far parte per una sera del mondo degli adulti. Anche i grandi che col tempo hanno imparato a fingersi persone serie come i gagé, si lasciano andare, cantano, fischiano, accennano un movimento del bacino o un passo di tango. Stasera non devono fingere: è il momento di ribadire, anche davanti a chi continua ad arrivare in visita, la propria identità e le proprie radici, in un casino inenarrabile e liberatorio.
Io, da sempre negato per ballare, batto il ritmo sul tavolo e con i piedi. Ridiamo: ma ti immagini fare una cosa del genere in un appartamento?
In quella baraonda, ho la netta sensazione di essere una comparsa in un film di Kusturica, e di conoscere tutti gli attori. E' la realtà, invece, che si ripete nei secoli in ogni dove sia arrivata questa gente.

29 dicembre 2011: parlando, anche dei problemi seri, emerge qualcosa di nuovo in questo festeggiare: due giorni prima c'era stata una riunione pubblica sul destino dell'insediamento. Abbiamo lavorato bene per un anno, anche fuori dal campo, e siamo riusciti a riempire la sala della riunione di tanti cittadini che, sorpresa sorpresa, erano lì a difendere i loro rom ed il loro futuro. Rispettosi ma determinati. Con l'assessore che sinceramente non se l'aspettava, ma anche i Rom presenti che si guardavano intorno stupiti.

I segnali c'erano... prima e dopo natale tanta gente del quartiere, molti sconosciuti, è arrivata in quest'angolo dimenticato di Milano, anche solo a stringere una mano, farsi un caffè o un bicchiere di vino, e dire silenziosamente che non si era soli.
E ripenso alla strada percorsa in quest'anno, agli sforzi comuni per abbattere, prima dei ghetti fisici, quelli mentali. Ai tanti Carlo, Paolo, Laura, Cesare, Stefania, Antonio, Marco, Marina... che nonostante i dubbi ed i problemi, ci hanno creduto ed hanno tenuto la rotta.
Se altrove il vento nuovo su Milano fatica a farsi sentire, la nostra piccola primavera di via Padova (tutta, da Loreto sino alla Gobba) sta resistendo all'inverno. Si continua a credere che E' POSSIBILE migliorare SOLO assieme, e per farlo abbiamo dovuto imparare a parlarci da pari a pari. Non è stato così con tutti, dice chi non ci crede... ed ha ragione. Ma c'è chi continuerà.
Parlandoci, vedendoci, siamo cambiati. La mia gente forse ha meno paura del diverso. Qualche rom ha imparato che non si deve sempre fuggire o abbassare la testa; cambiare non significa per forza spostarsi se non lo si vuole, cambiare significa magari trovare il coraggio di lottare anche per restare.

Anche se non sarà (mai) facile. Continuavo a ripeterlo il 31: stavolta abbiamo portato a casa il punto, ma non è finita. Dopo questo valico, nel nostro viaggio da fermi, ce ne aspettano altri.

31 dicembre 2011: mi dice un amico: "A mezzanotte arriva il cotechino con le lenticchie. Se vuoi, poi ti fermi a dormire da noi".
"Grazie fratello, ma ho bisogno di fare due passi. Ci vediamo dopo." Ed invece passo dopo passo mi sono trovato davanti al portone di casa.

E adesso che ho riordinato i ricordi, un buon anno a tutti BAXTALO NEVO BERSH SAVORRENGE.

 
Di Fabrizio (del 23/01/2012 @ 09:54:46, in Kumpanija, visitato 1345 volte)

Da Czech_Roma

Annega violinista del Concordia, dopo aver aiutato i bambini ad indossare i giubbotti di salvataggio Italy, 19.1.2012 21:19, (ROMEA)

 Sandor Feher: video da Youtube

Una delle persone recentemente identificate come vittime del capovolgimento della nave Concordia, è il trentottenne violinista Sandor Feher. Il ministero degli esteri ungheresi ne ha confermato la nazionalità.

Sandor Feher, la prima vittima dell'incidente identificata ufficialmente, lavorava sulla nave come violinista. L'Associated Press riferisce che sua madre l'ha identificato in Italia.

Si dice che il violinista abbia aiutato a fornire di giubbotti di salvataggio i bambini che piangevano durante l'evacuazione. Sia poi tornato in cabina per recuperare il suo violino. Il pianista Joszef Balog avrebbe confermato che indossava anche lui un giubbotto di salvataggio mentre decideva di tornare in cerca del suo strumento.

