Rom e Sinti da tutto il mondo

Ma che ci fa quell'orologio?
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L'essere straniero per me non è altro che una via diretta al concetto di identità. In altre parole, l'identità non è qualcosa che già possiedi, devi invece passare attraverso le cose per ottenerla. Le cose devono farsi dubbie prima di potersi consolidare in maniera diversa.

Wim Wenders
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\\ Mahalla : Storico per mese (inverti l'ordine)
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Fabrizio (del 14/07/2011 @ 09:14:43, in casa, visitato 1357 volte)

Segnalazione di Marco Brazzoduro

Da Adista n. 51

IL DIRETTORE DELLA CARITAS LOCALE SCRIVE AD ALEMANNO 36209. ROMA-ADISTA. Una reazione indignata e ferma contro la politica degli sgomberi dei campi Rom portata avanti dalla giunta capitolina guidata da Gianni Alemanno arriva da don Franco De Donno, da anni responsabile della Caritas di Ostia, nella XXVI prefettura del territorio diocesano di Roma. De Donno, in una lettera aperta al sindaco del 21 giugno scorso, denuncia in particolare lo sgombero del piccolo campo Rom di via delle Acque Rosse a Ostia Ponente, avvenuto quello stesso giorno. Sono solo state smantellate «delle povere tende e poche masserizie – denuncia il prete – senza per nulla indicare una adeguata alternativa».

Indignato, il direttore della Caritas ha preso immediatamente carta e penna per manifestare al sindaco il proprio «sgomento», «tanto più profondo in quanto da vario tempo abbiamo iniziato un percorso di dialogo fruttuoso con l’Assessore Lodovico Pace e con i Vigili Urbani del XIII Municipio: con varie assemblee dei Rom e con una metodologia di "rete" nutrivamo solide speranze per il raggiungimento di una serena emersione e di una dignitosa inclusione e integrazione alloggiativa e lavorativa, come già avviene in varie città di Italia, avendo avuto la disponibilità di una convinta e responsabile collaborazione dei nostri Rom». Invece, quelle ruspe e quel camion «non sgomberavano soltanto quelle poche e povere masserizie, ma anche e soprattutto le speranze di un progetto alternativo tanto faticosamente ma decisamente avviato con le Istituzioni locali».

Eppure, racconta il direttore della Caritas di Ostia, una delle prime iniziative di Alemanno ad avvio del suo mandato, «quasi a dare un chiaro segnale di politica collaborativa, fu quella di convocare in Campidoglio i rappresentanti del mondo del Volontariato». «La sua promessa – scrive De Donno – fu quella che ci avrebbe chiamato periodicamente per un confronto sui problemi della città, visti anche con gli occhi del volontariato: ottimo inizio! Ma che delusione dover constatare non solo il mancato mantenimento di una promessa, ma anche la lontananza sempre più abissale di certe decisioni riguardo all’accoglienza e al rispetto della dignità di ogni persona».

«Tra qualche giorno, signor Sindaco – è la chiusa della lettera – è atteso qui a Ostia per inaugurare il Parco "Clemente Riva" intitolato al nostro amatissimo vescovo di recenti anni passati: il Parco si trova a pochi passi dal piccolo campo Rom oggi sgomberato! Con quale coerenza Lei vorrà svolgere questa inaugurazione nel nome di mons. Clemente Riva, che fu amico e difensore coraggioso degli ultimi?».

(valerio gigante)

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Di Fabrizio (del 14/07/2011 @ 09:05:49, in Europa, visitato 1129 volte)

Da Czech_Roma

Pardubický deník, translated by Gwendolyn Albert

Pardubice, 10.7.2011 08:40 - Quando non aveva ancora 14 anni, Maruška sottrasse da una gioielleria una catena d'oro del valore di 16.000 corone. "Il tribunale giovanile la condannò a diversi mesi di sorveglianza da parte di un incaricato," dice Marek Demner, coordinatore del progetto Rom Aiutano Rom (Romové pomáhají Romům) a Pardubice. Il progetto intende espandere e migliorare i servizi di "mentoraggio" rivolto a membri della minoranza rom che hanno avuto problemi con la legge e sono ammissibili a pene alternative.

Durante il processo si è scoperto che il suo arresto per taccheggio non era stata l'unica difficoltà incontrata da Maruška nei mesi recenti. Aveva anche problemi a scuola, secondo il giornale locale Pardubický deník.

Dice Demner: "Aveva decine di ore d'assenza ingiustificata e gli insegnanti si lamentavano della sua mancanza di disciplina e di progressi. A quel tempo, sua madre se ne era andata in un quartiere vicino con la sorella di Maruška, e adesso viveva sola con suo padre."

La collaborazione di Maruška con l'addetto alla sorveglianza non ebbe un buon avvio. Lei frequentava solo occasionalmente gli incontri e i suoi problemi scolastici continuavano.

"All'inizio della libertà vigilata, Maruška rimase incinta. L'assistente chiese a Eva, un mentore esperto, di lavorare con Maruška. Assieme decisero le priorità da affrontare. Lo scopo era che Maruška frequentasse scuola regolarmente e che si diplomasse. Anche suo padre ed il ragazzo da cui aspettava un figlio vennero coinvolti," racconta Demner.

Eva visitò Maruška a casa. Gradualmente la ragazza iniziò a fidarsi del suo mentore e a confidarle i suoi problemi. Dopo diverse settimane, la disciplina ed il rendimento scolastico di Maruška migliorarono. Fu anche in grado di gestire meglio la vita con suo padre ed il rapporto col suo ragazzo.

"Il ruolo del mentore è diventato ancora più significativo dopo che Maruška ha dato alla luce sua figlia. Eva ha insegnato a Maruška come gestire il ruolo di madre e prendersi cura di sua figlia. Qualche settimana dopo il parto, Maruška tornò a scuola," dice Demner. "Sua figlia adesso ha sei mesi. Eva visita Maruška a casa due volte a settimana. La aiuta e la consiglia su come curarsi della figlia, sulle faccende domestiche e sulla situazione finanziaria della famiglia, sul contatto con le autorità, la richiesta di benefici sociali, ecc."

