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Ricordo di Carlo Cuomo
Di Fabrizio (del 26/09/2008 @ 14:51:24, in Kumpanija, visitato 3707 volte)

Sono passati circa dieci anni (giorno più, giorno meno) dalla dipartita di Carlo Cuomo, figura chiave nella vita politica e associativa milanese e anche nazionale. Ho ritrovato questo articolo sul vecchio sito dell'Opera Nomadi Milano (da lui presieduta per anni), incredibile come dieci anni dopo sia ancora attuale. Da rileggere con attenzione.

Zingari, cioè Rom di Carlo Cuomo

Per l'italiano medio, "normale", anche se democratico e di sinistra, la parola "zingaro", la vista nel proprio quartiere di una famiglia di zingari (la roulotte, i moltissimi bambini, le donne con le gonne lunghe) provocano inquietudine, diffidenza, qualche ribrezzo.

Nessun'altra minoranza etnica suscita un così forte e totale sentimento di "sgradevolezza", nessuna è altrettanto misconosciuta, ignorata. Noi, i "gagé" - i non zingari - non sappiamo niente di queste comunità, di questo piccolo popolo che vive tra di noi da più di cinque secoli. Ma crediamo di sapere. Al posto della conoscenza mettiamo un mito e crediamo che il mito sia conoscenza.

"Sono molti, moltissimi - pensano i "gagé" -, dilagano, ci invadono; sono vagabondi senza arte né parte, nomadi disordinati; sono pigri e ladri; maltrattano e sfruttano i loro bambini; non sono una realtà etnica, sono una realtà malavitosa; sono infidi, violenti, pericolosi; sono - come recitava il titolo di un vecchio film sui borgatari romani - "sporchi, brutti e cattivi". Nel nostro immaginario collettivo questo mito negativo convive, a sprazzi - complice un po' di mediocre cinema e mediocrissima letteratura e tanti ambigui nostri desideri -, con un mito diverso, opposto, che esprime fascinazione: "Sono liberi, "figli del vento"; sono musicisti straordinari; le loro donne sono voluttuose e i loro uomini fieramente virili; non si piegano alle false lusinghe della civiltà e del progresso; loro sì, che sono felici!" La diversità basta non vederla com'è, basta esorcizzarla nei sogni delle nostre nevrosi, delle nostre paure, dei nostri ambigui desideri.

Prevale, comunque, fortemente, il primo mito, quello negativo. Ogni fatto di cronaca viene accolto se conferma il mito, rimosso se lo contraddice. Se Brambilla ruba, conferma semplicemente che ci sono i ladri; se uno zingaro ruba, conferma che gli zingari sono tutti ladri; se un bambino viene stuprato in una famiglia borghese di Milano o venduto a Napoli o prostituito ad Amsterdam c'è allarme per la sorte e il destino dell'infanzia; se un bambino zingaro viene "ceduto" per svaligiare appartamenti, si rafforza la nostra certezza che gli zingari maltrattano e sfruttano i loro bambini. Eccetera. Non bisogna stupirsi. Già nell'Ottocento (e ancora oggi...) quanta parte dell'opinione pubblica rimuoveva il funzionamento strutturale della finanza e dell'industria capitalistica per vedere solo il finanziere ebreo o, nella Francia cattolica, la "banque protestante"? E Lenin definiva l'antisemitismo "il socialismo degli imbecilli"... Non si tratta, badate bene, di un mito negativo passivo. Esso viene agito. Questo nostro "sguardo" sulla realtà zingara ha drammatiche conseguenze pratiche su di loro.

Sulla localizzazione delle loro comunità, per esempio. I campi attrezzati dai Comuni (pochi, bruttissimi) bisogna cercarli lungo le ferrovie, le tangenziali, i canali, le periferie più abbandonate, lontani dalle linee di trasporto, dai servizi, dai negozi, dalle scuole. Lontani dai luoghi della "gente per bene". Gli stessi zingari, per i loro insediamenti spontanei, scelgono di sfuggire al nostro "sguardo" e di stare lontani e nascosti. "Popoli delle discariche", scrive Leonardo Piascre. Popoli che le nostre sinistre paure collocano nelle nostre discariche. Di fatto, per gli zingari vige l'apartheid.