Feher proveniva da una famiglia di musicisti. Anche suo padre e suo nonno erano violinisti. Iniziò a suonare a sei anni e si laureò nel 1998 all'Accademia Musicale Franz Liszt di Budapest. Ha trasmesso l'arte del violino ai suoi allievi, insegnando a bambini tra i 6 e i 20 anni col metodo "ABC" sviluppato dal suo maestro, László Dénes, e da altri musicisti. Il sistema è molto conosciuto in Germania ed Ungheria, e Sandor lo descriveva come un metodo che comprende canzoni folk da tutto il mondo. Il violinista stava progettando di insegnare violino all'estero e "usare questo metodo per formare una nuova generazione di violinisti".

iDNES.cz, violinist.com, ih, translated by Gwendolyn Albert

 
Di Fabrizio (del 24/01/2012 @ 09:47:45, in Kumpanija, visitato 1390 volte)

Il consiglio di Zona 4 per il Giorno della Memoria - Due importanti iniziative promosse dalla Commissione Cultura:

WOW Spazio Fumetto – Museo del fumetto – viale Campania, 12 - dal 21 gennaio al 5 febbraio 2012 – due percorsi-espositivi che - utilizzando il linguaggio del fumetto – parlano della tragedia delle persecuzioni nazi-fasciste.
Verranno esposti - attraverso una selezione e lettura ragionata di un significativo numero di pagine - "Maus – Racconto di un sopravvissuto" di Art Spiegelman e "Giorgio Perlasca – Un uomo comune" di Ennio Buffi e Marco Sonseri.
La presentazione del materiale selezionato ha un taglio intenzionalmente didattico, per facilitare la comprensione di un periodo tra i più dolorosi della storia.

Nell'ambito delle esposizioni, domenica 22 alle ore 16 si terrà un incontro con le Associazioni che rappresentano i deportati nei campi di steminio e sopravvissuti alla Shoah.

Data la particolarità dei temi affrontati, l'ingresso alle suddette esposizioni sarà gratuito.

Venerdì 3 febbraio – Teatro della XIV – via Oglio 18 – ore 20,45
Musica e Parole dal Mondo un ciclo di spettacoli, un filo conduttore: le tante voci, le diverse anime e la preziosa pluralità di culture che popolano Milano promosso dalla Commissione Cultura del Consiglio di Zona 4, presenta
PORRAJMOS DIMENTICATO
in occasione della Giornata della Memoria incontro con la Comunità Rom di Zona 4
Introduzione musicale di Alessio Lega
Presentazione a cura di Opera Nomadi e del Museo del viaggio "Fabrizio De André" di Rogoredo
con Mirko e Giorgio Bezzecchi e Maurizio Pagani
Proiezione di Porrajmos, filmato sulla deportazione Rom e Sinti nei campi di internamento e di sterminio e di un documentario storico sulla famiglia Bezzecchi negli anni '50 a Milano.
Esibizione del gruppo musicale I Muzikanti di Balval diretti dal Maestro fisarmonicista Jovic Jovica che animerà l'incontro con musiche e balli della tradizione balcanica.

Ingresso libero

 
Di Fabrizio (del 30/01/2012 @ 09:21:21, in Kumpanija, visitato 2811 volte)

Non è una bella parola in lingua romanì: significa divoramento, smembramento; e qualcuno preferisce la parola "Samudaripen", genocidio, senza dubbio più oggettiva, ma anche meno carica di significati simbolici.

Se la prima si intende come una specie di stupro collettivo, la seconda credo che sia posteriore ai fatti narrati: insomma le elites intellettuali romanì hanno dovuto adattare-inventare un termine per descrivere qualcosa che i Rom e i Sinti "normali" non erano in grado di concepire, come somma di violenza e di cui neanche comprendevano la ragione.

Non sono in grado di fare statistiche approfondite, ma almeno in Italia quasi ogni famiglia ha avuto un parente internato o ucciso e per molti anni non se ne fece cenno: da una parte per le reticenze e l'ignoranza della storiografia ufficiale, dall'altro per la vergogna (molto privata) con cui le famiglie conservavano quella memoria.

Furono i Sinti tedeschi che verso la metà degli anni '70 iniziarono a far luce su un sistema di annientamento fisico e morale, organizzato in maniera scientifica e massiva.

