Rom e Sinti da tutto il mondo

Ma che ci fa quell'orologio?
L'ora si puo' vedere dovunque, persino sul desktop.
Semplice: non lo faccio per essere alla moda!

L'OROLOGERIA DI MILANO srl viale Monza 6 MILANO

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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Fabrizio (del 24/07/2010 @ 09:47:38, in Kumpanija, visitato 1716 volte)

Segnalazione di Stefano Romboli

Zajko. Un video di Africa Insieme from Africa Insieme on Vimeo.

Gli 81 anni di vita di Zajko, rom bosniaco: da partigiano a fianco di Tito ad esule delle guerre Jugoslave degli anni '90, da barista nell'Italia degli anni '50 a caldaraio a Pisa nel 2010. Invalido per un problema alla mano, non puo' avere una pensione perche' non in possesso di alcuni requisiti particolari richiesti agli stranieri per legge. Il contrasto (o forse la continuita') tra una vita scampata per una fortunata coincidenza alla morte in un campo di concentramento e una vita passata in un "campo nomadi" pisano di una persona che nomade lo e' stata solo per fuggire alle guerre e alle persecuzioni.

Video di Sara Palli, Alice Ravasio, Francesca Sacco, Marta Lucchini, Irene Chiarolanza, Diana Ibba. Prodotto dall'associazione Africa Insieme di Pisa nell'ambito del progetto "volontari come in un film", con la collaborazione di CESVOT, AIART, Progetto Rebeldia.

Musiche originali di Pasqualino Ubaldini

Pisa, Giugno 2010

 
Di Fabrizio (del 23/06/2010 @ 09:35:10, in Kumpanija, visitato 1514 volte)

Da Roma_Francais

Nelle regioni del Draguignan e del Fréjus, i viaggianti hanno perduto tutto (vedi QUI ndr)... Le carovane che sono le loro abitazioni, furgoni, vetture e tutti i beni (vestiti, pentole, attrezzi...). Dovete sapere le carovane non possono essere assicurate come abitazioni... Dunque questa gente non ha più dimora e non sarà indennizzata, o lo sarà pochissimo... Manca tutto... Non sono in carico ai comuni sinistrati perché non vi sono domiciliati... Sono reinviati al loro comune dove sono registrati, comuni non sinistrati e che non hanno sovvenzioni per aiutarli!

Faccio quindi appello a chi possa inviare a:

Madame RODEMET Claire
Chemin des Pétugues, 83340
Le Cannet des Maures

[...] Una rigorosa contabilità verrà aggiornata tramite facebook giorno per giorno e vi terrò al corrente di quanto riceveremo e di quanto faremo...

Mi appello al vostro buon cuore... Molte persone sono all'aperto con vecchi, bambini e malati senza più niente oltre che già fortemente discriminati... La situazione è grave... Sulla nostra regione continuano le tempeste... Ogni aiuto è il benvenuto... Un grosso grazie in anticipo a quanti forniranno in qualche maniera un aiuto provvidenziale.

Esméralda Romanez
Vice présidente de la fondation kale, manouches, romany, sinté women
Présidente des associations Samudaripen et A.M.I.D.T
Mas de l’Ange Gardien
148, Chemin des Pétugues
83340 – Le Cannet des Maures
Téléphone 06 67215333

 
Di Fabrizio (del 08/06/2010 @ 09:10:22, in Kumpanija, visitato 1799 volte)

Da Roma_Daily_News (altre notizie su Amoun Sleem)

GoJerusalem.com

Un centro comunitario preserva il patrimonio culturale dei circa 1.500 Dom che da centinaia di anni vivono nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Amoun Sleem ricorda quando mendicava con altri giovani per le strade della Città Vecchia, un modo tradizionale con cui guadagnavano un po' di soldi per le loro famiglie. Ma un giorno comprese che la sua vita, e quella della comunità, doveva cambiare, e lanciò una campagna per migliorare la sorte di un gruppo che molti gerusalemiti neanche sapevano esistesse nella città.

"Decisi che questo non era ciò che volevo," dice Sleem (in foto), il cui vero nome, che significa speranza, è legato a quello che lei e gli altri suoi collaboratori stanno tentando di dare ai circa1.500 zingari che vivono a Gerusalemme da oltre 500 anni, come dice lei. Con radici in India, Persia, Turchia e nei Balcani, questo gruppo è noto come la comunità Dom della città, molti dei quali sono musulmani, a differenza dei Rom europei che sono cristiani. Ci sono comunità dom sparse in tutto il Medio Oriente.

Di quanti sono rimasti a Gerusalemme - molti scapparono durante o dopo la Guerra dei Sei Giorni - quasi tutti vivono in un'enclave vicino alla Porta dei Leoni, come la famiglia di Sleem, che ha mantenuto la stessa casa per 200 anni. Mentre in precedenza gli zingari si spostavano da un posto all'altro, oggi hanno adottato uno stile di vita più sedentario, e Sleem dice che "avere una stabilità è meglio del vagare."

Molti componenti della comunità hanno lasciato il linguaggio nativo domari per l'arabo. Ora Sleem ed i suoi collaboratori stanno lavorando per preservare e migliorare la comunità, soprattutto attraverso le donne e i bambini, per superare la povertà e l'analfabetismo, mantenendo vive le tradizioni.

Assieme alle donne, tradizionalmente escluse dalla forza lavoro, Sleem ha fondato nel 1999 a Gerusalemme la Domari Society, ed un Centro Comunitario nel 2005, nel quartiere di Shuafat. Al centro, corsi di cucito ed altre attività, viene venduto artigianato ed altri oggetti. Intanto, Sleem e la sua squadra di lavoro si rivolgono alla loro comunità per migliorare la loro sorte. Programmi pomeridiani forniscono assistenza, sono state ridotte le tasse scolastiche, e quando inizia la scuola vengono distribuiti nuovi zaini e materiale scolastico. "Li incoraggia ad andare a scuola," dice Sleem, "possono sentirsi come tutti gli altri bambini."

Le donne apprendono mestiere attraverso corsi da parrucchiera, ad operare in piccole attività come il catering o la produzione artigianale, ed aiutate a condurre le loro famiglie, di solito estese. Sogna che "anche gli zingari aprano un'attività propria,... magari un ristorante," offrendo piatti come il kishk, uno yogurt che contiene bulgur (grano cotto e spezzato, ndr), ed il loro tea tipico. "In questo momento mi sento come se la mia società stesse tornando lentamente alle sue radici," dice.

Quando oggi vede giovani zingari a mendicare, Sleem ricorda se stessa a quell'età. "Mi si spezza il cuore, ma fornisce anche una sfida per lavorare più duramente... Dobbiamo continuare a provare, e nulla ci fermerà fino a raggiungere i nostri obiettivi e le speranze," dice. "E 'una specie di sogno per me, e non mi arrenderò fino sentirò di avercela fatta".

To arrange a visit to the Gypsy Community Center, call +972-(0)54-206- 6210.

 
Di Fabrizio (del 04/06/2010 @ 13:12:48, in Kumpanija, visitato 1688 volte)

Ricevo da Marco Brazzoduro

Domenica 6 giugno, dalle 11.30
Metropoliz – via Prenestina 911 - Roma

La comunità dei rom e delle romni provenienti dalla Romania, sgomberati nel novembre 2009 da via di Centocelle e da allora al centro di un percorso di rivendicazione del proprio diritto all'abitare degno assieme ai BPM, organizza un pranzo tipico di auto-finanziamento per continuare il proprio percorso di auto-determinazione.
Un pranzo (7 euro, all inclusive!) che vuole diventare anche un punto d'incontro per parlare di sé, della propria storia, della propria lotta, un pranzo per superare il pregiudizio attraverso il contatto diretto, attraverso i propri occhi e la propria pelle.
Si potrà inoltre ricorrere ai servizi della ciclo-officina, ascoltare la musica rom, acquistare oggetti al mercatino del riuso, giocare con i bambini, parlare e confrontarsi... Un pranzo per ribadire che l'unica risposta alla speculazione e al consumo del territorio si chiama auto-determinazione, verso la nascita di una città meticcia davvero accogliente.
Vi aspettiamo!