Il mentoraggio tra Rom è stato ampliato nella regione di Pardubice tra il 205 e il 2008. Da maggio 2006 ci sono stati otto mentori rom che hanno collaborato con i centri dei servizi di mediazione e libertà vigilata a Pardubice, Ústí nad Orlicí e Chrudim.

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Di Fabrizio (del 13/07/2011 @ 09:31:45, in Italia, visitato 1525 volte)

Mediterranews Di Eleonora Casula

San Nicolò D'Arcidano, una delle prime comunità stabili Rom della provincia di Oristano, ieri pomeriggio rimane vittima di un tragico incendio che ha completamente distrutto il "campo". Non ci sono feriti tra i rom che vivono nel campo, una novantina, tra i quali molti bambini. Fiamme alte anche 20 metri, che nel giro di meno di due ore hanno praticamente raso al suolo tutte le baracche del campo. Momenti di paura per l'esplosione di alcune bombole di gas. Per domare le fiamme sono dovuti intervenire due elicotteri del servizio antincendi regionale. La natura dell'episodio è ancora da accertare ma non si esclude il dolo. La Protezione Civile ha lavorato sino a notte inoltrata e, nel campo sportivo del comune sono state issate 7 tende che come si legge sulla Nuova Sardegna online, sono state fornite dal Servizio di Protezione civile della Regione. Le tende sono equipaggiate di biancheria pulita e nell'arco della giornata dovrebbero essere montati alcuni gazebo per creare ombra e refrigerio. Attualmente anche gli spogliatoi e i servizi igienici del campo di S.N.Arcidano sono utilizzati dai cittadini di etnia Rom, l'amministrazione comunale poi già da ieri, con grande solerzia, ha predisposto un servizio catering e, d'intesa con l'Asl, l'erogazione dell'assistenza medica ad alcune persone ammalate, inoltre sembra persino che per evitare ulteriori disguidi la tendopoli sia costantemente vigilata dai locali L volontari della Protezione civile.

La comunità rom di San Nicolò d'Arcidano, la più "antica" della provincia è da sempre integrata ottimamente con la comunità locale, e, attualmente sembra essere composta da circa 100 rom stanziali. Nell'incendio di ieri però tutto è andato distrutto persino i mezzi che i Rom usano per lavorare. è composta da 94 persone, molti sono i bambini e diverse anche le persone anziane. Nell'incendio di ieri pomeriggio hanno perso tutti i loro averi. Con le baracche sono bruciati arredi e suppellettili e il fuoco ha incenerito anche alcuni mezzi parcheggiati nelle adiacenze. Al comune sono già pervenute richieste di aiuto economico. Da qui ad un mese la situazione sarà delicatissima e, fortunosamente già da tempo, grazie a dei fondi Europei, si lavorava alla sistemazione di un'area nei pressi del campo rom, per poter creare alcuni spazi abitativi migliori e così già tra un mese i rom arcidanesi potranno avere le nuove "case" fatto sta che però la situazione potrebbe rivelarsi critica dal punto di vista del disagio economico in cui verseranno alcune famiglie zingare.

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Di Frances Oliver Catania (del 13/07/2011 @ 09:26:41, in casa, visitato 1752 volte)

Da Redattore Sociale. Articoli precedenti: 21 aprile e 6 luglio. L'ultima segnalazione su Mahalla

Succede a Pessano con Bornago, in provincia di Milano. L'intervento di un gruppo di cittadini, di Caritas Ambrosiana e Avvocati per Niente ha impedito il provvedimento. Natalia Halilovic, una rom del campo: "La nostra vita ormai è in questo Comune"

MILANO – Abitano in due camper e in una roulotte, accatastate al bordo di una stradina che si perde in mezzo ai campi di Pessano con Bornago, comune in provincia di Milano. In quest'area dal 2002 vivono almeno una trentina di rom, fra loro 15 minori. Sono bosniaci, entrati in Italia nel lontano 1969 e da allora ancora alla ricerca di un posto dove stare.
Rischiavano di essere sgomberati domani, 13 luglio, ma un gruppo di cittadini si è opposto, ottenendo un congelamento – e non una soppressione - dell'ordinanza. Mentre il sindaco Giordano Mazzurana e l'assessore alle Politiche sociali Chiara Fiocchi (l'amministrazione è di centro sinistra, ndr) discutevano con Caritas e Avvocati per Niente onlus sul futuro dei rom, fuori dal Municipio cinque anziani del paese alzavano cartelli con scritto "I diritti non si sgomberano". "Ora bisogna capire se Caritas, Casa della Carità o altri enti del privato sociale saranno in grado di offrire una soluzione, almeno per i casi più vulnerabili", spiega Alberto Guariso di Avvocati per Niente. Intanto l'avvocato attende per oggi un "censimento" delle fragilità all'interno del campo. I casi conclamati, al momento, sono Maria Halilovic, una signora di 73 anni con tre bypass, e il figlio Spaho, cieco dalla nascita.

A portare i rom a Pessano con Bornago è stato il marito di Maria. Qui, 8 anni fa, aveva comprato un campo, ad uso agricolo. Voleva avere la famiglia vicina, durante il suo ricovero all'ospedale San Raffaele. Ma quando, nel 2008, è stata introdotta la legge Maroni che vieta gli assembramenti di roulotte sui terreni ad uso agricolo, Maria è stata costretta a spostarsi "in strada", pochi metri più in là. Con lei, i due figli Spaho e Natalia. Un luogo scomodo, di passaggio, perché da qui transitano ogni giorno gli agricoltori per raggiungere i propri terreni. Per il Comune questa situazione è diventata con il tempo inaccettabile, tanto che il villaggio rom diventa un problema.

"Nel novembre 2010 sono venuti a fare il primo sgombero", racconta Natalia. A detta del Comune, in quel momento nel campo abusivo di Pessano c'erano più di 33 famiglie. Chi ha potuto se n'è andato, gli altri sono rimasti qui. I segni di quell'evento sono ancora visibili: alle spalle delle roulotte affiorano i resti di altre case mobili, abbandonate in quello stato dal giorno dello sgombero. "Peggio di una discarica. Ma il Comune crede che dobbiamo portare via tutto noi? Sono loro che l'hanno fatto e loro devono pulirlo", denuncia Natalia.