Però non basta che una notizia sia conosciuta, non basta parlarne (magari per una settimana), perché resti qualcosa anche il resto dell'anno. Ma stavolta non intendo tornare sulle ragioni storico-politiche di un dopoguerra che non passa, visto che è un argomento che qui viene trattato sino alla nausea.

Torno al divoramento e a tutti i simboli connessi. Al vuoto che è rimasto dopo e all'incapacità dei nostri sistemi democratici di costruire una società inclusiva. Un vuoto che da una parte è stato riempito di vergogna e pudore, dall'altra la società maggioritaria (quella degli inclusi) ha imparato a convivere con i propri buchi neri della memoria.

Abbiamo anche noi la nostra vergogna: quella di scoprire il filo che lega la storia di 70 anni fa, con gli sgomberi e i piccoli e grandi razzismi quotidiani. Come in tempo di guerra, c'è chi vede le discriminazioni attuali e preferisce il silenzio, perché nonostante la nostra presunta evoluzione da allora, abbiamo sempre paura di essere additati come irriconoscenti a questo sistema che non ci ha permesso di evolvere, ma al limite di arricchirci. E nel contempo, ci consente di avere un capro espiatorio su cui sfogare i nostri corto circuiti.

Il vuoto, nuovamente, crea e si nutre del DIVERSO. E la paura fa chiudere gli occhi. L'importante è non doverlo ammettere, perché la nostra sicurezza potrebbe collassare come un castello di carte.

Succede allora che la marea di notizie che ci circondano, la scoperta che il Porrajmos è effettivamente avvenuto (nel nostro caso), perde la sua oggettività, e le notizie diventano come pedine di una partita a scacchi. Senza la conoscenza dell'ALTRO, il Porrajmos viene ridotto ad una disputa, dove pari sono chi lo ricorda e chi lo nega.

Non mi sorprende che allora ci sia qualcuno che in questo mercato delle notizie, dove gira di tutto a grande velocità e in centinaia di piazze mediatiche, per [noia, insicurezza, voyerismo ecc.] alzi ancora di più la voce, credendosi dissacratorio ed abbassandosi a fare l'ultra negazionista: il troll della situazione o il Borghezio in brufoli e pantaloni corti.

Anche lui è figlio del divoramento, deve riempire il suo vuoto, inventandosi una propria superiorità. Sognandosi una guerra personale da cui poter uscire vincitore.

Per lui, ho rubato queste considerazioni finali:

La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente
egualmente.
Bertold Brecht

 
Di Fabrizio (del 29/02/2012 @ 08:58:28, in Kumpanija, visitato 2540 volte)

Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono! (immagine da Terraelibertacirano.blogspot.com)

Conosco amici e compagni che sono convinti che il razzismo sia un patrimonio degli imbecilli... il ché vorrebbe dire che se qualcuno è minimamente intelligente-istruito, non dovrebbe essere razzista.

Visto che non sono d'accordo su questa affermazione, ho provato a dare delle spiegazioni a me stesso:

  1. quella più semplice era che, dato che chi lo pensa è di solito antirazzista, trova più diplomatico affermare di non essere razzista, piuttosto che dire di essere intelligente, col rischio di essere smentito prima o poi;
  2. del razzismo comunemente inteso, percepiamo gli aspetti eclatanti (le fiamme date ad un campo rom, la mensa comunale negata ai figli di stranieri, certe dichiarazioni sanguigne oltre gli steccati penali). Più a fatica individuiamo il brodo di coltura di questi fenomeni.
  3. Se ripenso, ad esempio, a come fu possibile la mobilitazione del III Reich contro gli Ebrei, vedo invece che gli intellettuali svolsero un ruolo chiave nel prepararla. Göbbels (non era l'ultimo arrivato) ben prima che il nazismo si facesse stato, intuì il ruolo dell'informazione (che in seguito passò alla scuola) come veicolo anestetizzante della propaganda; era già successo in passato, ma lui fu il primo ad adoperarla in maniera cosciente e sistematica. Parimenti intuì ed applicò il ruolo di braccio armato da delegare ai gruppi paramilitari. Quando le sue intuizioni da teoria si fecero pratica, la macchina dell'odio era un meccanismo così oliato che dalla guerra agli Ebrei passò alla guerra mondiale.

