Di seguito gli articoli e le fotografie pubblicati nella giornata richiesta.
di Matteo de Bellis, attivista europeo di
Amnesty International
Una ruspa ad appena pochi metri dal campo di via Sacile, ricorda che i
lavori continueranno © Private
"Sappiamo che dovremo andarcene per i lavori di costruzione, ma dovrebbero
dare un posto, non limitarsi a lasciarci per strada."
Giovanni mi parla, in piedi di fronte a me, davanti ad una fila di baracche,
raggruppate in uno spazio grande quanto un campo di calcio a sette.
Sotto il lucente sole di Milano, i bambini corrono come se il campo di via
Sacile fosse un parco giochi. Ma non è così.
Giovanni vive da marzo 2011 nel campo non autorizzato di via Sacile. Ora ci
sono ci 50 famiglie, attorno alle 250-300persone, tutte Rom dalla Romania.
Da circa un anno vivono qui. Le autorità non hanno fornito alcun servizio:
bagni, acqua, raccolta dell'immondizia.
Gli abitanti usano aree specifiche come toilette, ogni giorno vanno a
raccogliere l'acqua presso una fontanella a qualche centinaia di metri e pagano
una società privata per raccogliere una volta la settimana la spazzatura.
Anche le OnG locali, le associazioni rom e dei cittadini stanno facendo la
loro parte, mandando i medici a visitare il campo, aiutando le famiglie ad
iscrivere i bambini a scuola e raccogliendo i curriculum degli adulti per
aiutarli a trovare lavoro.
© NAGA
Le autorità cittadine sono quasi completamente assenti da via Sacile. Eccetto
forse le visite periodiche della polizia locale, che diverse volte ha annunciato
l'imminente sgombero per tutti quanti vivano al campo.
L'area dove vivono le famiglie rom è interessata da lavori infrastrutturali -
una nuova rampa autostradale, le fognature ed i relativi lavori di drenaggio.
Lo scorso dicembre, gli abitanti spostarono le loro baracche a qualche metro
dalla sistemazione originaria, per permettere che continuassero i lavori
nell'area. Allora, le autorità lo considerarono sufficiente ad evitare lo
sgombero nella gelata condizione
invernale.
Ma ora che il sole splende ed ancora una volta i lavori di costruzione
minacciano di invadere il campo, tutti hanno paura che una sgombero sia
imminente.
Alcuni degli abitanti di via Sacile vivevano nel campo autorizzato di via
Triboniano, chiuso dalle autorità ad aprile 2011.
Giovanni mi racconta che tutta la sua famiglia è stata espulsa da via
Triboniano, subito prima della chiusura, perché aveva ospitato suo padre e sua
madre senza la dovuta autorizzazione.
Amnesty International ha documentato espulsioni di questo tipo, dove le
autorità hanno applicato regolamenti poi dichiarati illegali. Nel novembre 2011,
una decisione del Consiglio di stato ha stracciato la cosiddetta "Emergenza
Nomadi", uno stato d'emergenza che violava la legge e discriminava i Rom.
Ma le autorità milanesi e nazionali sinora non hanno fatto niente per aiutare
chi era coinvolto. Sembra invece intendano proseguire sulla stessa strada degli
sgomberi forzati che hanno oscurato le vite di centinaia di Rom milanesi, e
migliaia altrove, negli ultimi anni.
La gente come Giovanni potrebbe ora trovarsi nuovamente di fronte ad uno
sgombero forzato.
Un bulldozer parcheggiato appena a pochi metri dal campo di via Sacile
ricorda che i lavori proseguiranno, riportando quelle che possono essere
dolorose memorie dei precedenti sgomberi forzati.
Baracche, materassi, vestiti, bambole e quaderni furono travolti e distrutti.
Tutto questo senza che le autorità si consultassero preventivamente con la
comunità rom, dessero un preavviso od offrissero soluzioni abitative alternative
adeguate.
"Stavolta speriamo che diano almeno 5 o 10 giorni di preavviso," dice Bi, un
altro giovane che si guadagna da vivere scaricando e distribuendo casse di
frutta in centro città. "Se ci sgomberano senza preavviso, perderò anche il mio
lavoro, perché dovrei prendere un giorno di ferie e non so come spiegarlo al
capo, che non sa che vivo in un campo."
Le famiglie rom di via Sacile chiedono solo un preavviso per lo sgombero ed
un posto dove stare, molto meno di quanto le autorità siano tenute a fornire in
base al diritto internazionale.
Sperano ancora che il sindaco di Milano faccia la cosa giusta, e sospenda lo
sgombero fino a quando non seguano procedure corrette, con l'identificazione di
alternative adeguate per ogni famiglia.
Ma ogni notte, quelle famiglie vanno a dormire nelle loro baracche sapendo
che può essere la loro ultima notte lì, e la mattina successiva le ruspe
potrebbero entrare nel campo.
