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L'essere straniero per me non è altro che una via diretta al concetto di identità. In altre parole, l'identità non è qualcosa che già possiedi, devi invece passare attraverso le cose per ottenerla. Le cose devono farsi dubbie prima di potersi consolidare in maniera diversa.

Wim Wenders
-

\\ Mahalla : Articolo
Il "Messaggero" dei Rom
Di Fabrizio (del 27/09/2007 @ 09:38:29, in media, visitato 2527 volte)

In allegato trovate alcune pagine del messaggero pubblicate sabato 22 settembre riguardante notizie sui rom. Xoraxai

di ELENA PANARELLA
e RAFFAELLA TROILI
ROMA - Un filo sottile segna il confine tra esasperazione e intolleranza. I cittadini di Ponte Mammolo l’hanno attraversato. Quelli che avant’ieri si sono fatti giustizia da soli, e tutti gli altri, il benzinaio, il panettiere, l’operaio, il barista. Sono stanchi. «Basta - ripetono - Sono anni che andiamo avanti così, tendopoli, baracche, case lungo il fiume. Siamo invasi da questi insediamenti che hanno portato all’aumento di furti, delinquenza, degrado. E non serve a niente sgomberarli, tanto ritornano».
Ponte Mammolo, il giorno dopo. La rabbia è rientrata, l’esasperazione no. Anche se i sentimenti sono contraddittori, anche se il buonsenso è tornato ma il cuore pulsa ancora troppo forte, il colpo di coda del quartiere è ancora nell’aria. «Il Comune invece dov’é?», grida da dietro il bancone Anna, «la verità è che ci hanno lasciati soli». Siamo nel V Municipio, e gli stranieri sono numerosi e integrati. Gli zingari, i baraccati, quelli no, quelli sembrano creare solo problemi. «Non andiamo più al parco per timore d’incontrarli, sono entrati nei box, nelle case, hanno rubato i motorini. E le donne hanno paura a uscire la sera».
Esasperati i cittadini. Esasperato chi ogni giorno aiuta, quantomeno cerca un contatto, tende una mano al popolo rom. Gli operatori sociali, le parrocchie, i volontari anche loro si dicono abbandonati. «Dove sono le istituzioni?». Chi scende nei “campi”, come loro, ha il diritto di lamentarsi. Chi conta i posti vuoti sul pulmino che dovrebbe portare i piccoli rom a scuola; chi incontra le sue alunne in centro a caccia di borsette mentre i maschietti sono ai semafori, a elemosinare. Le associazioni seguono passo dopo passo il loro percorso formativo, «ma anche se tanto è stato fatto, molti bambini - segnala Paolo Perrini dell’Arci solidarietà - restano ancora nei campi. Il nostro lavoro è fondamentale per l’iscrizione, ma non può essere lasciato a sè. Va accompagnato da politiche di inclusione sociale per le famiglie». Come a dire: se le condizioni di vita rasentano l’estrema precarietà, se i rom che sono a Roma dall’80 ancora vivono nelle baracche, quale integrazione si possono aspettare questi bimbi nati a Roma, figli di una generazione anch’essa nata a Roma? «Il loro primo problema non è la scuola, ma la sopravvivenza».
Nuovi baraccati e vecchi insediamenti. «E’ una realtà che va affrontata a livello nazionale», aggiunge Salvo Di Maggio della comunità Capodarco. I piccolini cominciano bene, frequentano la materna, i primi anni delle elementari. Poi il contatto si perde, vengono risucchiati dalla loro cultura, le femmine si sposano, anche a forza. «A un certo punto il loro mondo si fa troppo diverso da quello degli altri coetanei. C’è un bimbo che non è venuto a scuola per un anno perché non poteva passare in una certa zona del campo», ricordano le maestre dell’Istituto Dalla Chiesa. «C’è chi arriva tutti giorni da lontano, da Castel Romano, dove neanche hanno l’acqua, i servizi, ci mettono amore e buona volontà. Altri sono solo nomi sui registri...». Crescono e si sentono inadeguati, «vanno a rubare Nike e tute per vestirsi come i loro compagni», ancora Perrini. Alla fine, si arrendono...