Passando dai ragionamenti alla pratica, lo spunto arriva da Reggio Emilia. Doppiamente interessante perché il network a cui fa capo la testata, si chiama 4minuti.it: vale a dire il tempo che mediamente un lettore distratto dedica a leggere e digerire una notizia.

Ma torniamo alla nuda cronaca, titolo e sottotitolo recitano:

    Rom, dopo l'aggressione di Massenzatico "Il Comune non si limiti alla solidarietà"
    La Lega Nord: bisogna fare rispettare la legalità

Di che si parla? Per motivi banali, qualche sera fa c'è stata una rissa in un locale del Reggiano. Un frequentatore è stato malmenato da un gruppo di "supposti nomadi". Si ignora chi siano gli aggressori.

Dopo queste indicazioni, l'articolo prosegue citando (oltre metà del pezzo totale) una dichiarazione di un consigliere comunale (il partito di appartenenza non mi interessa) da cui veniamo a sapere che la macchina degli aggressori è stata ritrovata abbandonata nei pressi del locale "campo nomadi".

Il tono generale della dichiarazione è fermo, ma nel contempo civile ed educato, niente a che fare con le sguaiatezze di un Borghezio, di uno Speroni o un Calderoli. Difatti il consigliere termina il suo ragionamento con questa frase, che chiunque potrebbe condividere: "Il rispetto della legalità è il primo requisito per la convivenza civile tra le persone, e Reggio non può e non deve tollerare in alcun modo che certi fatti rimangano impuniti".

E' però la penultima frase che ci riporta nel cortocircuito mentale del piccolo razzismo trasmesso in quattro minuti. Con lo stesso tono civile, si dice: "Qualora si accertassero responsabilità o anche solo connivenze o favoreggiamenti da parte di ospiti del campo nomadi di via Gramsci, da parte del Comune mi auspico che vengano presi i provvedimenti di cui al regolamento dei campi nomadi, e che a Reggio non ci sia alcuna ospitalità per questi individui".

Spiazzante quel "qualora" iniziale: non vi suonerebbe fuoriluogo se al posto di una comunità rom o sinta, fosse riferito a qualsiasi altro gruppo etnico? Se il regolamento prevede l'espulsione dei colpevoli ("presunti" tali o dopo essere passati in giudicato?), sapreste dirmi se conoscete un regolamento analogo per le case comunali, dove se qualcuno compie un crimine, o è semplicemente sospettato di esserne l'autore, perde il diritto alla casa? Nel vecchio regolamento del comune di Milano (decaduto lo scorso novembre), perderebbe il diritto alla piazzola di sosta l'intera famiglia del presunto colpevole.

La chiave è in un altro frammento di dichiarazione: "Sono anni che i cittadini di Massenzatico e di Pratofontana subiscono passivamente gli effetti negativi di una convivenza intollerabile con la comunità nomade, nel silenzio delle istituzioni..." da cui discende il "legittimo sospetto" che l'aggressione nel locale sia la scusa per un regolamento di conti ben più grave, per cui una comunità debba pagare le colpe dei singoli, ANCHE IN ASSENZA DI COLPA PROVATA.

Vorrei terminare questi pensieri, invitandovi a non chiedervi se ho parlato o meno di razzismo. Non è un razzista dichiarato chi ha fatto quelle affermazioni, ma credetemi, non lo sono neanche Borghezio, Gentilini, non lo era neanche Göbbels... solo vogliono fortemente che lo diventiate voi. Come sapete, nessun razzista ammetterà mai di essere tale.

Sono (stati) tutti attori, recitano una parte con diversi comprimari e spettatori paganti, al solo scopo di alimentare la continua macchina dell'odio. Sanno che la paura, il risentimento, l'incertezza fioriscono, mai come in questi tempi, e quindi parlano e ci manovrano di conseguenza. Ma in fondo, dipendesse da loro non farebbero male ad una mosca... ci sarà sempre chi svolgerà il lavoro sporco in vece loro.

 
Di Fabrizio (del 02/03/2012 @ 09:21:48, in Kumpanija, visitato 1542 volte)

Open ABC By Guest Blogger Yvonne Slee MON 27 FEB 2012

PHOTO CREDIT: UNKOWN PHOTOGRAPHER, BRISBANE LIBRARY PHOTO

Mi chiamo Yvonne Slee e faccio parte della comunità romanì di Coffs Harbour. Sono migrata in Australia nel 2005, arrivando dall'Europa. Impiego il mio tempo, sin dall'arrivo in Australia, come scrittrice, attivista ed educatrice.