Popica Onlus
www.popica.org 
5x1000 a Popica - c.f. 97436100586

 
Di Fabrizio (del 29/05/2010 @ 11:33:32, in Kumpanija, visitato 2903 volte)

Ciao Fabrizio
Ti racconto un po' come è andata in Camargue.
Non è facile raccontare o scrivere di queste cose, vanno vissute... comunque ci provo.

Sabato ventidue ho caricato mio figlio Pietro all'uscita di scuola e poco dopo l'una siamo partiti.
Tirata unica, ci siamo fermati il tempo di riempire il serbatoio e vuotare la vescica: siamo arrivati verso le otto di sera. La chiesa era aperta, ma la cripta chiusa, e non siamo riusciti a salutare santa Sara. Abbiamo fatto un giro per il paese: tantissimi musicisti, uno più bravo dell'altro. Ci siamo innamorati di un gruppo di trombettisti moldavi (Fanfare Vagabontu).
Abbiamo dormito in macchina nel parcheggio del centro, il mattino dopo ci siamo mossi prima delle otto: dopo le otto si paga. Abbiamo deciso di fare un giro a les Salines, con corsa in macchina sulla lunghissima spiaggia. Questa spiaggia è misteriosa, ogni volta che vado è diversa: questa volta ci si corre in auto per chilometri senza piantarsi; l'anno scorso ci si affondava, come se fossero sabbie mobili, anche a piedi.
La spiaggia è piena di baracche e roulottes, da un certo punto in poi inizia la zona riservata ai nudisti. I nudisti, contrariamente a quello che ci si immagina, non sono dei fricchettoni con i capelli rasta di vent'anni, ma dei distinti signori di cinquanta, sessanta anni che girano completante nudi.
Dopo un secondo passaggio a les Salines, dove abbiamo visto una confusa (da dove si parte? Dove si arriva?) ma simpaticissima parata tradizionale, siamo ripartiti per les Saintes Maries. Il richiamo di santa Sara è sempre più forte.
Il paese incomincia a riempirsi di gente, in centro non si parcheggia più.
L'incontro con S. Sara è sempre emozionante, non si riesce a trattenere la commozione. Non so se qualcuno è mai riuscito a capire come mai santa Sara è diventata la patrona dei gitani, ma se uno viene in questa chiesa il 24 di maggio capisce che non potrebbe essere diverso.
Durante la giornata si gira per il paese ascoltando questi musicisti fantastici, e si fanno diversi passaggi nella cripta, a salutare la nostra patrona, a dire una preghiera o ad accendere un cero (che come sempre abbondano).
Durante la serata si canta e si balla, si ascolta musica e si incontra gente. Girando per i campi si incontrano gruppi e famiglie che suonano, mangiando piatti di ricchissima paella e bevendo vino bianco.
Il pellegrinaggio raduna sempre tanti fotografi (forse troppi), da qualche anno richiama anche una serie di "personaggi alternativi", come artisti di strada, buskers e giramondo.
Lunedì mattina ci svegliamo già elettrizzati: facciamo una colazione veloce, offerta da una famiglia di gitani che vengono da un paese dell'est che non sono riuscito a individuare e che hanno dormito in furgone di fianco a noi, ci vestiamo eleganti, e si parte per la chiesa. Per non rimanere fuori bisogna entrare in chiesa verso le due, per sicurezza entriamo all'una, forse un po' troppo in anticipo, ma abbiamo tutto il tempo di prepararci.
Questo è il momento per cui vale la pena fare quasi duemila chilometri e dormire in macchina per tre notti. La preparazione è straordinaria, ognuno porta una veste, un drappo, un fiore, il gioco di un bambino, le foto dei propri cari (io le foto di mia moglie e dei figli) per abbellire la santa, e perché vengano portati in processione. E' un momento molto forte, più di uno si fa prendere dall'emozione.
Le casse con le reliquie delle sante vengono fatte scendere dalla cripta superiore, il vescovo e i preti devono dire qualcosa (forse troppo?), qualcuno piange, qualcuno sviene e qualcuno strilla.
La santa viene caricata in spalla dai portantini, si parte. La gente è veramente troppa, i fotografi, i turisti, i cavalli… tutti spingono per seguire la santa.
Una delle cosa che mi ha sempre colpito è la processione che si ferma ogni volta che un anziano o un malato chiede di poter toccare la santa. Il rispetto per le persone malate, invalide o anziane che hanno i gitani è da imparare.
Si raggiunge il mare, seguiti dai cavalli e dai musicisti (urs karpaz) che dedicano un pezzo alla santa.
Il ritorno è più tranquillo, e nell'ultimo tratto la santa viene portata a spalle dalle donne gitane. Forse è vero che la società gitana è maschilista, ma non so in quante processioni hanno questa attenzione.
La processione finisce, santa Sara viene riaccompagnata alla cripta.
Un ultimo saluto, un cero, una preghiera per gli amici e le persone care, e siamo pronti per rimetterci in strada.
Subito dopo la processione si sente la smania di ripartire, nel giro di poche ore il paese si svuota: il popolo viaggiatore sente bisogno di rimettersi in marcia.
Mi sono fatto l'idea che il rischio peggiore in questo periodo per il popolo gitano sia perdere le proprie tradizioni e la propria identità. Il pellegrinaggio di santa Sara, il fatto di incontrarsi e di festeggiare assieme, la musica, i costumi e i balli danno ai gitani la possibilità di ricordarsi e ri-incontrare questa identità, la fede in santa Sara dà loro un'identità che altrimenti sarebbe troppo facile perdere.
Come sempre non ho fatto foto, un po' perché non sono capace e sicuramente in internet se ne possono trovare di migliori di quelle che farei io, un po' perché vado a les Saites Maries come pellegrino, non da "turista" che deve tornare con dei souvenirs.
Il ritorno è stato più rilassato, con varie tappe qua e là.

Mi son scritto queste note un po' per me, per non dimenticarmi, e un po' per te: se vuoi inserirle nel blog fai pure (magari taglia, fai un po' te…).
Ciao, [...]
Marco[Beri]

 
Di Fabrizio (del 27/05/2010 @ 08:50:37, in Kumpanija, visitato 2898 volte)

In attesa dell'incontro di stasera con Paul Polansky, ecco un suo articolo su Sagarana.net. La segnalazione è di Alessandra Meloni



Da quasi quindici anni vivo con gli Zingari Rom dell'Europa orientale per mettere insieme le loro storie orali. Ho vissuto con loro anche in qualità di poeta, romanziere e attivista per i diritti umani. Ma recentemente la maggior parte della mia vita è stata impegnata a registrare le loro storie, tradizioni e costumi.

Ho iniziato a mettere insieme le loro storie quasi per caso dopo aver scoperto in un archivio ceco, 40 mila documenti su un campo di sterminio per zingari esistente nel sud della Boemia durante la seconda guerra mondiale. Dal momento che il campo era stato costruito e gestito da cechi, il governo stava ancora cercando di occultare ciò che era accaduto lì nel 1942-1943, sostenendo che non c'erano sopravvissuti. Anche il Presidente Havel in persona disse che non c'erano sopravvissuti, anche se io scoprii successivamente che in molti gli avevano scritto per avere il suo aiuto nel rivendicare il diritto ad una indennità. Quindi queste furono le prime storie orali che raccolsi sui Rom, più di cento dopo un anno trascorso a cercare e trovar sopravvissuti.

Negli ultimi dieci anni ho vissuto in Kosovo e Serbia, come capo della delegazione per la Society for Threatened Peoples. In quel periodo ho filmato più di 200 interviste ai Rom in tutte le repubbliche della ex Yugoslavia. Da questo progetto di tre anni sono risultati tre volumi (1,553 pagine), il cui titolo è “ONE BLOOD, ONE FLAME: the oral histories of the Yugoslav Gypsies before, during and after WWII.”