Segnalazione di Agostino Rota Martir
E-IL MENSILE online 8 marzo 2012 -
Antonella De Vito
Ibadet Dibrani è una giovane donna rom molta coraggiosa. Un coraggio che in
questo momento le nasce dalla disperazione, ma che le conferisce comunque la
caratteristica di una donna forte e combattiva, non disponibile ad arrendersi
alla logica e al potere di un'amministrazione comunale che da una parte dà e
dall'altra toglie sulla base di logiche e principi che lasciano molti dubbi.
Oggi Ibadet ha 34 anni e con i suoi 5 figli, la cui più piccola ha solo 9 mesi,
è stata sfrattata dalla casa dove viveva da oltre un anno. Da una piccola e
vecchia roulotte sistemata a pochi metri dall'abitazione, senza vestiti per
potersi cambiare e con poche coperte per tutti i bambini, continua a chiedersi
perché ce l'hanno proprio con lei. "È la prima volta che qualcuno della nostra
etnia, arriva fino alla Corte d'Assise" spiega Ibadet. I suoi figli, tutti
minorenni, sono Belen di 9 mesi, Corona di due anni e mezzo, Merema di 12 anni,
Ekrem di 13 e Toni di 15. Tutta la famiglia raggiunge gli onori delle cronache
nel 2010 quando ad appena due mesi dal matrimonio, la moglie di suo figlio Toni
decide di rompere l'unione accusando il marito e tutta la sua famiglia, di
averla rapita, violentata e trattata da schiava. I giornali locali si gettano
sulla storia battezzando il caso come "la sposa bambina" dividendo subito i
protagonisti della vicenda fra buoni e cattivi. Toni ha 15 anni e così sua
moglie, anche se sugli organi d'informazione alla sposa, per essere ancora più
bambina, attribuiscono 13 anni, e le fanno indossare le vesti della giovane
eroina, che denunciando i suoi aguzzini infonde il coraggio per ribellarsi, ad
altre coetanee nelle sue condizioni. Questa la storia letta sulla stampa.
Diversa è invece la vicenda raccontata dai protagonisti che incontriamo al campo
di Coltano in provincia di Pisa dove la famiglia Dibrani vive. A parlare è
Ibadet, che stanca di subire i pregiudizi, le sentenze e i provvedimenti
amministrativi che l'hanno gettata fuori di casa con i suoi figli, decide di
raccontare la sua storia a chi ha voglia di ascoltarla.
"Accetterò la decisione del magistrato -ci dice Ibadet- e se riterrà che la
nostra famiglia è colpevole lascerò spontaneamente la casa che mi ha assegnato
la Società della Salute di Pisa. Ma fino a quel momento ho dei diritti, e
desidero difendere la mia famiglia dalle tante ingiuste bugie che sono state
dette. La prima è quella di aver dato alla moglie di mio figlio 13 anni, quando
in realtà ne hanno entrambi 15, fra loro vi sono solo due mesi di differenza.
Per il nostro popolo sposarsi giovani è una tradizione. Dopo il matrimonio di
mio figlio ci sono state tante altre unioni di questo tipo nel territorio pisano
e italiano, ma nessuno se n'è interessato: perché allora ce l'hanno solo con
noi? Perché il comune di Pisa ha dato ascolto, fin dall'inizio solo ad una
versione dei fatti? Perché non aspetta che sia il Tribunale ad esprimersi?
Perché non rispetta la Costituzione Italiana, dove si dice che la responsabilità
penale è sempre individuale e che non può ricadere mai sui minori?".
Il matrimonio di Toni è stato, secondo tradizione rom, accordato fra le due
famiglie, dopo che i due giovani si erano conosciuti. Infatti i genitori si sono
incontrati due volte in Kosovo, stabilendo la dote e festeggiando con una grande
festa, prima con i genitori della sposa in Kosovo e poi a Coltano con gli altri
parenti e amici del campo. Dopo la denuncia della ragazza sono stati arrestati
Ibadet, suo marito Riza di 35 anni, il figlio Toni, i nonni, lo zio e la zia
dello sposo. "Mio figlio -continua Ibadet- ha fatto sei mesi di carcere dove è
stato anche picchiato dal suo compagno di cella. Io sono stata la prima ad
uscire dopo 26 giorni perché ero incinta, poi mia suocera e successivamente mio
suocero e gli zii di mio figlio". In carcere a Prato resta il marito in attesa
di giudizio, che dovrebbe arrivare dopo il processo iniziato in questi giorni e
che non è prevedibile sapere quanto durerà.