La foto di una romnì e della sua famiglia è stata scattata nel 1907, poco dopo il loro arrivo a Brisbane su di un battello salpato dalla Grecia.

Foto esemplare, che si potrebbe adoperare per l'Open Project ABC Now and Then, volto a mostrare la storia di una comunità australiana.

La storia dei Rom data almeno 1000 anni addietro al tempo del loro esodo dall'India, dove gli invasori islamici, guidati da Mahmoud of Ghazni, allontanarono a forza i nostri antenati dalla patria natia. Altre informazioni potete trovarle sul mio sito dedicato alla storia delle comunità rom e sinti.

I Rom hanno trascorso centinaia di anni nell'Europa delle perduranti guerre, attraverso mancanza di comprensione per la nostra cultura, pregiudizi e difficoltà. Cercavano un futuro migliore per loro ed i loro figli. I Romnì erano sulle navi che per prime arrivarono in Australia nel 1788, e da allora sono stati migranti.

Dopo la II guerra mondiale, molti Romanì guardavano all'Australia come una nuova patria, arrivandovi con barche da 5 kg., portando seco le loro capacità di calderai, artigiani del legno, ramai ed addestratori di cavalli.

Negli anni '50, '60 e '70 si sono visti accampati sulla costa orientale dell'Australia, in posti come Nudgee Beach vicino a Brisbane e sulla costa Nord Sud ovest da Orange fino a Mildura.

Usavano grosse macchine americane per trainare le loro grandi carovane argentee, dove vivevano mentre svolgevano lavori stagionali presso fattorie, orti, stalle o viaggiando con le fiere di divertimento, accampandosi in tendoni.

Quei giorni nomadi sono ormai finiti da tempo. La maggior parte dei Romanì residente in Australia vive e lavora in città e paesi di tutto questo suo vasto continente. Non pochi hanno studiato sino all'università, diventando professori ed insegnanti.

Mio marito e io siamo entrambi Romanì, e viviamo a Coffs Harbour con i nostri tre figli. Siamo arrivati in Australia nel 2005 dall'Europa. Mi piacciono le nostre tradizioni, molte delle quali di radice indiana. La mia preferita è la cucina romanì, che con quella indiana condivide l'uso di svariate spezie.

Mi piacciono anche i balli e le canzoni ed imparare la nostra lingua. La parola romanì discende dal sanscrito, e così molti vocaboli della nostra lingua. Abbiamo centinaia di parole hindu usate nel romanés.

Ci sono 12 milioni di romanì che vivono in Europa, 2 milioni nelle Americhe e circa 25.000 in Australia. Sono orgogliosa di essere una di loro.

Ora sono cittadina australiana e ritengo che l'Australia continuerà a beneficiare dell'avere una società multiculturale, dove le varie ed interessanti differenze tra tutte le culture creeranno una maggior tolleranza e comprensione nel nostro mondo e tra le persone che vi convivono.

 
Di Fabrizio (del 03/03/2012 @ 09:02:48, in Kumpanija, visitato 1798 volte)

Serata organizzata dall'Associazione La Conta, in occasione della ricorrenza dell'8 MARZO 2012, alle ore 20,45 di giovedì 8/03/2012, con ingresso libero e gratuito, alla CGIL Salone di Vittorio in Piazza Segesta 4, con ingresso da Via Albertinelli 14 (discesa passo carraio) a Milano.

In particolare la serata sarà dedicata donne Rom e Sinti attraverso i racconti, le storie, le testimonianze di Dijana Pavlovich, attrice e mediatrice culturale, e di altre donne Rom e Sinti. Sarà serata di unità multiculturale ed inclusiva dei Rom e dei Sinti della nostra città e non solo, per conoscere meglio le loro passioni, la loro condizione e la loro cultura e per contribuire ad annullare il pregiudizio e la marginalità. La serata si concluderà con un buffet offerto a tutti i presenti.

 
Di Fabrizio (del 05/03/2012 @ 09:04:35, in Kumpanija, visitato 1438 volte)

(immagine da 5dollardinners.com)

Non fatevi prendere in giro dal titolo, non mi sono montato la testa. Anzi, è probabile che la confusione sia maggiore del solito così, dopo avere passato la cera nella roulotte ; - ) vorrei mettere in ordine anche in testa. Chi mi aiuta?