Di recente, mi sono recato in Bulgaria per intervistare dei vecchi Rom ed espandere così le mie ricerche nei Balcani. Mi sono concentrato in particolare sugli insediamenti dei Rom sulle montagne lungo il confine con la Grecia. Fino a 30 anni fa quella era un'area in cui molti zingari viaggiavano ancora con cavalli ed carri, vivendo in tende, spostandosi di villaggio in villaggio per vendere i loro prodotti tradizionali, coma cesti, calderoni, cucchiai di legno, ed ombrelli fissi.

Mi sono anche interessato ai Rom che vivono nelle vicinanze di montagne innevate, perché molti dei primi insediamenti di zingari in Europa erano di fronte a cime innevate: dal monte Ararat nella Turchia orientale a Granada nella Spagna meridionale. Come affermano molti antropologi specializzati in migrazioni, i pionieri trovano quasi sempre una terra che ricordi il loro paese d'origine.

La maggior parte delle persone sbaglia pensando che gli zingari siano nomadi. La maggior parte di loro non è mai stata costantemente in viaggio. La maggior arte di loro viaggiava nei mesi estivi per vendere gli oggetti che facevano durante l'inverno a casa. Dalla primavera inoltrata fino all'inizio dell'autunno, viaggiavano di mercato in mercato per vendere cesti di giunchi, ferri di cavallo, briglie, setacci e tamburelli. Altri zingari viaggiavano nello stesso periodo in cerca di lavori stagionali nei campi: piantare, zappare e fare il raccolto.

Una delle migliori storie che ho messo insieme sui Rom che vivono in abitazioni fisse è la leggenda del serpente domestico. Per molti anni ho creduto che solo i rom kosovari credessero in questo mito. Ma nell'ampliare il mio progetto sulle storie orali dalla ex Yugoslavia all'Albania, alla Grecia e alla Turchia, ho scoperto che la maggior parte dei Rom crede ancora di avere un serpente che vive nelle fondamenta delle case e che protegge la famiglia.

Alcuni dicevano che il serpente era tutto nero, altri che aveva la pancia bianca. Alcuni lo chiamavano il Figlio di Dio, altri il Figlio della Casa. Alcuni pensavano che ogni notte uscisse e strisciasse su tutte le persone che dormivano in casa per proteggerle e portar loro fortuna. Molte di queste storie sul serpente domestico differivano per alcuni dettagli, ma tutte concordavano su una cosa: se il serpente domestico fosse stato ammazzato, qualcuno della famiglia sarebbe morto e per molti anni ci sarebbe stata sfortuna.

Tutti gli zingari che ho intervistato sulle montagne in Bulgaria ancora credevano nel serpente domestico; e ciascuno di loro aveva una storia da raccontare su qualcuno che era morto perché un membro della sua famiglia aveva ammazzato il serpente domestico.

Senza dubbio questa leggenda viene dall'antica India, dove, in molte aree, vedere un serpente è ancora considerato di buon auspicio. I serpenti uccidono i parassiti; i parassiti portano malattie; le malattie uccidono. Per cui se uccidi il tuo serpente domestico, qualcuno nella tua famiglia potrebbe morire di colera. Ma a mio avviso l'aspetto più importante di questa tradizione è che essa ci rivela che gli zingari vivevano in abitazioni prima della grande diaspora. I nomadi che per tutto l'anno vivono in tende non hanno un serpente che vive nelle fondamenta domestiche.

Durante il mio recente viaggio in Bulgaria, è stato eccitante per me scoprire che le famiglie Bulgare da noi intervistate (o almeno i loro antenati) utilizzavano ancora gi stessi rimedi fatti in casa per curare le malattie. Il più comune rimedio fatto in casa dai Rom bulgari consisteva nel mettere un topolino appena nato in una bottiglia di acqua e poi, dopo diversi giorni, utilizzare quest'acqua, poche gocce alla volta, per curare il mal d'orecchi, specialmente nei bambini. I Rom kosovari, d'altro canto, mettono un topolino in una bottiglia di olio, ma non usano quest'olio finché il topo non si è completamente decomposto, il che a volte avviene anche dopo un anno. Ma tutte le nonne hanno giurato sul sole che la medicina del topolino, come cura per il mal d'orecchi, era migliore di qualunque altro prodotto farmaceutico usato oggi.

A proposito del Sole, esso è sempre stato uno degli argomenti che affronto quando intervisto gli zingari. Soprattutto sulle montagne della Bulgaria, ogni volta che parlavo di religione, ottenevo la stessa risposta: “Noi crediamo al Sole e a Dio.”

Da diversi anni porto avanti l'idea che gli zingari fossero originari di due aree diverse, prima di unirsi. Un'area, come ho già detto, deve essere stata una terra vicino ad una qualche cima innevata. L'altra zona deve essere stata dove veniva adorato il sole.

All'inizio del secolo scorso, sulla rivista della Gypsy Lore Society in Gran Bretagna, fu pubblicato un articolo di una pagina di un missionario cristiano a cui era stato chiesto di trovare zingari in quest'area e chiedere loro da dove provenissero originariamente. Questo missionario, che lavorava nella Turchia orientale, disse che gli zingari da lui trovati si autodefinivano Dum. Alcuni dissero di provenire dalla Cina, altri dal piccolo Egitto.

Nessuno aveva mai menzionato la Cina in precedenza come luogo di origine degli zingari, mentre il piccolo Egitto era già storia conosciuta. Nel 15° secolo, quando bande di zingari stavano già viaggiando per l'Europa centrale e occidentale, i loro capi dicevano di provenire dal Piccolo Egitto. Perciò essi furono chiamati (ed in molte zone vengono tuttora chiamati) Egyptians (egiziani) o Gypsies (zingari).

Ma dove si trovava il piccolo Egitto? Dalle mie ricerche ho ragione di credere che si trattasse di Multan, l'antica capitale del Punjab, dove per tre secoli, all'incirca dal 950 al 1250, gli esiliati egiziani musulmani governarono la città. Infatti a quei tempi, i gruppi consistenti di esiliati erano soliti chiamare la loro nuova terra dal nome del loro vecchio paese; di qui Piccolo Egitto.

Ma Multan a quel tempo aveva anche il più famoso tempio del Sole in India, che attirava non solo pellegrini da ogni parte del sub-continente, ma anche orde di accattoni e venditori ambulanti. Nel 985 gli egiziani del luogo (che erano fondamentalisti islamici rigidi) distrussero il tempio del Sole, scacciando tutti i mendicanti e i venditori ambulanti e chiunque adorasse il Sole. E questo avvenne più o meno in contemporanea col periodo in cui, secondo gli studiosi, gli zingari avrebbero iniziato la loro diaspora dall'India antica.

Il primo scalo dopo aver lasciato l'India fu Kabul, Afghanistan, dove ancora oggi la maggior parte degli zingari qui stanziati (ed anche in Asia, Armenia e Georgia) vengono chiamati Moultani.

Oggi la maggior parte dei Rom in Kosovo e sulle montagne della Bulgaria sono musulmani e giurano sul Corano. Ma tutti ammettono di giurare anche sul Sole di tanto in tanto, come facevano i loro antenati.

E' risaputo che la maggioranza dei Rom adotta la religione professata nell'area in cui si stabiliscono. Pertanto, quelli stanziatisi in un paese cattolico di solito diventano cattolici, mentre quelli stanziatisi in un paese musulmano giurano fedeltà all'Islam. I primi zingari arrivati nei Balcani diventarono ortodossi.

Sebbene i Rom non abbiano una storia scritta, molti ancora ricordano le storie che raccontavano i loro antenati. Un vecchio Rom kosovaro disse che suo nonno gli aveva detto che quando i Rom lasciarono la terra natia (non sapeva dove questa fosse), erano buddisti. Avevano viaggiato verso ovest, in cerca di lavoro. Quando erano arrivati in Armenia, era stato offerto loro un lavoro nei Balcani, ma prima si sarebbero dovuti convertire al cristianesimo. Dovevano diventare ortodossi.