Al campo i bambini si tuffano in un canale, che scorre proprio di fronte alle roulotte. Uno di loro, di 14 anni, racconta che quest'anno non ha potuto frequentare la seconda media, perché sua madre lo teneva a casa, temendo ogni giorno che lo sgombero minacciato diventasse effettivo.
"Fossi il presidente della Repubblica – dice – donerei a tutti i rom un campo dove stare". Parla del sindaco come il responsabile delle condizioni assurde in cui è costretto a vivere. "Tutti i nostri figli sono iscritti a scuola, ma non sempre siamo riusciti a mandarli – spiega Natalia -, ma la colpa è del Comune che ci vuole cacciare via". Una delle donne del campo non vuole che si facciano fotografie né a lei né ai suoi figli: "In città ci conoscono tutti e io mi vergogno del posto in cui sono costretta ad abitare". "Abbiamo rinunciato ad essere nomadi – racconta Maria – perché volevamo che i nostri nipoti studiassero, imparassero a leggere e scrivere e si trovassero un buon lavoro. Se ci continuano a sgomberare ci fanno tornare all'epoca dei miei bisnonni"

(Lorenzo Bagnoli) © Copyright Redattore Sociale

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Di Fabrizio (del 12/07/2011 @ 09:25:02, in Europa, visitato 1427 volte)

Famiglia Cristiana Il nomadismo è solo una necessità. Lo dimostra questo reportage a Draganesti, Romania, la baraccopoli da cui vengono i nomadi dei campi di Milano e dove opera la S.Egidio.
10/07/2011

Una delle baracche di Draganesti, in Romania.
Claudia, 8 anni, vive nella stessa casa di Draganesti in cui sono nati suo padre Ionut e suo nonno Marius. Il suo bisnonno, invece, viveva a soli 500 metri di distanza; è tipico delle ziganie dell'Oltenia, regione rurale della Romania a 80 chilometri da Craiova. Le ziganie sono i quartieri rom dei villaggi romeni: una strada con una fila di case sui due lati. La storia della Romania del Novecento è stata anche all'insegna della sedentarizzazione dei tanti gruppi rom che non hanno più nulla a che fare con un ideale di vita all'insegna del "nomadismo": la famiglia di Claudia si è spostata di mezzo chilometro in quattro generazioni. "Il tetto della nostra casa crollava, i mattoni di fango e paglia avevano troppi anni. Nel 2004 siamo partiti per Milano con un sogno: lavorare e mettere da parte i soldi per costruire la casa", spiega Ionut. L'Oltenia è la regione di provenienza della maggior parte delle famiglie che abitano le baraccopoli abusive di Milano.

La scuola di Draganesti, costruita con i contributi della S.Egidio.
Č molto chiaro: il nomadismo non c'entra niente, si tratta di una migrazione per cause economiche. Nei primi anni a Milano, la moglie chiedeva l'elemosina, Ionut ha lavorato nell'edilizia. Per i primi tre anni, mai un contratto: "Un italiano ci chiamava "a giornata": in alcuni periodi, eravamo pagati anche tre euro e mezzo all'ora. Quando il capo aveva un cantiere, si lavorava dieci ore al giorno, poi, per un po', non si lavorava fino alla commessa successiva. Abbiamo lavorato tantissimo alla costruzione della Fiera di Rho." Poi, nel 2007, finalmente un contratto accompagnato da un pratica diffusa tra alcune cooperative edili milanesi: nello stesso momento, si è obbligati a firmare anche un foglio in bianco senza data. Č la lettera di dimissioni. A inizio del 2009, quando la crisi edilizia blocca i cantieri, il capo della cooperativa rispolvera dal cassetto il foglio firmato aggiungendo la data: Ionut ha perso il lavoro. Per due anni, con la moglie Maria cerca di garantire una vita decente ai tre figli. La Comunità di Sant'Egidio iscrive a scuola Claudia, mentre i due più piccoli, di tre e cinque anni, non possono andare all'asilo: a Milano, senza residenza, non è possibile. Resistere non è facile: dal 2007 ad oggi, avvengono 500 sgomberi di baraccopoli rom nel solo capoluogo lombardo. Capita di dormire per strada, sotto la neve, riparandosi con una piccola tenda. Così, a febbraio 2011, Ionut, Maria, la maestra di Claudia e la Comunità di Sant'Egidio pensano ad un progetto di ritorno in Romania. Alcune donazioni di privati permettono di restaurare la casa di Draganesti e attivare una borsa di studio in collaborazione con la scuola locale. La nuova casa di Giulia ora è in muratura, coloratissima: il corridoio azzurro, la cucina rosso fiammante, la stanza dei genitori verde e quella dei bambini rosa. Sul retro, l'aia con tacchini e galline e un terreno in cui la famiglia potrà coltivare pomodori e peperoni. La camera di Claudia è decorata con peluches, al centro la sua foto con la maestra e la classe italiana. Dell'Italia rimane anche la paura della polizia. Racconta il padre: "Anche qui, quando passa un vigile, Claudia mi si avvicina e trema. A Milano, spesso succedeva che durante i controlli, si faceva la pipì addosso per la paura."