Sono circa duemila i bambini rom iscritti alle scuole della Capitale provenienti dagli oltre 25 insediamenti sparsi per il territorio. La frequenza si attesta sul 70%, con picchi dell'85% dove i campi sono più attrezzati, e minimi del 30% dove le condizioni di degrado non permettono una costanza negli studi. Di media, quindi, vanno regolarmente a scuola solo il 50% dei bambini rom. Le bambine frequentano di più fino alle elementari rispetto ai maschi, poi molte di loro, verso i 13 anni cominciano ad allentare perché le famiglie le vogliono vicine per i lavori quotidiani o magari sono costrette a sposarsi. La scolarizzazione è affidata ad associazioni che seguono passo passo il percorso formativo dei bambini dalla materna, alle medie e per qualcuno di loro anche alle superiori e nei corsi di formazione che quest'anno hanno raggiunto l'apice di circa settanta iscritti. «Per capire come è cambiata la condizione di questi ragazzi - spiega Salvo Di Maggio, responsabile della Comunità di Capodarco - basta pensare che tra il 1990 e il ’91 a Roma si registravano 180 bambini iscritti con una frequenza molto bassa. Oggi parliamo di circa 2000 ragazzi di cui circa 1400 vanno regolarmente a scuola. Si può dire che il passaggio è stato compiuto». La comunità di Capodarco controlla 11 insediamenti a sud est della città: da quello di via di Salone a quello dell'Arco di Travertino passando per via della Martora e via dei Gordiani. Insieme alla Onlus Arci Solidarietà Lazio, che segue, tra le altre, le comunità di Castel Romano, Tor de’ Cenci e Tor di Quinto, coprono gran parte del territorio capitolino per un totale di circa 1800 ragazzi. Ogni mattina vengono portati nelle rispettive scuole (dal centro alla periferia) grazie a pullman messi a disposizione dal Comune. Quelli più grandi, che hanno le strutture vicino ai campi, le raggiungono a piedi. Alcuni vengono accompagnati dai genitori, mentre la maggior parte ogni giorno è costretta a tragitti spesso snervanti: «Complessivamente noi seguiamo circa 850 ragazzi (Capodarco un centinaio in più) tra materna, elementari e medie - spiega Paolo Perrini, responsabile dell'Arci Solidarietà Lazio - Purtroppo, come ad esempio per gli iscritti del campo di Castel Romano (280 con frequenza del 50% circa), spesso i bambini devono affrontare lunghi tragitti per raggiungere la Garbatella o altre zone limitrofe, tutto a discapito dell'attività didattica perché arrivano in classe più tardi rispetto agli altri».
G. M.


di GIOVANNI MANFRONI

Sonita ha 16 anni, tanta voglia di studiare e divertirsi e un grave ritardo mentale che non le permette di stare alla pari con gli altri bambini. Ma Sonita è più forte della sua malattia. Ogni mattina, con il sorriso sulle labbra, mano nella mano con la mamma, sale sul pullman che l'aspetta davanti all'entrata del campo rom di Tor de’ Cenci. «Frequenta assiduamente la scuola - assicura Marco Birnozzi, coordinatore dell'Arci Solidarietà Lazio - Sonita fa la prima media ed è seguita da vicino da insegnati ed operatori. Quest'estate non vedeva l'ora che ricominciasse la scuola. E' sempre un gioia vederla arrivare e leggere nei suoi occhi la felicità e la spensieratezza che stona rispetto al contesto in cui vive».
Ma spesso per i ragazzi rom non accettano regole. Quasi sempre sono i genitori a impedirglielo. È il caso di Stepe, che ha ha sempre amato la scuola. «Le elemenatri le ha finite a tempo di record - precisa un operatore - Poi, una volta, finite le medie, i genitori le hanno messo i bastoni tra le ruote». Prima hanno cominciato a farle saltare qualche lezione, poi, quando ha compiuto 13 anni, hanno deciso che si doveva sposare. «Si è battuta perché questo non accadesse, tanto che ha provato a denunciare la famiglia ed è stata affidata ai servizi sociali, pur rimanendo a vivere nel campo di Lombroso». Sembrava averla spuntata, invece finite le medie la famiglia l’ha costretta a partire per Milano, dove l'aspettava il futuro marito. I genitori hanno ottenuto quello che volevano. «Faremo tutto quello che è nelle nostre possibilità per riportarla a scuola - conclude l’operatore - La famiglia ormai non ci vede di buon occhio, ma non ci arrendiamo».
Alessandro, invece, del campo di Tor de’ Cenci, è stato più fortunato, se così si può dire. Fin da piccolo ha coltivato la passione per i computer. «E’ sempre stato fissato», dice sorridendo Marco. Ha concluso regolarmente le elementari e le medie, studiare gli piaceva tantissimo, già prima di diventare il primo ragazzo del campo a prendere l'attestato di scuola superiore. La sua passione l'ha portato a terminare un corso di formazione della Regione per operatore informatico, uno di quei corsi che ti apre la strada alla vita lavorativa. «L'abbiamo seguito fin dalla scuola materna - fanno sapere dalla Onlus - è sempre stato un bambino bravissimo e con tanta voglia di riscatto».
Riscatto che ancora non è arrivato. Una volta terminati gli studi tutte le porte si sono chiuse. Per 5 anni ha fatto colloqui di ogni genere senza mai ottenere risposte positive. Oggi Alessandro a 19 anni e un futuro che non c'è. «Si parla tanto di integrazione - accusa Birnozzi - e poi quando una ragazzo fa tanti sforzi per lasciarsi alle spalle una condizione di degrado non si fa nulla per aiutarlo». Per 4 anni ha lavorato come segretario nella Onlus, «abbiamo preso a cuore la sua storia, ma poi se ne è voluto andare perché ci ha detto che gli sembrava un'elemosina». Si è rimboccato di nuovo le maniche ed è tornato a bussare alle porte girando tutte le agenzie interinali sparse per il territorio. Non si riesce a dare una spiegazione al fatto che il futuro che gli avevano promesso in realtà è fatto di «le faremo sapere» e «in questo momento non cerchiamo». Ma non si rassegna e a chi gli chiede che cosa si aspetta dal domani lui risponde deciso: «Ho studiato tanto per ottenere questi risultati e ora è giusto che qualcuno mi dia la possibilità di lavorare».

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