Credo che il primo documento in cui vengono menzionati gli zingari nei Balcani provenga da un monastero sul monte Athos. Guardando tutti quei monasteri arroccati sui fianchi dei precipizi, si capisce come sia stato necessario utilizzare parecchia manodopera importata per costruirli. Ma in tutta l'area balcanica, specialmente in Bulgaria, Macedonia e Serbia, laddove ho trovato un monastero risalente al periodo tra l'11° e il 14° secolo, ho sempre scoperto che la comunità più vicina era un insediamento di zingari. A volte restano solo poche abitazioni, ma altre volte ci trovo una grossa comunità. I vecchi Rom in una comunità mi dissero che, secondo la loro tradizione orale, i loro antenati erano stati portati come schiavi per costruire i monasteri del luogo. Successivamente, dopo l'arrivo dei turchi, i loro antenati si erano convertiti all'Islam. Alcuni avevano sentito dire che i loro antenati erano cristiani. Eppure ancora oggi essi giurano sul Sole.

E per quanto riguarda i riferimenti alla Cina? I Rom sicuramente non presentano le tipiche caratteristiche dei cinesi, sebbene io debba ammettere che in alcune rare occasioni mi sono imbattuto in dei Rom che avevano gli occhi decisamente a mandorla e gli zigomi piuttosto alti.

In realtà avevo scordato quel riferimento alla Cina durante una intervista, nella Turchia orientale, ad un quartiere di zingari che si rifiutavano di ammettere che erano zingari o Rom. La persona che me li aveva presentati disse che in Turchia era una infamia essere conosciuti come zingari, perciò queste persone si autodefinivano “musicisti per i matrimoni”.

Successivamente, dopo che il mio assistente – un Rom kosovaro-ebbe suonato le percussioni con loro e che si furono convinti che appartenevano allo stesso popolo, iniziammo a confrontare la loro lingua e quella dei Rom kosovari. Sebbene le due lingue fossero sostanzialmente diverse, molte parole erano identiche al punto che entrambi decisero che i rispettivi antenati dovevano aver parlato la stessa “lingua segreta”. Quindi chiesi loro come si chiamasse questa loro lingua segreta. Ed essi dissero il Domaaki.

Non ho mai pensato molto al nome con cui chiamavano la loro lingua segreta fin quando non ho fatto una ricerca su internet. Ragazzi, che sorpresa! Il Domaaki è la lingua parlata dalla casta bassa di musicisti e fabbri nella valle di Hunza nel nord del Pakistan (India antica). La valle di Hunza confina con la Cina e da parecchi punti della valle di Hunza si ha una bella vista sull'Himalaya innevato. L'area era un tempo una roccaforte della religione buddista.

In Bulgaria, passando in macchina attraverso le montagne da Yakoruda verso Razlog, c'è una striscia di terra con rigogliosi campi verdi sotto le torreggianti cime innevate dei monti Pirini. Non lontano si trova Rila, il più famoso monastero in Bulgaria, costruito originariamente nel 927 e poi ricostruito nel 1335. A badare al campo ed a raccogliere patate vedemmo le stesse facce scure che oggi si vedono nelle foto di Hunza e del vicino Kashmir.

Ad ogni modo, fu sempre sulle montagne bulgare che trovai degli zingari che ancora credevano ai vampiri. Nell'India antica molte caste basse credevano che i “mulos” (zingari morti) tornassero per importunarli e perseguitarli. Una volta arrivati nei Balcani, quella superstizione indiana si adattava così bene alle locali storie di vampiri che oggi esse sono diventate interscambiabili. Paradossalmente, oggi molti zingari balcanici diranno che non credono nella chiromanzia o nella magia nera (sebbene molti Rom kosovari lo facciano ancora). Ma quando si parla di credere ai vampiri, la maggior parte dei Rom adulti giurano sugli occhi dei loro figli che hanno visto un vampiro. Una donna a Peshtera, Bulgaria, ci disse che una notte, tornando da un altro villaggio in cui si era recata per vendere cesti, un uomo iniziò a camminarle accanto. Non la toccò, ma un momento era un uomo, subito dopo era un cane, poi una mucca. La donna era sicura che fosse un vampiro: non le aveva fatto nulla, ma lei si era spaventata molto.

Un'altra Rom, a Septemvri, Bulgaria, ci disse di aver conosciuto un uomo una volta. Si chiamava Teke Babos ed era un vampiro. Lei lo aveva visto un anno dopo che era morto. Era molto alto ed indossava scarpe nere ed una giacca nera. Aveva un frustino in mano. Le unghie erano molto lunghe. Lei lo vedeva solo se era da sola, e solo da mezzanotte alle 4 del mattino. Anche stavolta, lui non le aveva fatto nulla. Ma molte storie che ho sentito nel corso degli anni sono piene di sangue e ferite.

Sebbene molte delle tradizioni originarie dell'India antica siano andate perdute, ce ne sono ancora abbastanza per identificare le tribù e le caste d'origine di molti Rom. Oggi la maggior parte della gente crede che i Rom siano tutti uguali. Ma non lo sono. Se c'è una tradizione generale che gli zingari hanno mantenuto dall' antica India, è quella relativa all'identità delle tribù e delle caste. Nei Balcani ci sono più di 50 gruppi diversi di zingari. Sebbene essi possano avere tradizioni affini e parlare lingue simili, la maggior parte sa di non essere uguale agli altri e non vi sono matrimoni misti né rapporti. Secondo il vecchio sistema indiano delle caste, essi si identificano dalla professione ereditata dai loro antenati. Il nome del gruppo è di solito il nome indiano della casta tradotto nella lingua locale parlata dove vivono oggi. Ad esempio, il nome della casta dei Lohar, che erano fabbri provenienti dall'India antica e che oggi vivono nei Balcani, è stato tradotto in “Kovachi”, che è la parola slava per “fabbro”. Ad ogni modo, alcuni Rom hanno in realtà continuato a definire la propria casta con il nome indiano originario, sebbene l'ortografia e la pronuncia potrebbero essere un po' diversi. Un esempio è costituito dai Gabeli in Kosovo, il cui nome d'origine indiano per la casta era Khebeli.

Non è solo il vecchio nome della casta ad identificare una certa tribù, ma anche certe tradizioni. Ad esempio, molti Rom kosovari e bulgari credono che quando una persona muore si debba raccogliere una grossa pietra da un fiume pulito e metterla sulla tomba del defunto. Essi credono che questo sia l'unico modo in cui il defunto può ottenere l'acqua in cielo. Come mi ha detto una vecchia donna Rom, va bene mendicare sulla terra, ma non in cielo. Sebbene il numero di giorni in cui la pietra deve stare sulla tomba possa variare da un giorno ad un anno, la tradizione è identica ed è praticata solo dai Gond nell'India centrale.

Un'alta tradizione che faccio risalire ai Gond è quella di pagare per il latte materno quando si compra una sposa. La maggior parte dei Rom nei Balcani ancora pratica la compravendita delle spose (un'usanza proveniente per lo più dal sud-est dell'India nell'area di Multan!). Ma anziché definirlo un acquisto diretto come quello di una mucca, essi pretendono di pagare per il latte che la madre ha dato alla sposa quando era in fasce.

Un'altra tradizione (in realtà un bluff) che sono riuscito a far risalire dai Balcani ad una casta semi-nomadica nell'attuale Punjab è quella di succhiare via i vermi bianchi dal naso o dalle orecchie dei bambini per curare il mal d'orecchi. Sebbene molte anziane donne Rom nei Balcani erano solite andare di villaggio in villaggio a succhiare i vermi fuori dalle orecchie dei figli di ignoranti gadjos (non – Rom), molti Rom credono ancora che non sia un raggiro e pagherebbero per farlo fare quando i loro figli sono malati. Ma è una truffa. La “dottoressa” zingara in realtà si infila dei vermi bianchi in bocca, nascondendoli di soliti in una cavità dentale, e poi finge di succhiarli via dall'orecchio del bambino con una cannuccia. E' un'antica tradizione della tribù dei Sansis in Punjab ed è tuttora praticata lì.