Non solo per gli insediamenti. Certo, nessuna legge vieta loro di prendere i mezzi di trasporto, di entrare nei negozi e nei bar, di andare a scuola, di frequentare i servizi sanitari. Ma entrare in un negozio o in un bar è entrare nel territorio del sospetto, della fretta di servirti per vederti uscire; a volte, non ti servono. Se prendi un tram, la gente si scansa. Ci sono medici di base che rifiutano l'iscrizione di zingari o che, come ripiego, chiedono loro di frequentare l'ambulatorio solo determinati giorni, per "non disturbare la gente normale". Ci sono stati scioperi di genitori perché gli zingarelli non frequentassero la scuola e scuole che ne scoraggiano l'iscrizione; nelle scuole, quando va bene, c'è assistenzialismo paternalistico e solo in pochi casi c'è accoglienza vera, intelligente e rispettosa. Se uno zingaro cerca lavoro deve nascondere la propria appartenenza etnica, camuffarsi, mentire; se no, il lavoro offerto scompare d'incanto. Un bambino zingaro cresce così, sotto questo sguardo, in queste condizioni, in questo clima di fastidio, diffidenza, disprezzo. Nell'apartheid. Ed è questo che partorisce, fra gli zingari presenti in Italia, tassi di morbilità, di mortalità, di analfabetismo, di disoccupazione che sono a livello boliviano o honduregno. Ed è questo che partorisce anomia.

Le cose cambiano? Sì, un po', lentamente, faticosamente. Ma la realtà, guardata dal punto di vista degli zingari, è essenzialmente quella: il fastidio, la diffidenza, il disprezzo, l'apartheid. Immobili, permanenti, pesantissimi.

Minoranza misconosciuta, dicevamo, ignorata. Ormai sappiamo nominare gli esseri del sud e del nord, i ceceni, i turchi gagauzi, gli armeni e gli azeri, gli abkhazi, i musulmani della Bosnia, gli albanesi del Kosovo e della Macedonia, gli ungheresi della Voivodina e della Transilvania, le comunità etniche di Los Angeles una per una - ma non sappiamo riconoscere e nominare quell'arcipelago di comunità che formano, fra di noi, il popolo zingaro. Gli si nega l'identità socio-economica, etnica, linguistica, storica. Sappiamo tante cose sulla natalità e mortalità nel mondo, sulla fame, le malattie; ma ignoriamo quei pochi drammatici dati socioeconomici che riguardano donne, uomini, pochissimi anziani e moltissimi bambini che da cinque secoli vivono fra di noi. Pensiamo alla Spagna del 1492 e per noi significa scoperta dell'America, cacciata degli Ebrei e dei Mori; e rimuoviamo il bando antizingaro del 1499. Parliamo di Maria Teresa d'Austria ma non sappiamo niente del suo tentativo di etnocidio culturale degli zingari. Parliamo dell'Olocausto ma cancelliamo il loro Olocausto: 500.000 morti nei lager. Celebriamo la Resistenza ma rimuoviamo la loro partecipazione alla lotta armata. Da anni, inchiodati davanti alle nostre TV, ci indigniamo per gli eccidi nell'ex Jugoslavia; ma non ci interroghiamo mai sulla sorte degli zingari jugoslavi, su cosa significhi, nell'orrore generalizzato, l'essere zingaro musulmano, oggi, nella Bosnia o nell'Erzegovina (e quando, per sfuggire all'orrore, arrivano tra di noi, devono - per scansare la nostra ostilità nascondersi nelle discariche delle nostre periferie più degradate dove i loro bambini muoiono di freddo o nei roghi di fuochi improvvisati e da dove ordinanze sindacali e prefettizie li sgomberano brutalmente). L'apartheid, quindi, non è solo territoriale, comportamentale; è anche apartheid cognitivo: segreghiamo gli zingari nelle periferie oscure della nostra ignoranza per farli riaffiorare nei luoghi mitologici delle nostre paure.

Con questo numero del Calendario del Popolo vorremmo dare un contributo al passaggio dal mito alla conoscenza della realtà zingara e, quindi, dalle ricadute pesanti e discriminatorie del mito negativo all'azione consapevole e rispettosa che può nascere da una conoscenza razionale. Precisiamo, quindi, in apertura, alcune semplici verità.