La vecchia casa di Claudia, a Draganesti.
Il problema rimane il costo della vita, che è uguale a quello italiano. Al Penny Market di Draganesti un paio di calze costa un euro e mezzo, un salame quattro, un litro di olio di semi di girasole quasi due. In questi villaggi rurali, il lavoro non c'è. La depressione economica è palese, l'emigrazione in Italia o nelle grandi città romene è spesso la sola opportunità. La presenza di investitori italiani è comunque forte anche nella regione: a Slatina, il capoluogo dell'Oltenia, c'è un importante fabbrica della Pirelli. Mirela, anziana con 4 figli emigrati, si commuove mostrando la foto del nipote di 8 anni che ha cresciuto e che ora vive in una casa a Milano. Racconta: "Durante il regime di Ceausescu, eravamo pagati poco, ma il lavoro c'era. Qui a Draganesti, c'erano cinque industrie alimentari e due di scarpe. I primi anni dopo l'89 si stava bene, ma poi tutte le fabbriche hanno chiuso, non reggevano la concorrenza." Nella zigania di Lalosu, uno dei paesi vicini, c'era un enorme allevamento dove, fino ai primi anni Novanta, lavoravano più di cento persone. Fallito, è stato acquistato da un "italiano di Bucarest": ha rivenduto il ferro e il materiale con cui era costruito e se ne è andato. Negli ultimi due anni, anche la crisi economica ha duramente colpito la Romania, molto più che l'Italia. Dal 2008 al 2009 il PIL romeno è passato dal +8% al -7,1%, il Governo ha varato un piano di austerità che taglia drasticamente la spesa sociale, le pensioni e i salari pubblici. Mirela può comprare le medicine solo grazie al figlio che manda i soldi da Milano. Nella zigania di Draganesti – 1300 abitanti sui 12.000 dell'intero villaggio – le case sono molto diverse tra loro, spesso abitate da famiglie allargate. Le più povere sono baracche fatte di paglia e fango, costituite da un'unica stanza fatta di mattoni di terra a vista. Altre sono caratterizzate dai tetti decorati con lamiera intagliata e un corridoio d'ingresso illuminato da ampie finestre; poi ci sono le "ville" di Bercea Mondial, il più ricco della zona, che ha fatto fortuna in maniera per nulla chiara e che certo non ha dovuto vivere nelle baraccopoli milanesi. A Draganesti non ci sono fogne e i servizi per la maggior parte sono costituiti da una piccola baracca in un angolo del cortile. Pochissime case hanno l'acqua corrente, mentre la maggior parte ha il pozzo in cortile. Era così anche in Italia; in Veneto, nel 1961, il 72% delle case non aveva il bagno.

Mirela con la foto del nipote, che è a Milano.
Ciò che colpisce sono gli squilibri e le contraddizioni della zigania. Da un lato, resiste una tradizione rurale e arcaica che ricorda in parte alcuni villaggi italiani prima del boom economico dello scorso secolo. Le ragazze si sposano presto, spesso ancora minorenni; la scuola è frequentata dai ragazzi rom del villaggio, ma le femmine raramente superano la quinta classe, mentre i maschi arrivano fino alla settima. Spesso è anche ignoranza: Marieta spiega che la varicella si cura vestendo di rosso i bambini. Dall'altro, la società tradizionale si scontra con le distanze che si accorciano e la globalizzazione. Così, le trasmissioni più seguite dai rom sono le telenovelas indiane di Bollywood. La connessione web con il cellulare costa pochissimo. L'emigrazione e il collegamento con l'Italia sono in questo senso travolgenti. Ogni weekend parte un pulmino che trasporta persone, posta, bagagli dalla zigania al capoluogo lombardo in entrambe le direzioni. Simona, 14 anni, ha frequentato a Milano fino alla terza media: è una delle uniche ragazze rom di quell'età a portare i pantaloni a Draganesti. Ma l'incontro-scontro con il mondo esterno alla zigania trasformerà inevitabilmente questa società, che ora è in mezzo ad un bivio. Bisogna puntare sulla scolarizzazione, da cui dipende il futuro di molti bambini. Nella zona più povera della zigania abita la famiglia di Daniel, 10 anni, che ha una forte disabilità. A Milano, nella baraccopoli di Rubattino, aveva iniziato la quarta elementare; travolto da un'ondata di solidarietà delle maestre, dei compagni di classe e dei loro genitori, ha fatto notevoli progressi. Ma cinque mesi fa, dopo un anno e mezzo di scuola e lo sgombero, la famiglia è dovuta tornare a Draganesti. Percorso scolastico interrotto perché, come spiega il padre, "sarebbe dovuto andare in una scuola speciale, molto lontano, a Slatina, e noi non abbiamo i soldi per portarlo". Il suo progetto è chiaro: tornare a Milano a breve, perché "i soldi e la carne del maiale ammazzato a gennaio sono finiti, il lavoro non c'è e Daniel non può andare a scuola".

Maria nella sua nuova serra.
Torneranno a breve a Milano anche Lenuta, Marin e i loro 5 figli; sono una delle famiglie più povere e da anni alternano alcuni mesi in Italia, dove Lenuta chiede l'elemosina e il marito lavora saltuariamente "a giornata", e altri a Draganesti. Qui, vivono raccogliendo la plastica e altri scarti da riciclare; un sacco enorme pieno di bottiglie viene pagato cinque euro. I bambini sono seduti a mangiare la mamaliga con strutto, l'unico pasto che per la giornata la famiglia può permettersi. La mamaliga, insieme al sarmale di verze e carne, è il piatto più diffuso nelle ziganie: è la polenta. La scena sarebbe potuta accadere anche nelle cascine lombarde del secolo scorso, ma molti padani sembrano essersene scordati. Marin spiega che i suoi figli in Romania non mangiano la frutta, costa troppo. In Italia, invece, ne mangiano tantissima: le maestre della scuola regalano ai bambini i frutti avanzati dalla refezione. Ora i bambini non vanno a scuola, perché tradurre in romeno i nullaosta per il trasferimento costava troppo. Lenuta invece mi mostra l'ultima multa per accattonaggio da 500 euro ricevuta a Milano e il conseguente provvedimento di allontanamento dall'Italia. Nel verbale, si dispone anche il sequestro delle monetine. Lenuta mi dice che tra qualche settimana devono ripartire per l'Italia perché sono finiti anche i soldi per la polenta. Le chiedo se ha saputo che a Milano siamo arrivati a 500 sgomberi e che la baraccopoli di Bacula è stata nuovamente distrutta. "Non conto più quante volte ci hanno sgomberato, è bruttissimo, ma cosa devo fare? Cosa do da mangiare ai miei figli?" mi risponde. Effettivamente, vista da questa baracca di fango e paglia di Draganesti, Milano, che ha festeggiato con la precedente amministrazione i 500 sgomberi raggiunti, sembra una città che, anziché combattere la povertà, fa la guerra ai poveri.