Sebbene agli zingari che vivono in Europa abbiano svariati nomi, come Rom, Kali, Sinti, Manoush, ecc. ecc., non è difficile tracciare a ritroso il loro percorso, villaggio dopo villaggio, fino ad arrivare al paese d'origine. Una volta lo feci, dalla Repubblica Ceca all'Iran. La maggior parte dei Rom non hanno mai sentito dire da dove il loro popolo provenisse prima di stanziarsi in Europa, ma sanno da quale villaggio i loro antenati sono partiti per arrivare a quello in cui si trovano ora, ed quello si trova sempre in direzione di un ritorno all'India. Nel tentativo di spostarsi ad ovest, gli zingari hanno sempre lasciato dietro alcune famiglie. Dalla Repubblica Ceca ho tracciato a ritroso il percorso di una famiglia fino ad un villaggio nella Slovacchia orientale. In quel villaggio mi fu detto che i loro antenati provenivano da un villaggio in Ungheria. In Ungheria, fui mandato ad un villaggio in Croazia, e di lì in Bosnia e Montenegro. Dal Montenegro fui mandato a trovare dei cugini perduti in Macedonia, e dalla Macedonia alla Bulgaria; e dalla Bulgaria alla Grecia. In Grecia fu più difficile trovare qualcuno che avesse memoria di posti reali in Turchia, ma seguendo la professione della loro casta, fu possibile allacciarsi allo stesso tipo di zingari in Turchia. Dopo fu facile spostarsi di villaggio in villaggio fino ad arrivare in Iran. Ma nella Turchia orientale, quando trovai i “musicisti per matrimoni, fu possibile saltare direttamente indietro alla Valle di Hunza sul confine cinese.

Sebbene debba ancora intervistare parecchi zingari nei Balcani e nel resto dell'Europa, sto progettando di recarmi nella valle di Hunza ad ottobre, portando con me non solo la mia videocamera, ma anche il kit per il test del DNA. Le tradizioni, e persino la lingua, possono essere adottate. Ma il DNA non mente. Solo allora sarò in grado di dimostrare alcune delle mie ricerche e di dar credito alle storie orali degli zingari. E soprattutto, di dimostrare che è valsa la pena di salvarli.

Paul Polansky, scrittore e storico, è uno dei più importanti poeti statunitensi “in esilio”, autore di diverse raccolte poetiche e romanzi di forte impegno civile, dedicandosi negli ultimi anni soprattutto alla drammatica situazione dei rom residenti nel Kosovo, vittime di avvelenamento per il piombo rimasto nel sottosuolo dalle guerre precedenti e ignorati anche dalle Nazioni Unite che dovrebbero protteggere la loro incolumità fisica, soprattutto quella dei bambini, le vittime più numerose. Questa poesia, “Il mio lavoro”, è un esempio della produzione poetica fortemente politica e umanitaria di Polansky. Nel 1994 il Comune di Weimar, in Germania, ha concesso a Paul Polansky il prestigioso Human Rights Award, consegnatogli dal Premio Nobel Günther Grass.

 
Di Fabrizio (del 22/05/2010 @ 08:56:02, in Kumpanija, visitato 2024 volte)

IL PAESE DELLE DONNE online

di Angelica Bertellini, Eva Rizzin Edizione speciale della Newsletter di Articolo 3 Osservatorio contro le discriminazioni di Mantova

Da tempo pensavamo al viaggio ad Auschwitz. Le occasioni sono state molte, ma non lo abbiamo mai fatto, ognuna di noi per i propri motivi; infine entrambe abbiamo deciso di partire: il momento era arrivato.

Non abbiamo mai parlato tra noi delle ragioni più profonde che ci hanno spinte ad andare, come del resto di quelle che ci avevano trattenute dal farlo in passato, se non per la parte che riguarda la nostra professione, come consulenti di Articolo 3, l’Osservatorio sulle discriminazioni nato a Mantova proprio al Tavolo permanente per le celebrazioni del 27 gennaio.

Siamo arrivate ad Auschwitz il primo maggio, con una trentina di altre persone e il presidente della Comunità ebraica di Mantova e dell’Osservatorio, Fabio Norsa. Siamo arrivate con l’esperienza del nostro lavoro – il contrasto alle discriminazioni –, con il nostro passato, ma soprattutto con quella parte della nostra identità che ci fa appartenere a minoranze colpite dal nazifascismo.

All’ingresso del campo ci aspettava una guida, a lei abbiamo chiesto di anticiparci le tappe della visita e, con grande dispiacere, abbiamo appreso che le aree dedicate al ricordo del Porrajmos o Baro Merape – il genocidio delle persone sinte e rom – non erano (e non sono) comprese. Alcune persone hanno mostrato insofferenza: “Guardiamo le cose principali, non c’è tempo”. La guida non sapeva che fare, noi insistevamo; “Dovete andare là” e ha indicato un punto che a noi pareva perso nel vuoto, il campo è grande. Abbiamo iniziato il percorso guidato e dopo un po’ ci è arrivata una traccia: “Ecco, quelle che cercavano gli ‘zingari’ possono andare al blocco 13, laggiù”.

Anche qui la minoranza sinta e rom resta a margine. Eppure sappiamo che proprio ad Auschwitz esisteva lo Zigeunerlager, un complesso di baracche destinate alle famiglie rom e sinte sterminate il 2 agosto 1944. La liquidazione del lager era stata programmata per il maggio di quell’anno, ma uno straordinario episodio di resistenza, da parte delle mamme e dei papà sinti e rom, riuscì – forse per la sua imprevedibilità – a bloccare, purtroppo solo momentaneamente, il proposito. Queste persone raccolsero le ultime forze per resistere alle SS, si lanciarono a mani nude o con piccoli oggetti contro di loro per salvare i bambini: «Abbiamo molte testimonianze anche di ebrei italiani, che hanno assistito sia allo scoppio della rivolta, sia alla liquidazione del 2 agosto. Tutti ricordano questi fatti come i più tristi e tragici [...] perché la presenza dei bambini sinti e rom dava vita all’intero campo e dopo il 2 agosto non c’era davvero più vita» 1. [1] Presso il blocco 13 di Auschwitz 1 è stata aperta al pubblico un’esposizione permanente sul genocidio dei Sinti e Rom. Il progetto è stato ideato e realizzato sotto la supervisione del Centro culturale e di documentazione sinti e rom di Germania in collaborazione con il Memoriale di Auschwitz, l’associazione dei Rom di Polonia e altre organizzazioni rom di vari paesi. A vederla eravamo in sei, mentre centinaia di persone percorrevano le stradine in mezzo agli altri blocchi, in silenzio, ognuno con le cuffie sintonizzate per sentire nella propria lingua spiegazioni e descrizioni: un aiuto tecnologico che evita di ammassarsi intorno alla guida, di farla parlare ad alta voce, e permette un ordinato flusso di persone dentro e fuori dai blocchi. Noi ci siamo dovute staccare dal nostro gruppo, rinunciare a parte della visita guidata, percorrere le stradine controcorrente, per poterci recare al blocco 13. Ci hanno seguite Fabio Norsa e Cesare, il compagno di Eva. Rabbia, angoscia e tristezza: anche lì escluse, esclusi, quasi fosse un genocidio di secondaria importanza. Nessun altro si è unito, nessuno ha sentito il bisogno (e il dovere) di includere il blocco 13 nel suo viaggio della Memoria, come se non lo riguardasse, come se sinti e rom non fossero stati perseguitati e sterminati per ragioni razziali (a qualche guida sfugge ancora un “asociali...”).

Questo è un gradino della storia che il nostro Paese ha saltato: non si può comprendere l’attuale situazione di emarginazione, esclusione e discriminazione subìta dalle minoranze rom e sinta in Italia se non si comprende quello che è avvenuto nei secoli più bui, se non si scoprono le radici dell’antiziganismo. Il genocidio dei sinti e dei rom fa parte della storia di Italia e d’Europa, tutti abbiamo il dovere di ricordare, perché è la storia di tutti. Stefano Levi Della Torre lo scorso gennaio, a Mantova, ci diceva a proposito di un grande scritto di Primo Levi: «La tregua è invece un esplicito avvertimento per il futuro. La fine dell’orrore più grande è solo una tregua. Ciò che è stato introdotto irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, proprio perché è stato potrà più facilmente prodursi di nuovo». Per i rom e per i sinti la tregua non c’è mai stata.