  • Gli zingari non sono "molti, moltissimi", non dilagano, non ci invadono. Sono, in un Paese di circa 56 milioni di abitanti, 100/110.000 (circa il due per mille della popolazione italiana...) di cui 70/80.000 cittadini italiani e 20/30.000 cittadini stranieri provenienti, per l'essenziale, da varie parti dell'ex Jugoslavia. Sono pochi, pochissimi quindi e non tendono a concentrarsi in specifiche parti del territorio. Le loro scelte insediative si basano piuttosto su strategie di dispersione territoriale. Quasi metà di questo piccolo popolo ha meno di 15 anni, meno del 3% supera i 60 anni. Isolati nelle nostre periferie più degradate, gli zingari muoiono giovani. I tassi di morbilità e di mortalità sono alti fra gli adulti, altissimi fra i bambini. La scolarizzazione è bassa e irregolare, l'analfabetismo diretto o di ritorno diffusissimo; la disoccupazione, generalizzata. Nessun paragone è possibile con la struttura demografica, le condizioni di salute, la scolarizzazione, l'inserimento al lavoro del resto della popolazione.
  • Sono arrivati nel nostro Paese in momenti diversi: i sinti dal Nord, via terra, nei primi anni del Quattrocento; i rom nell'Italia meridionale, via mare, provenienti dalle zone grecofone del morente Impero bizantino, nella seconda metà del Quattrocento; gli harvati, dall'est, con le modifiche territoriali della prima guerra mondiale e (già allora!) con le tragedie che la seconda guerra mondiale aveva creato in Slovenia, Croazia, Istria, Dalmazia. Più recentemente, a partire dagli anni '60, la crisi economica jugoslava ha prodotto una ripresa di movimenti dall'est verso l'Italia e, infine, il precipitare della guerra, delle pulizie etniche e dei massacri un arrivo massiccio a partire dal 1991.
  • Definirli "nomadi" è sbagliato e fuorviante. Il nomadismo, con certe forme e certe sue regole, è uno dei modi di essere delle comunità zingare; sono numerosissimi invece - nel tempo storico e nello spazio geografico - i gruppi semi sedentari o compiutamente sedentarizzati, per esempio nell'Italia centrale e meridionale, in Spagna, in Ungheria, in molte parti dell'ex Jugoslavia, nell'impero bizantino e in quello ottomano, a Bassora sin dal VII secolo. Meglio definirli ("nominarli", come dicevamo sopra) zingari, come vuole una tradizione "gagé" consolidata, o, meglio, con i sostantivi Rom e Sinti, come si autodefiniscono, seguiti, volta per volta, da un aggettivo specificativo (harvati, kalderaš, xoraxané, abruzzesi, eccetera). Sono - in Italia come nel resto del mondo - un popolo, composto di tante comunità distinte. Ed è come tali che vanno riconosciuti, nominati, individuandone le diversità specifiche, comunità per comunità, e i tratti comuni.
  • Parlando di zingari, occorre tenere distinti gli aspetti giuridici da quelli antropologici. Giuridicamente, con tutte le conseguenze pratiche che ciò comporta sul piano dei diritti formali, si possono distinguere gli zingari presenti in Italia sulla base della cittadinanza: cittadini italiani (la maggioranza), cittadini della Comunità europea (francesi, spagnoli, ecc.), cittadini extracomunitari (soprattutto ex jugoslavi). Antropologicamente, però, è molto più significativo sul piano scientifico e più rispettoso della soggettività delle comunità zingare distinguere per aggregazioni e comunità etnico-linguistiche: vedi la tradizionale distinzione rom/sinti, indipendente dalla cittadinanza; i lovara, di origine ungherese-rumena ma spesso, nelle stesse comunità presenti in Italia, con cittadinanza o italiana o francese o spagnola; l'intensità di rapporti tra rom harvati, cittadini italiani, e rom sloveni, croati, istriani, dalmati, cittadini ex jugoslavi, confrontata con la freddezza di rapporti tra rom harvati e rom abruzzesi, cittadini italiani gli uni e gli altri.
  • Gli zingari sono quindi un popolo articolato in comunità, plasmato dalla sua storia - storia della difesa orgogliosa della propria identità e storia delle proprie strategie di adattamento al mutare delle situazioni, interagendo con le culture ospiti - e dalla nostra secolare ostilità, dal suo modo di rispondere, per secoli, alla storia delle nostre persecuzioni. Un popolo portatore di tradizioni e di culture: modi specifici di rapportarsi al cibo, al sesso, agli anziani e ai bambini, di definire e vivere le regole della comunità. Un popolo che parla una lingua neo-indiana, divisa in dialetti frutto dei modi diversi in cui questa lingua ha interagito, nel tempo storico e nello spazio geografico, con le parlate dei popoli incontrati e dei paesi attraversati - ma con un robusto fondo comune lessicale, morfologico, sintattico. Sono - qui e oggi - un certo modo, contraddittorio e lacerante, di tenere insieme, in un equilibrio instabile, valori e modelli di vita tradizionali con i valori e modelli che la TV, in ogni sgangherata roulotte, propone loro quotidianamente. Sono il prodotto del nostro disprezzo di oggi, che li accompagna dalla culla alla tomba; della segregazione nei nostri meschini e mediocri campi comunali; dei brutali e continui sgomberi notturni che sbattono gli "abusivi" da una discarica all'altra. E della loro resistenza-adattamento a tutto questo.

di Carlo Cuomo - tratto da "Il calendario del Popolo"

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