Stefano Pasta

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Di Fabrizio (del 12/07/2011 @ 09:15:27, in scuola, visitato 1452 volte)

di Nando dalla Chiesa

Cristina. Č il nome che le torna sulle labbra più volte mentre racconta la sua esperienza di maestra milanese. Flaviana Robbiati ha appena tirato due o tre pugni nello stomaco al pubblico della Settimana Internazionale dei Diritti di Genova. Č venuta qui con un'altra maestra milanese, Stefania Faggi. A spiegare perché le è stato impossibile voltarsi dall'altra parte mentre le ruspe distruggevano i campi nomadi dove abitava Cristina. Non voltarsi quando vengono calpestati diritti altrui dà, secondo la tradizione ebraica, diritto a quell'appellativo di "giusti" a cui è dedicata la rassegna genovese. Loro sono venute a rappresentare, con altri insegnanti, i "giusti nella scuola".

"Lo sa lei che cosa vuol dire uno sgombero? Noi sì, l'abbiamo misurato attraverso i nostri alunni rom del Rubattino. Saranno catapecchie in lamiera, ma ognuna è per loro la propria casetta, capisce? Quando arrivano a tirar giù tutto fanno la conta a quintali della spazzatura. Ma quei rifiuti triturati sono pentole, cartelle, quaderni, giocattoli, guardi qui la foto di questa bambola decapitata. A Milano in tre anni hanno fatto 540 sgomberi. Il vicesindaco De Corato li festeggiava pure. Quando poi il cardinale Tettamanzi chiese di evitare di farli in inverno, di risparmiare la pioggia e la neve e il freddo a quelle creature, il sindaco rispose che la lotta per la legalità non conosceva stagioni. Bella legalità, che ammazza il senso di giustizia. Io dico che negli edifici dove si applica la legge c'è scritto ‘Palazzo di giustizia', mica ‘Palazzo della legalità'. E di ingiustizie ne abbiamo viste. Sa, noi seguivamo attentamente le vicende del campo. Un mattino seppi che avevano fatto uno sgombero che era ancora buio. Allora spiegai tutto agli altri alunni, chiesi loro di non farlo pesare a Cristina. Cristina arrivò a scuola chiedendo che i compagni non sapessero nulla, con gli occhi bassi, per la vergogna di quel che le era successo. In classe furono bravissimi, perché per fortuna i compagni di scuola e le loro famiglie ci aiutavano molto a creare un clima di amicizia e la invitavano alle feste".

Ha un viso lungo e scavato, Flaviana, gli occhiali dorati poggiati su un naso magro e impertinente. Stefania ha i capelli scuri, è solo all'apparenza più severa. "Quel giorno", continuano, "quel 19 novembre, ci arrivarono a scuola alle quattro del pomeriggio tutti i genitori degli alunni rom del distretto, quasi una quarantina ne avevamo. E ci chiesero di aiutarli a dormire. Facemmo subito le telefonate, Sant'Egidio, la Casa della Carità, le parrocchie, e alla fine ne prendemmo qualcuno in casa nostra. Riuscimmo a sistemarli quasi tutti. Il fatto vero però è che questa guerra ai rom toglie a dei bambini un diritto elementare: quello di andare a scuola. Č andare a scuola, secondo lei, doversi rifare i quaderni ogni mese, trovarsi senza casa decine di volte all'anno, perché questi sono i numeri di Cristina, oppure dovere cambiare otto scuole in un anno come è capitato a Samuel, o metterci due ore a piedi tra i campi ghiacciati, come è successo a Giulia che voleva restare nella sua classe? Č andare a scuola con la serenità necessaria venire staccati come figurine dal padre o addirittura dalla madre a sei anni? Per questo noi diciamo che i bimbi rom sono bimbi come gli altri, ma contemporaneamente che sono un po' meno bambini di tutti. Perché per loro vivere la normalità non è normale. Si sentono sempre in colpa. Vuole sapere la storia di Ulisse, che arrivò a scuola ricoperto di sputi? Era stato un signore dalla sua macchina. Appena lo ha visto, aveva tirato giù il finestrino e l'aveva trasformato in un bersaglio".

Stefania e Flaviana, scuole diverse ma stesso circolo didattico, quello di via Pini, zona est della città, non si fermerebbero mai nel loro racconto. D'altronde se c'è qualcuno che ha presidiato le frontiere della civiltà nell'Italia ubriaca di pregiudizi e di razzismo sono loro. Loro che appena fiutavano l'aria di sgombero facevano lasciare le cartelle a scuola o preparavano materassi nelle loro cantine. "Ma lo sa che alcuni di questi bambini vivono perfino sotto terra? Pensi quanto è grottesco: li bocciano a volte per le troppe assenze, quando sono proprio gli sgomberi a catena che gli impediscono di venire a scuola. Eppure si impegnano, sa? Cristina sapeva solo il romans e il rumeno. Ora è andata a vivere in una casa in un altro paese, anche se i suoi compagni continuano a invitarla alle feste, ed è stata promossa in prima media quasi con la media dell'8. Ha studiato e imparato. Noi lo ripetiamo a ogni incontro: lasciarli analfabeti è come compiere una pulizia etnica. Perché se tu non sai la lingua non leggi neanche la medicina, non leggi la pagella di tuo figlio, resti letteralmente senza diritti. Che è la più grande povertà: non potere accedere ai diritti, non sapere nemmeno di averli. Per questo un giorno abbiamo scritto loro una lettera per rivederli l'anno dopo a scuola". Dice così quella lettera: "Vi insegneremo mille parole, centomila parole, perché nessuno possa più annientare le vostre voci".

"Se abbiamo dei progetti? Certo che li abbiamo. Borse-lavoro, progetti sanitari, la promozione anche del vino e del pane rom. Ma quali soldi, non abbiamo niente. Piuttosto, sa che cosa ci sembra un po' orribile? Di essere diventate note perché difendevamo i bambini. Ma perché, non sta scritto ovunque che bisogna difenderli? E invece per qualcuno siamo un po' uno scandalo. Ma come, si chiedono, come è possibile che della gente si voglia tenere gli zingari?".

