 Franzmagazine.com
 
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Il racconto di Zijo Ribic è agghiacciante ma a colpire chi lo ascolta sono 
soprattutto le conclusioni a cui è giunto questo ventisettenne bosniaco 
musulmano di etnia rom, a cui i nazionalisti serbi hanno sterminato l'intera 
famiglia. «Non so se li odio – dice – forse perché non mi hanno insegnato a 
odiare e allora questo sentimento non mi appartiene». A chi gli 
obietta dopo quello che gli è accaduto l'odio a prima vista sembrerebbe la 
reazione più naturale Zijo risponde in modo lucido: «Il fatto che venga fatta 
giustizia per me è secondario, mi interessa invece che venga affermata la 
verità, che si sappia quello che è successo perché noi rom non siamo animali ma 
persone». In questi giorni Zijo Ribic è a Bolzano su invito della Fondazione 
Langer, da anni impegnata nell'ambito dell'iniziativa Adopt Srebrenica, non solo 
a sostenere il ricordo del genocidio avvenuto negli anni'90 nella ex Jugoslavia, 
ma anche nell'aiuto concreto di chi come Zijo ha avuto la vita segnata in 
maniera indelebile da fatti che hanno poco di umano, ma che sono avvenuti a 
poche centinaia di chilometri da noi. Zijo Ribic sarà protagonista domani 13 
gennaio (ore 20, Sala Giuliani del Teatro Cristallo) di un incontro pubblico in 
cui verrà anche presentato un documentario inedito sulla sua storia. Incontriamo 
Zijo nella sede della Fondazione Langer ed iniziamo la nostra intervista 
cercando di immaginare che razza di vita sia quella delle persone che, come lui, 
per poter trovare aiuto sono condannate a ricordare quotidianamente gli orrori 
che stanno scritti nella propria storia.
Dove vive oggi Zijo Ribic?
«A uzla, in Bosnia. Per un paio di stagioni ho lavorato anche in Italia, a 
Rimini. A Tuzla lavoro come cuoco in un albergo ma c'è la crisi e allora da 
quasi un anno non mi pagano lo stipendio. Vivo in una stanza in affitto che non 
riesco a pagare. Oggi come oggi non cerco altro che un lavoro qualsiasi che mi 
permetta di costruirmi una vita normale, una famiglia».
Lei è stato il primo il primo rom ad aver portato in tribunale la questione del 
genocidio del suo popolo. Un genocidio dimenticato, passato in secondo piano sia 
durante l'Olocausto della Seconda Guerra Mondiale, che durante le guerre 
jugoslave degli anni'90.
«Nel 2005 un mio parente mi ha messo in contatto con Natasha Kandic, una 
sociologa che ha vinto il Premio Langer nel 2000 e che ha fondato a Belgrado un 
centro attivo fin dal'92 con lo scopo di fare luce sui terribili eventi accaduti 
durante la guerra. Ho deciso di raccontare la mia storia e denunciare gli autori 
dello sterminio della mia famiglia e del mio villaggio. Grazie al sostegno e 
all'assistenza della Kandic e del suo staff sono state quindi avviate delle 
indagini che hanno portato nel 2009 all'inizio di un processo, tutt'ora in 
corso, contro gli autori materiali del massacro nella mia città di Skocic».
Quelle persone sono oggi in libertà?
«No. Parte di loro sono in carcere in attesa della sentenza, altre sono agli 
arresti domiciliari».
Quale forza ci vuole per prendere parte ad un processo contro coloro che hanno 
assassinato tutta la propria famiglia?
«Innanzitutto bisogna avere i soldi per comprare il biglietto del treno per 
Belgrado, fatto tutt'altro che scontato. Per fortuna in patria c'è la signora Kandic che mi aiuta e, come vedete, mi sta sostenendo anche la Fondazione Langer».
Cosa accadde quel 12 luglio del 1992?