Il 10 luglio 2008 il Parlamento europeo ha emanato la risoluzione sul “censimento dei rom su base etnica in Italia”, che esortava le autorità italiane ad astenersi dal procedere alla raccolta delle impronte digitali, in quanto atto di discriminazione diretta su base razziale. Il censimento, però, era nel frattempo già iniziato e con una schedatura contenente etnia e credo religioso (newsletter n°4 e Rapporto 2008, p.40). Solo successivamente è stato bloccato.

Centinaia sono gli sgomberi senza soluzione alternativa avvenuti nella sola città di Milano, modalità in netto contrasto con la normativa internazionale (vedi newsletter di Articolo3 n°7/2010). Dal 2008 le regioni Lombardia, Campania, Lazio, Piemonte e Veneto sono state dichiarate ufficialmente in “stato d’emergenza in relazione agli insediamenti delle comunità nomadi”. In molte città italiane alcuni dei cosiddetti ‘campi nomadi’ autorizzati istituzionalmente sono recintati, video sorvegliati 24h, presidiati da punti di controllo di entrate e uscite. La vita delle persone rom e sinte è regolamentata da vere e proprie leggi speciali, i “patti di legalità”. Non sono mancati casi di cittadini italiani sinti che hanno subìto censimenti etnici nelle proprie case, costruite su terreni privati (newsletter n°69).

Siamo tornate da Auschwitz con la sensazione profonda di una memoria mutilata. [n.d.r. v. i Cenni storici di Eva Rizzin che riportiamo in nota] [2]

La notizia che ci ha accolte al rientro in Italia e al lavoro è stata quella di un modulo con intestazione di Trenitalia, gruppo Ferrovie dello Stato, Direzione regionale Lazio, ad uso del personale per rilevare la frequentazione di una fermata (Salone – Roma), che contiene una nota: “nella sezione destra della casella indicare anche eventuali viaggiatori di etnia ROM”. Le Ferrovie hanno inizialmente dichiarato di non averlo mai utilizzato, come se questo ne cancellasse l’esistenza, e dopo pochi giorni la direzione ha ammesso l’utilizzo, ma non la responsabilità: sarebbero stati alcuni non meglio specificati funzionari ad aver preso l’iniziativa; non viene detto né chi e neppure perché. Treni, binari, schede, etnia... Dentro di noi si associa, violentemente, l’immagine del binario di Birkenau visto pochi giorni fa: è così vicino a quel pezzo di terra, la zona B2, su cui rimane solo qualche camino, dove sorgevano le baracche di legno dello Zigeunerlager.

Questa memoria parziale corrisponde ad una ingiustizia totale, i cui malefici frutti siamo costretti a cogliere oggi, senza tregua. L’Italia deve fare i conti con il proprio passato e le istituzioni – politiche e culturali – devono dare pieno riconoscimento a tutte le persone colpite dal programma di persecuzione e sterminio nazi-fascista. Nessuno, mai più, deve sentirsi in alcun modo legittimato a schedare, contare, colpire un’altra persona sulla base della sua appartenenza.

E nessuno dovrebbe sentirsi libero di ignorare queste vessazioni, ma questo è un conto che ognuno deve fare con se stesso.

Angelica Bertellini - Laureata in filosofia del diritto all’Università di Bologna con uno studio sul processo di Norimberga.
Eva Rizzin - Ha conseguito un dottorato di ricerca in geopolitica all’Università di Trieste sul fenomeno dell’antiziganismo nell’Europa allargata.

Note

[1] 1. Marcello Pezzetti, docente università di studi sulla Shoah dello Yad Vashem, in A forza di essere Vento, dvd documentario curato da Paolo Finzi, A edizioni..

[2] CENNI STORICI SUL GENOCIDIO DEI ROM E DEI SINTI

Furono più di 500.000 le persone rom e sinte vittime dello sterminio pianificato e commesso dal nazi-fascismo. Questa è una storia spesso dimenticata e per lungo tempo narrata con omissioni o imprecisioni. I sinti e i rom furono perseguitati su base razziale: molti di loro furono classificati come ‘asociali’ (era il triangolo nero quello che nei lager contrassegnava le persone che, nella teoria nazista, venivano definite tali), ma in realtà, come scrive Giovanna Boursier, “furono perseguitati, imprigionati, seviziati, sterilizzati, utilizzati per esperimenti medici, gasati nelle camere a gas dei campi di sterminio, perché “zingari”, e secondo l’ideologia nazista, razza inferiore, indegna d’esistere” [Boursier 1995]. Il triangolo di colore marrone identificava questa “razza”. In Italia solo di recente, grazie agli studi di storici come Boursier e Luca Bravi, è stata intrapresa una rigorosa ricerca su questa tragedia, per troppo tempo taciuta.
La cosiddetta asocialità venne attribuita alla popolazione rom e sinta sulla base di presunti studi nazisti, che la volevano connessa al ‘gene dell’istinto al nomadismo’, il Wandertrieb, e molti scienziati – tra i quali ricordiamo Robert Ritter (psichiatra infantile), la sua assistente Eva Justin e, non da ultimo, il famigerato dottor Mengele, che aveva il suo studio proprio accanto allo Zigeunerlager così da accedere agevolmente ai bambini per i suoi esperimenti – si impegnarono in attente ricerche volte a dimostrare questa ributtante teoria. «La presenza di questo gene nel sangue è la dimostrazione che questi zingari sono esseri irrecuperabili», sostenne Eva Justin nella sua tesi di laurea, e da questo assunto prese l’avvio la seconda parte del ‘programma’, ossia la distinzione e separazione tra ‘puri’ ed ‘impuri’. I ‘puri’, il 10% circa, erano quelli da salvaguardare perché vivendo ancora allo ‘stadio primitivo’ – come sostenevano i nazisti – rappresentavano un patrimonio antropologico da preservare. I mischlinge, i misti, risultarono invece essere gli elementi più pericolosi, non solo perché portatori di un’ulteriore anomalia – e quindi un’imperfezione – ma anche perché, ritenendoli meno facili da individuare, rappresentavano un rischio maggiore di contaminazione. I nazisti presero così la decisione di eliminarli, una decisione dettata da motivazioni esclusivamente razziali.

Talvolta penso che se avessi avuto la sfortuna di nascere in quell’epoca le mie sorti, forse, sarebbero state fra le peggiori, visto che anche io sono una ‘meticcia’.
Dopo lo sterminio dei rom e dei sinti, il dottor Robert Ritter, che fu a capo delle ricerche scientifiche che portarono allo sterminio tornò indisturbato ad esercitare la sua professione come psichiatra infantile. Fu anche lodato dal nuovo governo tedesco per la sua profonda conoscenza in fatto di rom e sinti. Eva Justin, assistente di Robert Ritter, fu processata ed assolta.
Una sola guardia semplice di Auschwitz è stata condannata per crimini contro i sinti e i rom.
Il riconoscimento dello status di vittime della persecuzione nazi-fascista e la conseguente possibilità di ottenere i risarcimenti previsti sono state per lungo tempo ostacolati, quando non impediti. Il governo tedesco riconobbe soltanto nel 1980 che i rom e i sinti avevano subìto una persecuzione su base razziale.