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Di Fabrizio (del 11/07/2011 @ 09:38:05, in Regole, visitato 1126 volte)

Da Roma_Francais (i link sono in francese)

Montpellier journal Le Vendredi 24 juin 2011 à 11:11

Un giovane Rom rumeno di 19 anni di fronte ai disfunzionamenti della giustizia

Accusato di aver colpito la gamba un poliziotto con una pala, Jiji è in detenzione provvisoria dal 25 maggio, anche se non ha smesso di proclamarsi innocente. Si accumulano le anomalie poliziarie e giudiziarie dopo la movimentata evacuazione di un terreno della SERM il 29 marzo a Montpellier

L'inchiesta del Montpellier journal è stata difficile. "Sull'identificazione dell'autore del colpo, le versioni delle differenti fonti di polizia divergono", scrivevamo il 19 aprile dopo la ferita alla testa di un poliziotto il 29 marzo, durante il movimentato sgombero di un campo di Rom rumeni installato su un terreno della SERM a Garosud. Un altro dei quattro poliziotti sarebbe stato leggermente ferito da un colpo di pala alla gamba, che non comporterebbe alcuna incapacità totale al lavoro.

Incensurato

Verso la metà di maggio, Jiji, uno dei presunti autori delle violenze, viene interrogato dalla polizia. Deve sostenere una comparizione immediata il 16 maggio per "violenza aggravata", ma l'udienza viene rinviata al 20 giugno. In questo intervallo, viene posto in detenzione provvisoria. Lunedì, quando si è presentato al tribunale correzionale, questo giovane di 19 anni, senza precedenti penali, era dunque alla sesta settimana di detenzione. Rischia sette anni di prigione.

Dalla sintesi del presidente del tribunale, sembra che Jiji non sia accusato dai poliziotti di aver portato il colpo alla testa, ma solamente quello alla gamba. Inoltre, solo la presunta vittima accusa Jiji. Gli altri tre dichiarano semplicemente che Jiji era presente e che aveva una pala. Due di loro aggiungono che era "minaccioso". Jiji, da parte sua, aveva dichiarato durante la prima audizione che era presente e di avere una pala. Oggi, dice che non era presente in quanto viveva in un altro campo che non c'entrava niente con quello sgomberato quel giorno. Ha sempre negato di aver colpito il poliziotto.

"Il dettaglio risolutivo"

Inoltre, secondo lil signor Benyoucef, avvocato di Jiji, la presunta vittima del colpo di pala ha dichiarato durante la sua prima audizione: "Posso dirvi che chi mi ha aggredito - chi mi ha aggredito - parla un buon francese." Qualche settimana dopo, Jiji si fa interrogare e, sottolinea l'avvocato, "è necessario rinviare la notifica dei suoi diritti, perché incapace di comprendere e parlare il francese." E conclude: "E' il dettaglio risolutivo". Cioè: Jiji non può essere l'aggressore.

A chi credere? Al poliziotto o a Jiji? Dovremmo attribuire importanza alle dichiarazioni di diverse persone presenti che hanno dichiarato ai membri del Collettivo di sostegno ai Rom di Montpellier, cheper alcuni i poliziotti erano "molto aggressivi" e "ben bevuti"? O a quelle di chi [...]  ha dichiarato che quella sera i poliziotti avevano "un comportamento bizzarro"? (audizione riportata da Benyoucef)

Risultati dell'analisi del DNA non pervenuto al tribunale

Meraviglia inoltre la capacità dei poliziotti ad identificare Jiji tra diverse centinaia di foto. In effetti, erano le 21.00 al momento dei fatti, dunque era notte, erano presenti una ventina di persone e visibilmente regnava una certa confusione. Il rapporto delle analisi sulle impronte ed il DNA sulla pala e sulla rotula (si sospetta che la pala sia stata usata anche per il colpo alla testa) potrebbe fornire indicazioni. Problema: lunedì il rapporto del laboratorio Biomnis non era ancora giunto in tribunale. Da parte di Biomnis, incaricata ad inizio aprile si disse al Montpellier journal che "il caso non era stato segnalato come urgente" dagli inquirenti, ma che il rapporto era pronto e doveva essere inviato al più tardi la prossima settimana. Altro problema: Jiji è accusato di concorso in violenza o è il solo sospettato ad essere stato arrestato.

Il procuratore ha dovuto riconoscere che il caso era stato condotto male e ha tentato di giustificarlo con un cattivo passaggio di consegne tra il personale di turno nel fine settimana e chi ha ripreso il dossier. Da parte sua Benyoucef ha commentato: "Si è commesso un errore per la fretta. Si rinvii il dossier all'istruttoria, ma occorre smettere di giocare con la libertà delle persone, anche quando sono Rom." Il tribunale l'ha seguita nella prima parte e la procedura è ripartita da zero: messa sottoaccusa di Jiji da parte di u procuratore e presentazione davanti ad un giudice. Problema: se il rapporto del laboratorio dovrà pur arrivare alla fine, l'arresto dei tre altri sospetti potrebbe richiedere tempo. Durante il quale Jiji dovrà rimanere in carcere.

"E' fantastico, non importa cosa!"

Dopo l'udienza, spiega Benyoucef: "Avrebbe dovuto esserci un'apertura d'informazione immediata. Quando si presenta in questo modo un presunto colpevole, dev'essere pronto un dossier. A prescindere! Siamo talmente sommersi di lavoro a livello d'accusa, siamo talmente soggetti a circolari che dicono: "Bisogna perseguire, bisogna giudicare, bisogna condannare," che non ci si fa più attenzione. C'è una volontà repressiva che inquina il dibattito. Siamo ad un anno da una scadenza elettorale, siamo nella religione dei numeri: ci vorranno 7-8 mesi per fornire i dati dello spettro politico. Bisogna essere stakanovisti dell'arresto,del giudizio breve, della condanna e dell'esecuzione della pena."

Occorre lo stesso ricordare che le accuse si basano sulle dichiarazioni di quattro poliziotti, di cui uno solo, la vittima, afferma di essere stato colpito da Jiji. Che quindi l'inchiesta viene condotta da poliziotti colleghi dei quattro in questione. Commenta Benyoucef a tal proposito: "L'inchiesta avrebbe dovuto essere assegnata alla gendarmeria." Infine va ricordato che non è stato effettuato alcun alcoltest sui poliziotti. Quindi non possiamo sapere se le accuse mosse da alcuni testimoni della scena siano accurate o meno.