«Anche dopo tanti anni mi ricordo tutto, come se fosse successo ieri. Mi ricordo 
quando sono arrivati e ci hanno presi. Prima ci hanno picchiati, cercando oro e 
armi e dicendo che non avrebbero fatto niente alle donne e ai bambini. Poi 
invece ci hanno raggruppati tutti davanti alla casa dove hanno violentato mia 
sorella maggiore Zlatija davanti ai miei occhi. Sono quindi arrivati due camion 
che ci hanno portati in campagna dove ci hanno fatto scendere uno alla volta 
conducendoci verso una fossa appena scavata. Io piangevo, chiedendo di vedere 
mia madre e loro mi rispondevano che l'avrei vista subito. Quando è arrivato il 
mio turno ho sentito degli spari e il fendente di una lama sul collo. Ho fatto 
finta di essere morto e mi hanno gettato nella fossa insieme agli altri che 
avevano appena ammazzato».
Come ha fatto a sopravvivere?
«Dopo un po' sono riuscito a risalire dalla fossa e sono scappato nel bosco. Lì 
ho trovato una casa abbandonata dove mi sono fermato a dormire. Il giorno ho 
incontrato un soldato che indossava l'uniforme dell'Esercito Popolare Jugoslavo. 
Il soldato e un suo commilitone mi hanno aiutato».
Dunque dei serbi le hanno sterminato la famiglia ed altri serbi l'hanno invece aiutata…
«Non sono stati i soli. Mi hanno portato in un'infermeria dove ho visto le 
stesse persone che la sera prima hanno ucciso i miei familiari. Mi sono 
aggrappato ai due soldati che mi hanno salvato e non li ho più mollati. Mi hanno 
allora condotto all'ospedale di una località che si chiama Zvornik, dove sono 
rimasto per tre anni, protetto da coloro che volevano portarmi via per 
uccidermi. Ero pesantemente traumatizzato per quello che avevo vissuto e sono 
stato curato».
E poi?
«Grazie ad un progetto dell'Unicef, sono stato portato in un orfanotrofio in 
Montenegro. Dopo 5 anni trascorsi lì sono tornato in Bosnia, a Tuzla, ospite di 
un altro orfanotrofio e mi sono diplomato poi alla scuola alberghiera».
Com'è oggi la situazione in Bosnia?
«C'è la crisi economica anche lì, molto più grave che in Italia. Per quanto 
riguarda la pacificazione i passi in avanti sono stati molto pochi. In ogni caso 
la situazione è diversa tra una località e l'altra. A Tuzla dove vivo oggi la 
situazione è migliore perché anche durante la guerra c'era stato un 
atteggiamento migliore da parte dei serbi nei confronti dei musulmani. Ma in 
altre località come Srebrenica è tutto ancora completamente diviso tra le etnie. 
La pulizia etnica ha fatto il suo corso e ricordare quanto è avvenuto negli anni 
Novanta è ancora molto doloroso per tutti. La politica poi fa la sua parte, sia 
in Serbia che in Bosnia, per allungare i tempi all'infinito. Ed il genocidio di 
noi rom è ancora immerso nell'oblio, quasi come fossimo delle vittime di serie 
B, di cui non è importante occuparsi. È per questo che ho deciso di raccontare 
quello che mi è successo a differenza di molti altri».
Intervista pubblicata dal quotidiano Alto Adige il 12 gennaio 2012
 Luca Sticcotti è autore di musiche, giornalista ed operatore 
culturale. Come musicista è attivo nei campi della classica, del jazz e 
dell'elettronica, ma ha realizzato anche colonne sonore. La sua attività 
giornalistica si sviluppa sia attraverso media tradizionali, con collaborazioni 
con testate sia locali che nazionali, che utilizzando social network e blogs. 
Come operatore culturale collabora in veste di consulente con diverse 
istituzioni ed associazioni culturali altoatesine. Il sito web dove condivide 
parte del suo lavoro è raggiungibile all'indirizzo
www.paupau.it
 Luca Sticcotti è autore di musiche, giornalista ed operatore 
culturale. Come musicista è attivo nei campi della classica, del jazz e 
dell'elettronica, ma ha realizzato anche colonne sonore. La sua attività 
giornalistica si sviluppa sia attraverso media tradizionali, con collaborazioni 
con testate sia locali che nazionali, che utilizzando social network e blogs. 
Come operatore culturale collabora in veste di consulente con diverse 
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