In questo periodo sembrano essere emerse varie contraddizioni nell'accusa e nel
racconto della 'sposa bambina', mentre sono state raccolte prove a favore della
famiglia di Ibadet: nel frattempo la Società della Salute dell'area pisana ha
revocato la concessione amministrativa con la quale aveva assegnato la casa ai
Dibrani e ad altre 13 famiglie Rom, all'interno del progetto chiamato "Città
sottili". Secondo la Società della Salute, la famiglia di Ibadet non ha
rispettato i patti, infrangendo le leggi. "Non abbiamo commesso nessun reato.
Dopo il matrimonio in Kosovo, siamo tornati in Italia e l'abbiamo trattata come
una regina, non le abbiamo mai fatto del male. Non capisco perché non posso
entrare nella mia casa -continua-. Io al momento sono solo un'imputata ed ho
diritto a tre gradi di giudizio. Il Comune ci ha condannati prima del giudice e
ci ha buttato fuori di casa, senza darmi il tempo di prendere le mie cose.
Adesso tramite l'avvocato dovrò fare la richiesta per poter riavere almeno i
vestiti per me e i miei figli".
Ma come si può togliere la casa a dei bambini, nel periodo più freddo dell'anno?
Che colpe hanno loro in tutta questa storia? Il Comune di Pisa ha la risposta
pronta, ed ha invitato Ibadet ad andare a Pontedera dai suoi suoceri, affermando
che hanno una grande casa, ma non dicendo che vi abitano già molte persone, e
non c'è certo lo spazio sufficiente per la famiglia Dibrani. Ma il Comune è
anche disposto a prendersi cura dei bambini di Ibadet, togliendoli alle cure e
all'affetto della madre, usando un metodo molto discutibile e criticato anche da
diversi assistenti sociali e pedagogisti, che non credono assolutamente che
disgregare una famiglia, allontanando i figli dall'affetto dei genitori, sia una
procedura positiva e corretta. Il legame affettivo fra questi bambini e Ibadet è
molto forte, proprio come quello delle madri italiane con i loro figli, l'essere
rom non vuol dire trascurare i bambini, tutt'altro. Basterebbe entrare in un
campo per rendersene conto. Ed i bambini Rom reagiscono come tutti i bambini
italiani, perché non sono diversi da loro: "La scorsa notte -ci spiega Ibadet-
Corona che ha due anni e mezzo ha pianto fino alle due di notte perché voleva il
suo cuscino rimasto dentro casa, voleva andare nel suo letto, abbiamo pianto
insieme perché non sapevo cosa dirgli". Possiamo immaginare quale trauma sarebbe
per lui essere separato anche dalla madre.

Dopo che Ibadet ha rifiutato di andare a Pontedera e di lasciare il figli alle
cure del Comune, pare che neanche la piccola e vecchia roulotte sistemata nel
campo possa rispettare le regole. Idadet non può continuare a stare sul
territorio del Comune di Pisa, perché le sue condizioni sono definite "precarie"
e quindi deve andarsene. Secondo l'amministrazione, Ibadet adesso può
raggiungere i suoceri a Pontedera o i genitori in Belgio, ed il Comune è anche
disposto a pagare il viaggio, naturalmente di sola andata, a lei e alla famiglia
poiché - questo è stato messo in chiaro - anche se Ibadet e la sua famiglia
saranno assolti, non riavranno la casa. Non importa se non potrà essere presente
al processo, non importa se i figli che hanno iniziato un percorso scolastico
dovranno cambiare compagni, non importa se i più piccoli, che hanno già vissuto
lo sfratto dalla casa come un episodio traumatico, dovranno subire anche
l'allontanamento dal campo dove sono nati e la separazione dalle persone che
hanno conosciuto fin dalla nascita. L'unica cosa che conta per l'amministrazione
è che Ibadet vada fuori dal territorio del comune.
Quello dei Rom è uno dei popoli più discriminati della storia dell'umanità, il
loro avere solo una tradizione orale li mette ai margini della società, di loro
nessuno ricorda o forse neanche conosce, le numerose persecuzioni che possiamo
far risalire a molti secoli fa, passando dai lager nazisti, fino alle più
recenti guerre balcaniche. Anche Ibaded è scappata allo scoppio del conflitto in
Kosovo risparmiandosi le violenze che questa etnia ha dovuto subire fino al
culmine delle atrocità compiute nel '99 da Milosevic con le sue operazioni di
pulizia etnica.
Alla discriminazione si aggiunge discriminazione. E' Ibadet stessa che racconta:
"Dopo le notizie pubblicate dai giornali locali non potevamo più salire
sull'autobus che la gente ci sputava; una donna rom del campo è stata aggredita
verbalmente; un medico si è rifiutato di visitarmi quando ero incinta. Perché mi
hanno condannato prima del giudice senza ascoltare quello che avevo da dire?
Perché gli operatori del comune che ci frequentavano, se ne stanno zitti?".
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