E' dal rogo di Torino del dicembre scorso, che quella di dare un volto al "razzista fatto in casa" è diventata una mia personale ossessione, che ha sovente "ammorbato" la Mahalla.

    Ammorbato...?? A dire il vero ho notato, con stupida soddisfazione, che dopo anni a dibattere dei temi più disparati, se per caso le stesse cose le scrivo adoperando la parola magica "razzismo", aumentano visite e commenti; insomma, sembra che quella parola piaccia a molti lettori.

Purtroppo, mentre la situazione del razzismo in Italia si fa sempre più preoccupante (soprattutto per chi la osserva da fuori Italia), la parola in sé è talmente abusata che riesco a scriverne principalmente attraverso PARADOSSI. Come questi:

In realtà, non mi interessa la disputa accademica, ma individuare un numero TOT di cause, per trovare le possibili vie d'uscita, senza doversi nascondere dietro parole nobili come SOLIDARIETA', DIALOGO, COMPRENSIONE, la stessa DIRITTI, che col tempo sono diventate altrettanto abusate e quindi innocue. Più o meno questa la sintesi a cui ero giunto:

    Il razzismo rimane vivo, vegeto e pericoloso (vedi Torino e Firenze il dicembre scorso). Ma come elemento "chimico" allo stato puro è percentualmente raro, e se devo considerarlo una forma di idiozia, è perché dopo Hitler, la decolonizzazione, la sconfitta politica del KKK negli anni '60, ha perso il suo ruolo storico.
    Esistono, ed in tempo di crisi si rafforzano, situazioni di crisi non affrontate dalla mediazione politica classica. Rimescolamento dei confini e dei mercati, circolazione autonoma od indotta di persone, sono da un lato UNA delle cause della crisi, dall'altro forniscono una via di sfogo contro chi può essere aggredito-calunniato-discriminato senza possibilità di difendersi. Quindi un un razzismo SPURIO e DIFFUSO, contaminato da altre motivazioni, in pratica continua l'atto (individuale-collettivo) razzista, in assenza di chi si dichiari tale o riconosca il proprio razzismo.
    Ma per essere VIA DI SFOGO, occorre un quotidiano "lavoro ai fianchi" attraverso giornali, tv, internet, le stesse istituzioni (generalizzando: chi dovrebbe fare il cane da guardia della crisi), per fornire al cittadino medio questo nemico interno od esterno che dovrebbe essere la causa del malessere. Chi svolge questo lavoro "d'informazione-propaganda", è tutt'altro che scemo, viene retribuito per ciò che fa, è (che Gramsci mi perdoni...) un intellettuale organico ad una causa, e questa non è tanto il razzismo quanto il superamento "in senso reazionario" della crisi.

Il razzismo non come FINE, ma come MEZZO. In quanto tale, i suoi confini sono mobili, come si conviene ad una guerra di posizione. Ma il razzismo come mezzo, significa che, da Göbbels in avanti, il razzismo "scientifico" è un laboratorio politico di ciò che prima o poi riguarderà tutti. Da un lato, è quello che recita con parole semplici la famosa poesia di Niemöller (ricordate? Prima vennero a prendere gli zingari...), dall'altro me ne resi conto circa sei anni fa, quando iniziarono ad arrivare notizie inquietanti dalla Val Susa. Allora facevano clamore le rivolte urbane a Parigi, oggi sta succedendo ad Atene, l'estate scorsa fu la volta di Londra, in Val di Susa non è cambiato molto... E poi ripensai anche a Genova 2001.

Vorrei chiedervi, gentili lettori, che effetto fa sentirsi parte di un esperimento da laboratorio condotto su Rom e Sinti, di cui sarete le prossime cavie? Voi, che magari siete contro la sperimentazione sugli animali... E così rendersi conto FINALMENTE, che comprendere, dialogare (e magari solidarizzare) con questa gente non è "buon cuore", ma farsi prestare una potente SFERA DI CRISTALLO per leggere il vostro futuro (e studiare il comune passato).

Perché, capitelo se volete salvare la pelle, non avete la certezza di stare a destra o sinistra, dovete piuttosto immedesimarvi nei panni di un bersaglio mobile nella Sarajevo anni '90, preda di cecchini nascosti dalle cento bandiere, pronti contemporaneamente a sorridervi o spararvi a seconda del momento.