La persecuzione fascista

I campi di concentramento non furono solamente un fenomeno nazista, ma anche fascista italiano, su questo penso sia importante riflettere.
Il nostro paese, l’Italia, assieme alla Germania nazista si rese responsabile della concentrazione, deportazione e sterminio di centinaia di migliaia di rom e sinti.
Non molti sanno che anche in Italia c’erano i campi di internamento dove i sinti e i rom furono imprigionati e che erano più di 50 (Agnone, Arbe, Boiano, Cosenza, Perdasdefogu, Frignano, Tossicia, Le Isole Tremiti, Vinchiatauro) .
Anche nella mia regione, il Friuli, c’è ne erano due: a Gonars e a Visco, in provincia di Udine. I campi rientravano in un’operazione pensata scientificamente, definita in ogni dettaglio organizzativo, di pulizia etnica nella ex Jugoslavia e di italianizzazione dell’area oggi compresa tra Slovenia e Croazia, autorizzata personalmente da Mussolini durante un incontro appositamente organizzato a Gorizia nel 1941. Il campo di concentramento e di sterminio di Gonars era stato pensato inizialmente per i militari russi, ma alla fine vi trovarono la morte anche civili sloveni tra i quali anche molti rom e sinti – principalmente dell’area di Lubiana – e croati [Kersevan, 2003].

Noi non ne parliamo

Molti appartenenti alla mia famiglia durante l’epoca nazi-fascista furono perseguitati e costretti ad emigrare.
Durante la stesura della mia tesi di laurea, una tesi inerente alla cultura della mia comunità, pensai di scrivere un capitolo sul genocidio, cercando di raccogliere alcune testimonianze di familiari che subirono il dramma delle persecuzione, come la zia che avevo deciso di intervistare.
Quell’intervista non si realizzò mai: parlare dei morti non era buona cosa, mi rispose che dei morti bisogna avere rispetto e che quindi non si poteva e non si doveva parlarne.
Mi trovai a vivere un forte conflitto: da una parte c’era l’esigenza di ricordare, di raccogliere le testimonianze, di scrivere quelle pagine vergognose della nostra storia; dall’altra dovevo rispettare la mia cultura, ricordare il genocidio avrebbe significato anche affrontare il delicato tema della morte, una realtà considerata sacra all’interno della mia comunità, aspetto di fronte al quale bisogna mostrare il più autentico e doveroso riguardo, un rispetto che si concretizza con il silenzio.
Il rispetto dei morti per noi sinti è uno degli aspetti fondamentali della nostra credenza religiosa e visto che il momento della morte rappresenta una situazione molto delicata, molte volte si preferisce non parlarne.
Ci tengo a sottolineare che questa è stata l’esperienza della mia comunità: non vale quindi per tutti i sinti e rom, molti sono quelli che oggi hanno deciso di raccontare.
Spesso il termine Porrajmos, traducibile come ‘divoramento’, viene utilizzato per indicare la persecuzione e lo sterminio dei rom e dei sinti, molti però sono i sinti che non si riconoscono in questo termine, tant’è che parecchi ne ignorano il significato e quando parlano del genocidio utilizzano il termine Baro Merape che il lingua ròmanes/sinto significa grande morte, sterminio.

Il genocidio dei sinti e dei rom meriterebbe un pieno riconoscimento commisurato alla gravità dei crimini commessi. E’ vergognoso, ad esempio, che nell’ex campo di internamento di Lety u Pisku (Boemia del sud, attuale repubblica Ceca) – dove i rom e i sinti subirono torture feroci identiche ai lager tedeschi – sia stata costruita un’azienda di allevamento suino, anziché un degno memoriale.
Nella risoluzione del 27 gennaio 2005 emanata dal Parlamento Europeo si invitano la Commissione Europea e le autorità competenti ad adottare tutte le misure necessarie per rimuovere tale azienda. Una risoluzione questa che condanna le opinioni revisioniste e la negazione del genocidio come vergognose e contrarie alla verità storica ed esprime preoccupazione per l’aumento di partiti estremisti e xenofobi e la crescente accettazione delle loro opinioni da parte dei cittadini.
I recenti fatti nazionali dimostrano che il sentimento anti-rom, e i numerosi pregiudizi razziali che stanno investendo massicciamente l’Italia, rappresentano una gravissima minaccia non solo per i sinti e per i rom, ma anche per i valori europei e internazionali della democrazia, dei diritti dell’uomo e dello stato di diritto e pertanto per la sicurezza di tutti in Europa.
Per l’Unione Europea il 2007 e il 2008 dovevano essere rispettivamente l’anno delle pari opportunità e del dialogo interculturale, dovevano essere anni fondamentali per promuovere la percezione della diversità come fonte di vitalità socioeconomica, una grande occasione per cambiare la percezione generale che si ha delle comunità rom e sinte.
Questi anni verranno invece ricordati dai sinti e i rom come gli anni in cui l’insofferenza diffusa, la violenza e l’intolleranza contro il diverso, l’immigrato, lo ‘zingaro’ hanno assunto i connotati espliciti della xenofobia e del razzismo. Per noi rimarranno gli anni delle schedature, degli sgomberi, dei commissari speciali e delle impronte digitali. La marginalizzazione dei rom e dei sinti ha attraversato i secoli, dalle violente persecuzioni di ieri alla ghettizzazione imperante di oggi, passando per lo sterminio, dimenticato, della seconda guerra mondiale. La nostra cultura è riuscita a sopravvivere a secoli di persecuzioni. Io non mi stanco di credere nella possibilità di una società che rispetti le differenze, che le tuteli le minoranze come patrimonio fondante di tutti e di tutte.
La memoria del genocidio dei rom e sinti è essenziale in questo processo di presa di coscienza sociale, poiché fa parte della storia comune.
Non suoni questo superfluo o retorico, in quanto la rimozione della memoria e il revisionismo sono spesso il primo passo verso nuove catastrofi.

Eva Rizzin

Bibliografia minima:

Boursier G., Lo sterminio degli zingari durante la seconda guerra mondiale, in Studi storici n.2, Roma, 1995
Boursier G., Gli zingari nell’Italia fascista, in Italia Romaní, vol.1, a c. d. L. Piasere, Roma, 1996
Boursier G., La persecuzione degli zingari nell’Italia fascista, in Studi storici, n.4, Roma, 1996
Boursier G., Zingari internati durante il fascismo, in Italia Romaní, vol.2, a c. d. L. Piasere, Roma, 1999
Boursier G., Rom e sinti sotto nazismo e fascismo, in Rivista anarchica, n°319, a 36, 2006
Bravi L., Altre tracce sul sentiero per Auschwitz, Roma, 2002
Bravi L.,Rom e non-zingari. Vicende storiche e pratiche rieducative sotto il regime fascista,Roma, 2007
Bravi L., Tra inclusione ed esclusione. Una storia sociale dell’educazione dei rom e dei sinti in Italia, Milano, 2009
Kersevan A, Un campo di concentramento fascista. Gonars 1942 – 1943, Udine, 2003
Williams P., Noi non ne parliamo. I vivi e i morti tra i Manuš, Roma, 2003 _ Porrajmos. Altre tracce sul sentiero per Auschwitz, mostra documentale curata dall’Istituto di cultura sinta, scaricabile all’indirizzo www.nevodrom.it
A forza di essere Vento, dvd documentario curato da Paolo Finzi, A edizioni

Sul web: Porrajmos La persecuzione e lo sterminio nazifascista dei Rom e dei Sinti, audio documentario prodotto da Opera Nomadi e Radioparole, (2004): http://www.radioparole.it/porrajmos...

University of Minnesota Driven to discover, a c. d. Ian F. Hancock: http://www.chgs.umn.edu/histories/v...

 
Di Fabrizio (del 19/05/2010 @ 09:16:19, in Kumpanija, visitato 1698 volte)

Da Roma_Daily_News

Unicef.org by Olga Grebennikova

© Tagikistan UNICEF / 2010 - Mobilitazione sociale della comunità rom nelle zone rurali del Tagikistan

Dopo un ora di viaggio da Dushanbe attraverso campi e giardini ben curati, arriviamo nel centro distrettuale di Gissar. Scendendo nel Centro Immunizzazioni del distretto prendiamo il direttore e il vice capo pediatra e ci avviamo verso quei villaggi dove vivono le persone "più difficili da raggiungere".

Ci stiamo dirigendo verso i villaggi di Sokhtmonchien e Afgonobad. Si trovano a soli pochi km. dal centro distrettuale, e quindi non possono essere chiamati "remoti ed isolati". Ma quando ci arriviamo, ci sentiamo come se fossimo tornati indietro di un secolo.