Lamenti della madre di Jiji

Il caso è proseguito mercoledì, dato che il giudice doveva stabilire se mantenere Jiji in detenzione o meno. Malgrado un certificato d'alloggio e la proposta di firma quotidiana al commissariato, il giudice Philippe Treille ha deciso di non liberare Jiji per due ragioni: "evitare una collusione tra l'indagato ed i suoi (presunti) co-autori o complici" e "garantire il mantenimento delle persone coinvolte alla giustizia". L'assoggettamento a sorveglianza giudiziaria o agli arresti domiciliari non permetterebbe, secondo il giudice, di raggiungere questi obiettivi. Diversi minuti dopo l'annuncio della decisione, il pianto della madre di Jiji e la parole di rabbia di suo padre, presenti in aula durante tutto il lunedì pomeriggio, risuonavano ancora nel palazzo di giustizia.

Durante l'udienza, aveva dichiarato Benyoucef: "Non si può prendere in giro la situazione. Sapete che è Rumeno. Abbiamo messo in carcere un Rumeno, come volete che sia problematico? La libertà degli altri non è mai problematica. La presunzione d'innocenza degli altri non è mai problematica. [...] Niente vale fino al giorno che qualcosa vale la pena. Ma quel giorno, non ci sarà più nessuno a rispondere, perché il sistema è fatto così. E' il tesoro pubblico che emette un assegno il giorno che si rende conto di non potere affrontare il problema."

"Il prefetto ha dato istruzioni improprie"

Infine, Benyoucef ricorda al Montpellier journal come, secondo lui, si è arrivati a quel punto: "Il prefetto [Claude Baland] ha dato istruzioni improprie ai servizi di polizia, perché tutta la giornata [29 marzo] ha attaccato verbalmente queste persone. Se si è venuto a creare un tale stato dei tensione, credo che sia dovuto a quello che ha subito quella gente durante il giorno." (per ulteriori dettagli, leggere: L'expulsion de Roms roumains d'un terrain de la Serm se termine mal)

Coincidenza, giovedì mattina apprendiamo che Georges Tron era stato incriminato per "stupro e violenza sessuale in un incontro".Crimini passibili con 20 anni di recluzione. L'ex segretario di stato nega le accuse contro di lui. E' stato lasciato in libertà sotto controllo giudiziario. Gli è proibito entrare in contatto con le presunte vittime e i testimoni. Una delle due ricorrenti a dichiarato a RTL: "Si fosse trattato del macellaio della porta accanto, sarebbe in prigione. Oggi, lui è libero. Ci sono pressioni e minacce. Bisogna viverle. Ci si aspetta che la giustizia sia battuta per aspettare a mettere queste persone in prigione?"

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Di Fabrizio (del 10/07/2011 @ 09:51:47, in casa, visitato 1451 volte)

La Stampa In Lungo Stura Lazio vivono 600 persone di cui 130 bambini. Intesa Regione-Provincia-Comune sui campi rom - 06/07/2011 - ANDREA ROSSI - TORINO

La road map non ha una scadenza precisa, però un punto d’arrivo sì: chiudere le mega baraccopoli rom, a cominciare da Lungo Stura Lazio, un groviglio di catapecchie abitate da 600 persone, tra cui 130 bambini, sulle rive del fiume. Una bidonville senza igiene né sicurezza, troppo grande per non essere smembrata. Così sarà: gli occupanti verranno distribuiti in vari comuni del Torinese. Dove? In insediamenti di piccole dimensioni. I primi verranno costruiti a Rivalta e Ivrea. La via d’uscita verrà definita nel protocollo d’intesa che Prefettura, Regione, Provincia e Comune firmeranno la prossima settimana. Una piccola rivoluzione che apre alla gestione collegiale dei campi nomadi, finora scaricata sulle spalle dei singoli comuni. Regista dell’intesa è stato il prefetto Alberto Di Pace, commissario del governo per l’emergenza rom. Solo a Torino, oggi, nei campi autorizzati vivono 800 persone, in quelli abusivi più di mille, la metà in Lungo Stura Lazio, la partita più urgente da risolvere.

Come? Potrà sembrare strano, ma la strada scelta è quella tracciata tempo fa dal prefetto e teorizzata anche a Milano, in campagna elettorale, dal nuovo sindaco Giuliano Pisapia: l’autocostruzione, percorso previsto dal Piano per l’integrazione nella sicurezza proposto dal ministro dell’Interno Maroni nel 2010. A Milano la Lega ha fortemente contrastato il progetto di Pisapia; in Piemonte, invece, il Carroccio, che guida la Regione, farà la sua parte sottoscrivendo il protocollo che verrà attuato probabilmente sotto la supervisione del presidente della Provincia Antonio Saitta.

Il modello delineato nel piano ricalca la vicenda del Dado di Settimo Torinese, la prima esperienza di autorecupero e autocostruzione rivolta alla comunità rom in Piemonte. Nella palazzina alle porte di Torino vivono sei famiglie che hanno scelto di abbandonare i campi e accettare una serie di regole: l’iscrizione a scuola per i minori, l’inserimento lavorativo tramite corsi di formazione e tirocini per gli adulti, la cura degli spazi comuni. Sul tutto sovraintende l’associazione Terra del Fuoco, che sarà interlocutore privilegiato del progetto tra istituzioni.

Tramite il protocollo si tenterà di diffondere l’esperienza del Dado in altri Comuni del Torinese, così da svuotare i campi abusivi - a cominciare da Lungo Stura Lazio - in favore di strutture più piccole, e ragionare quindi su numeri ridotti. Alcune aree sono già state individuate, oltre a Settimo, anche a Rivalta e Ivrea. Nel frattempo si cercherà di passare dalla fase dei campi abusivi a quelli transitori. In ogni caso la strada sarà una sola: smembrare i grandi insediamenti abusivi perché è lì che si possono annidare delinquenza e degrado.

La soluzione dovrebbe permettere a Torino di uscire dall’emergenza nomadi. La città, negli ultimi anni, più volte ha lamentato di essere stata lasciata sola e senza fondi nell’affrontare i grandi numeri degli insediamenti rom. Nei mesi scorsi il governo ha stanziato cinque milioni; ora, con il protocollo - che ieri è stato approvato dalle giunte di Provincia e Comune - si poggia il secondo tassello: la gestione sarà collegiale.