Gli ultimi pensieri vanno alle cronache che arrivano dalla Val di Susa, immaginandomi come la descriverebbe la stampa "libera" se al posto di Chiomonte i fatti riguardassero una sperduta località in Venezuela, Russia, Uganda, Corea del Nord... Così come nel razzismo mediatico esistono il poliziotto buono ed il poliziotto cattivo, anche riguardo alla TAV ci sono i ragionevoli (Corriere, Repubblica, Stampa) che se devono dare del cretino ai rivoltosi lo fanno sottovoce e con educazione, e quelli che ragionevoli non riescono proprio ad esserlo (tipo Libero o il Giornale).

Così finisce che la ce la prendiamo con gli ultimi, perché sintetizzano quello che i primi non scrivono. Tutti e due, con un metro differente, non danno spazio a quello che sarebbe un PRINCIPIO OVVIO, se lo scopo fosse quello dichiarato, cioè: la fine delle violenze ed il dialogo, nell'interesse generale della nazione.

Però, quel Cretinetti a tutto tondo, mi riporta ad una similitudine con "chi non è razzista, ma vuole che lo diventino gli altri". Mi viene in mente, inizio anni '90 circa, i miei figli erano piccoli, ed alla TV assistevano impassibili a sbudellamenti vari nei cartoni animati; ma avevano terrore quando per caso erano ripresi Ferrara o Sgarbi con la bava alla bocca. Eppure, tralascio ogni considerazione politica-morale, a saperli prendere sanno essere persone, non dirò squisite ma educate e ragionevoli, a volte addirittura di larghe vedute.

Quel Cretinetti, non spiega niente delle ragioni PRO TAV, è il corrispondente calcistico di un fallo commesso lontano dalla palla e a gioco fermo. Lo scopo è perpetuare LA CREAZIONE DEL NEMICO, ma attenzione: il bersaglio è doppio (e mobile, oserei dire CULTURALE). Da una parte, chi vuole essere convinto che basta essere NO TAV per diventare pericolosi terroristi; dall'altra, chi condivide le ragioni della protesta tenderà a rinchiudersi in una difesa AUTISTICA e sempre PIU' A RISCHIO DI DERIVE VIOLENTE: semplificando: un atteggiamento del tutto simile e speculare al razzismo.

E' impedire il dialogo, o quella pallida speranza che ne resta, lo scopo. Io, nonostante sia convintamente NO TAV, trovo che quel che manca (ora, sei anni dopo il primo articolo) sono le condizioni per dibattere civilmente (e confrontandosi su dati e prospettive REALI) tra le due ragioni. Noto una cosa che mi fa paura quanto il progredire del cantiere o il comportamento della polizia: l'intolleranza crescente fra due fazioni di cittadini, per altro tra loro simili.

Cittadini, ripeto, come cavie di un esperimento sociale. Cittadini, e finalmente chiudo con i ragionamenti, che da Rom e Sinti possono imparare (eccolo: il confronto necessario) come resistere INTELLETTUALMENTE a manganellate e giornalisti, senza dover portare odio (ma anche senza considerare stupido l'avversario) perché, ricordatelo, il domani non è mai sicuro, ma case, carovane e baracche ci saranno ancora, amministratori, politici e pennivendoli invece passano... PASSANO TUTTI.

 
Di Fabrizio (del 14/03/2012 @ 09:20:15, in Kumpanija, visitato 1366 volte)