Qui, dietro graticci e muri di fango, la vita continua come uno o due secoli fa. Naturalmente, ogni casa ha la televisione e le antenne satellitari adornano diversi tetti, ma questi sono gli unici segni del XXI secolo.

Siamo in un insediamento che ospita uno dei più importanti gruppi oggetto della campagna di vaccinazione antipolio - i Rom. Qui sono chiamati anche Lyuli. Questa gente è nomade, e quasi tutte le famiglie sono costantemente in movimento. Nonostante ciò, di solito ci sono un mucchio di bambini nelle famiglie, anche se questo non le ferma dal girare in tutto il paese. Uno dei risultati di questo stile di vita è che alcuni bambini non siano mai stati vaccinati.

Un'altra ragione è che i Rom di solitosi sentono marginalizzati e così preferiscono non mostrarsi nei punti di vaccinazioni ufficiali. E' per questa ragione che il governo tagico, l'OMS e l'UNICEF hanno deciso di raggiungerli a casa loro.

© Tagikistan UNICEF / 2010 - Vaccinazione domiciliare dei bambini rom

"Abbiamo lavorato qui ogni giorno dall'inizio della campagna," dice Salim Mirkhoev, direttore del Centro Immunizzazioni distrettuale. "La campagna si è svolta in un punto vaccinazione in una scuola del posto, ed alcune famiglie hanno portato con sé i bambini per l'immunizzazione. Ma abbiamo deciso di venire in questi villaggi per una vaccinazione domiciliare, perché ancora ieri nuove persone si sono presentate nel villaggio, come pure il giorno precedente. Abbiamo già immunizzato altri 39 bambini, e sembra che dovremo continuare."

Nasiba ha 24 anni - e tre bambini che sono tutti nel nostro gruppo di interesse. Il più grande ha 5 anni, il secondo 3 ed il terzo è tra le sue braccia - ha solo 8 mesi. "Quando ieri ho deciso di venire," dice avvolta nello scialle la donna, che è analfabeta, "era tardi, e la nostra casa molto lontana. Per questo sono rimasta al centro del villaggio con dei parenti, per fare la vaccinazione. Mi hanno detto che è una malattia molto contagiosa, e non voglio che i miei bambini si ammalino," dice. La giovane non sa leggere, ma le abbiamo dato lo stesso il libretto UNICEF con i richiami per la seconda e la terza vaccinazione.

"Se anche un solo bambino non fosse immunizzato, sarebbe come una bomba per tutti gli altri bambini nel villaggio e nell'area, perché ognuno dovrebbe essere vaccinato senza eccezione. Siamo responsabili per loro," dice Umeda Sadykova, assistente UNICEF per il programma Salute e Nutrizione.

Nel distretto di Gissar ci sono poco più di 38.000 bambini sotto i 6 anni di età, e oltre il 90% di loro è già stato vaccinato. Per lo più la popolazione del Tagikistan è disciplinata, e crede ai dottori ed ai mezzi di informazione.

"Il problema è solo con quelle comunità dove neanche i residenti sanno quante famiglie sono via dal villaggio e quando ritorneranno," dice Salim Mirzoev.

Ilkhom tra poco compirà 5 anni e scoppia in lacrime alla vista degli estranei, ma il dottore gli agita teneramente la testa, calmandolo con le parole e stupito il bimbo ingoia il vaccino, non facendo nemmeno caso al gusto. Era stato sui pascoli con suo padre, dice la madre, ed è tornato soltanto stamattina. E' un bene che siate venuti oggi.

Khidoyat ha 35 anni, ha tre bambini piccoli e sinora nessuno di loro era mai stato vaccinato. "Siamo tornati apposta da Rudaki," dice. "I miei bambini non sanno cosa sono i vaccini."

E' da notare che quasi tutti gli adulti con cui abbiamo parlato volevano sapere delle vaccinazione ed erano ben disposti, nonostante il fatto che comunità simili di solito sono chiuse e maldisposte verso gli estranei.

Ma vedendo, o meglio intuendo, la tiepida apertura da parte nostra, la contraccambiano. Si mettono volentieri in posa di fronte alle macchine fotografiche e chiedono persino di essere ritratti. Ci seguono per il villaggio, sorridendo e cercando di attirare la nostra attenzione.

"Che Dio benedica voi e la vostra iniziativa," dice un'anziana, quando salutiamo una famiglia dopo che il dottore ha immunizzato due bambini che erano a letto dopo la circoncisione. "Siete venuti nelle nostre case per salvare i nostri bambini da questa terribile malattia. Non lo dimenticheremo mai," ci dice, alzando le braccia al cielo.

Quante sorprendenti scoperte si possono fare in un giorno! E' necessario fare un passo indietro dai propri pregiudizi e tentare di capire un altro mondo, un'altra cultura ed altri valori.

In Tagikistan la vaccinazione è in corso...

 
Di Fabrizio (del 12/05/2010 @ 09:19:11, in Kumpanija, visitato 1753 volte)

Segnalazione di Alessandra Meloni

(clicca sulla foto per vedere anche le altre immagini)

Ha festeggiato ieri cento anni nel campo di via Germagnano Nefa Husenovic, «la nomade più vecchia del mondo», azzardano gli operatori del Comune presenti alla cerimonia, spiegando che l'età media dei rom non supera i cinquantacinque anni.

Tra i regali ricevuti anche il permesso di soggiorno, portato dagli operatori dei Servizi sociali della Circoscrizione 6.

Nefa sta bene e fino a qualche mese fa andava da sola in centro, davanti alla Consolata, a fare «mangel», cioè a chiedere l'elemosina. È nata suddita di Francesco Giuseppe imperatore d'Austria e quand'era bambina, alle porte di casa sua, l'ex Jugoslavia, premeva l'Impero Ottomano.

Terribili i ricordi delle due guerre mondiali: soprattutto la Seconda, durante la quale ha passato insieme al marito Chamil e alla famiglia cinque anni nascosta nei boschi della Bosnia.

Nefa è venuta in Italia negli Anni 70, prima a Milano, poi a Torino, ma parla pochissimo l'italiano. Oggi vive in una casetta del campo, attorniata e accudita soprattutto dai nipoti (sono circa un centinaio) e pronipoti.

Il campo di via Germagnano è nato nel 2004 in sostituzione di quello dell'Arrivore ed è abitato da duecentocinquanta rom slavi. «È un campo tra i più tranquilli - dice don Fredo Olivero, direttore dell'ufficio migranti della diocesi - gli uomini lavorano recuperando ferro vecchio coi loro furgoni, ma non sono più così attenti alle tradizioni, che vengono ancora custodite dalle donne». Negli ultimi anni sono stati segnalati solo alcuni furti commessi dai membri di questa comunità.

«L'integrazione però è un affare complicato - dice Eligio Benci dell'ufficio nomadi di Palazzo Civico - e i contatti con il quartiere sono minimi, anche perché la zona è isolata»: accanto al campo ci sono solo i rifiuti della discarica e la superstrada per Caselle.

I bambini rom frequentano le scuole, soprattutto quelle di Barriera, la Novaro e le succursali Levi e Abba, mentre all'interno del campo è stato allestito in micronido dove alcune educatrici si prendono cura dei più piccoli insieme alle mamme nomadi.

 
Di Fabrizio (del 11/05/2010 @ 13:28:39, in Kumpanija, visitato 1905 volte)

Stamattina, per l'ennesima volta è stato sgomberato l'insediamento di via Cavriana a Milano.

Come al solito, sono stati demoliti i loro ripari e tutti gli averi degli occupanti sono stati distrutti. I Rom sono senza alcun riparo sopra la loro testa, tra loro una donna gravida e con un bambino di un anno, ed un'altra con un bambino di 3 mesi.

Il Gruppo Sostegno Forlanini, che da due anni e innumerevoli sgomberi sta seguendo quelle famiglie, è attrezzato per ricomporre il campo, ma rivolge un appello a tutti i cittadini: C'è bisogno URGENTE di:

Tende, coperte, vestiario, scarpe e materassi

Contattare Fiorella 347-27.72.955

 
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