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Di Sucar Drom (del 09/07/2011 @ 09:53:37, in blog, visitato 1496 volte)

Firma la petizione per la "Giornata internazionale delle donne rom"
L'8, 9 e 10 Ottobre 2010 si è tenuto a Barcellona il primo Congresso Internazionale delle donne Rom "Un'altra donna". Le "altre donne" non sono le donne in ambito accademico, ma quelle che normalmente non vengono invitate per il dialogo, il dibattito e le competenze specifiche. Riunite in questa...

Avvenire intervista l'artista Bruno Morelli
Durante le celebrazioni per la commemorazione del beato Ceferino Gimenez Malla, detto Zeffirino, il quotidiano Avvenire ha intervistato Bruno Morelli (in foto davanti alla sua scultura), artista eclettico appartenente alla minoranza linguistica dei rom abruzzesi...

La Notte della Rete continua...
La Notte della Rete, a cui hanno aderito Sucar Drom e l'ICS, continua a Domus Talenti. E' la manifestazione nata contro la delibera dell'Agcom in materia del diritto d'autore che oggi viene discussa dall'Autorità e che coinvolge politici, artisti, blogger, imprenditori, giornalisti, giuristi...

Milano, progetti europei per il futuro dei sinti e rom
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Di Fabrizio (del 08/07/2011 @ 09:45:33, in Regole, visitato 1409 volte)

Affaritaliani.it Mercoledì 06.07.2011 10:16 - di Fabio Carosi

"A Roma è allarme rosso per la criminalità ma invece di affrontare il problema chiamando imprese e commercio intorno ad un tavolo, questa politica spreca risorse facendo la guerra a rom e puttane. E così fanno il gioco del crimine organizzato che spinge perché il problema sicurezza sia circoscritto a giovani e alcool".

Vincenzo Ciconte, docente di Storia delle criminalità organizzata a Roma Tre, ex consulente della Commissione Antimafia e primo tra gli scrittori ad occuparsi del fenomeno della Ndrangheta, sceglie Affaritaliani.it per analizzare la serie di avvertimenti, omicidi e sequestri di proprietà riconducibili al crimine organizzato, che hanno segnato le ultime settimane romane. Tanto da far gridare ieri al sindaco Alemanno che Roma è un Far West e a porre il problema sicurezza al ministro Roberto Maroni.
L'analisi di Ciconte è lucida e spietata. "Intanto omicidi e ferimenti non sono legati ad un unico filo – dice – perché il ritorno alla città delle pistole è un modo delle bande per accreditarsi sul territorio. Per mostrare la loro potenza usano metodi plateali e non rinunciano a sparare e uccidere in pieno giorno. Diversa invece è l'infiltrazione del crimine spa nel tessuto commerciale. Ndranghetisti e camorristi hanno bisogno di lavorare nel silenzio per riciclare e non vogliono che si scriva sui giornali, che si racconti cosa accade. L'elemento comune denominatore è che siamo in una città aperta alle scorribande".

Professore, eppure il problema sicurezza è stato al centro delle politiche degli ultimi anni. A leggere la sua analisi sembra di essere di fronte ad un fallimento. O No?
"Roma non è una città sicura e questo è palese. Solo che l'omicidio della signora Reggiani è stata indicata come colpa del centrosinistra, mente quello che è accaduto ieri in Prati non sembra avere colpevoli. Ma il vero nodo è politico".

Ma la sua analisi tecnica non è troppo ispirata alla politica?
"Esatto la mia è un'analisi politica dei fenomeni ma non partitica. Il sindaco ha vinto una campagna elettorale sulla sicurezza e dopo un po' ha fatto correre le forze dell'ordine per reprimere lavavetri, prostitute, rom e ragazzi che si drogano e bevono per manifestare il disagio sociale. Il risultato è che se si combattono così non si garantisce la sicurezza della città e i fatti lo dicono, smentendo questa politica. Perdonatemi, ma non penso si possa affrontare il tema della movida e di ciò che genera con gli arresti. Contro il disagio sociale ci vuole un'offerta diversa, un modo di vivere la città che non sia solo aggregazione di massa intorno ad un bicchiere".

Sta forse dicendo che le ordinanze sulla sicurezza hanno distolto le forze dell'ordine dalla vera emergenza?
"Dico solo che queste politiche concentrano Carabinieri, Polizia e guardia di Finanza intorno alle risse".

E il resto, le bande, il crimine che acquista bar storici per riciclare cosa fanno?
"Sono gli stessi mafiosi che spingono sull'allarme sicurezza sociale, perché questo li mette al riparo dal clamore. E non si può minimizzare come è stato fatto in questi anni da parte di tutta la classe dirigente politica, l'errore è stato di non comprendere che si sono chiusi gli occhi".

Dunque, errore politico?
"Sì perché per correr dietro a finte emergenze sociali si è perso di vista ciò che succedeva nel tessuto economico: l'economia romana è sotto aggressione da parte della criminalità, basti pensare alla droga, all'usura, all'attacco alle proprietà per riciclare i fiumi di denaro illegale e al gioco d'azzardo. Il sequestro di ville, barche e bar storici è solo l'inizio di un lungo percorso e se si continuerà a scavare si troveranno molte altre proprietà".

Che può fare la politica di fronte a questo fenomeno?
"Intanto piantarla con la pia illusione che basta spostare due prostitute e vietare l'alcool alla sera per costruire una città sicura. Occorre chiamare i commercianti e le imprese intorno ad un tavolo, lavorare sull'usura e controllare municipio per municipio come avvengono i passaggi di proprietà di immobili e locali e capire se questi fenomeni sono normali compravendite oppure azioni di riciclaggio".

Così descritta Roma sembra una succursale della Calabria ndranghetista. Non è esagerato?
"No, perché Roma non è ancora come Milano e la Lombardia dove esiste un rapporto politica criminalità. Da noi episodi che coinvolgono consiglieri regionali e sindaci sono ancora periferici come a Fondi e in Ciociaria. Ma se nel giro di 2 anni avvengono significativi passaggi di proprietà nel cuore più ricco della città e in un momento di crisi, vuol dire che qualcosa sta succedendo. Ecco, Roma e il suo tessuto economico sono sotto attacco".

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