PROBLEMI GENERALI DEI ROM IN BRASILE - Ge Victor

  • Accesso ai documenti d'identità obbligatori. Il nomadismo è uno dei pretesti più ricorrenti, soprattutto da parte degli uffici incaricati, che a volte impediscono la registrazione ufficiale dei dati personali dei gitani. Cioè, in termini legali la persona gitana, non esiste in quanto non possiede documenti. Occorre quindi considerare che le questioni del lavoro e dell'alloggio, pratiche commerciali incluse, quindi le condizioni generali di vita si siano adattate in "mancanza" di condizioni civili, estranei a standard sociali legali. Da qui l'associazione alla marginalità. Un'altra aggravante all'inesistenza ufficiale si traduce con la mancanza di dati certi sul numero dei gitani in Brasile. Sondaggi aleatori ed ufficiosi  indicherebbero una cifra tra 650 mila ed 1,2 milioni, divisi in gruppi etnici distinti. Sono anche inesatte le informazioni sui gitani considerati "civilizzati", perché molti di loro, pur preservando lingua e tradizioni, non assumerebbero tratti identitari propri, o sarebbero portati a non farlo, per paura di essere discriminati.
  • Accesso alla sanità pubblica. Come conseguenza delle tradizioni (che prevedono la nascita dei figli dentro le proprie tende) e di trattamenti pubblici indebiti, alla madre gitana è negato l'accesso alla "carta ospedaliera" ufficiale, e quindi la registrazione dei dati preliminari di identificazione dei propri figli. Quella carta risulta indispensabile per ottenere altri documenti, ad es. il certificato di nascita. Inoltre, senza di essa non è possibile aver accesso legale ad altri documenti da utilizzare per i servizi pubblici, come il pronto soccorso, le vaccinazioni, ecc.
  • Accesso alla pubblica istruzione e permanenza a scuola. Non è raro che i bambini gitani si vedano  negato il diritto all'iscrizione ed alla frequenza scolastica, a causa delle tradizioni familiari e del modo proprio di vita e di relazionarsi. A parte queste difficoltà, una volta iscritto il bambino gitano affronta ulteriori difficoltà dovute alle sue tradizioni. Pur avendo idiomi e dialetti propri, i gitani legati alla tradizione sono considerati analfabeti, in quanto non utilizzano simboli grafici (lettere e numeri) nella loro comunicazione e nella trasmissione delle conoscenze tradizionali, delegate alla pratica orale. Occorre pensare e fornire un modello educativo che tenga conto delle specificità delle comunità gitane, riguardo la lingua e l'ortografia, i curricula, il materiale didattico-pedagogico ed i contenuti programmatici, ispirandosi ai precetti della Dichiarazione Mondiale sull'Istruzione per Tutti.
  • Accesso alle installazioni e permanenza negli spazi pubblici in aree urbane. Non esistono indicazioni da parte dei poteri pubblici o dei gestori degli spazi e della pubblica sicurezza, per assicurare ai gitani il diritto di stazionare con le carovane o di stabilirsi in accampamenti provvisori, senza essere molestati da polizia ed autorità locali. Nella maggior parte dei casi le difficoltà di accesso agli spazi pubblici sono chiaramente associate a discriminazioni o intolleranza, date le condizioni precarie offerte, le rigide imposizioni di comportamento sociale e di transito; le richieste -talvolta abusive - di  permessi, imposte, tasse ecc.
  • Inclusione sociale e culturale. I valori culturali non sono riconosciuti o rispettati. Per questo, frequentemente si è vittima dei preconcetti. L'ignoranza generalizzata sulle origini, costumi e diritti dei gitani, è causa di stigma e di trattamenti stereotipati. Cioè, per meglio dire, l'essere gitano è associato il più delle volte ad un sinonimo di emarginazione. Questi tratti storici sono stati coltivati ed ingranditi, incluso - nella letteratura di genere - racconti di vita vissuta o immaginari. Così come gli ebrei, gli indios ed i negri, i gitani soffrono - giorno per giorno - di discriminazione sociale e culturale.
  • Mantenimento delle tradizioni, delle pratiche e del patrimonio culturale. I concerti e gli spettacoli "mambembes", i mestieri tradizionali come la la lavorazione dei gioielli, del metallo e del rame, stanno sparendo di fronte a realtà più affermate. La libera circolazione degli spettacoli, riferimento simbolico della pratica teatrale brasiliana, oggi è quasi scomparsa, sia per la massificazione dell'industria culturale, che per la mancanza di incentivi pubblici e privati. Le memorie ed i referenti culturali gitani, tradizionalmente conservati e tramandati in cassepanche intoccabili dentro le tende, stanno dissipandosi in mancanza di una politica di divulgazione pubblica, che protegga e cataloghi questo ricco patrimonio. Nel campo letterario non ci sono pubblicazioni sui gitani, e quando sono citati avviene in modo dispregiativo. La situazione si ripete al cinema e nella televisione, a volte inzuccherata dalla bellezza e dalle pratiche esotiche tradizionali della cultura gitana. In questo senso, si rende urgente stabilire processi di recupero e riscatto delle conoscenze, dell'autostima, dei saperi e capacità tradizionali delle culture gitane.
 
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