Rom e Sinti da tutto il mondo

Ma che ci fa quell'orologio?
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\\ Mahalla : VAI : conflitti (inverti l'ordine)
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Fabrizio (del 18/05/2014 @ 13:15:41, in conflitti, visitato 20335 volte)

12 maggio 2014 • Cronaca, LQlatinaquotidiano.it

di Luigi D’Arcangelis - I fatti risalgono alla notte tra il 24 ed il 25 aprile scorsi, quando un gruppo di giovani rom, residenti nella struttura di Al Karama - che ospita una comunità di sinti e rom, appunto - hanno denunciato di essere stati picchiati da alcuni abitanti di Borgo Bainsizza. E non solo. Pare che anche la Polizia accorsa sul posto avrebbe dato "man forte" agli aggressori. Sempre stando a quanto dichiarato dalle vittime.

A seguito della presunta aggressione, pronta è arrivata la condanna del comitato Amici del Borgo, che ha subito preso le distanze da ogni azione violenta e intimidatoria e da quanti possano averne intraprese ed eventualmente ne intraprenderanno.

Nella lettera aperta indirizzata al sindaco di Latina, Giovanni Di Giorgi, il presidente onorario dell’associazione di cittadini borghigiani, Italo Di Cocco, ha anche voluto fare il punto della situazione ed avanzare proposte in merito alla questione della prevista realizzazione del villaggio che dovrebbe sorgere accanto al sito che attualmente ospita la struttura di Al Karama e dare alloggio a 95 persone di etnia rom e/o sinti.

Al fine di tutelare e mantenere la pacifica convivenza, e far si che non nascano tensioni che possano magari portare ad episodi gravi
, il presidente chiede al primo cittadino del capoluogo: che il villaggio in costruzione rimanga, anche nel futuro, bloccato alle dimensioni previste nel progetto e sia dotato di un posto di Polizia attivo 24 ore su 24 e di un centro di primo soccorso sanitario; che il sito di Al Karama venga contestualmente smantellato e bonificato; che al suo posto venga insediato un frutteto sperimentale.

La palla, ora, passa all’Amministrazione di Latina.

 

Aurigo - Una targa verrà posta a dimora nelle prossime settimane (Riviera24.it)

In occasione della festa di Liberazione l'Arci Provinciale di Imperia ha voluto ricordare la figura di Giuseppe Catter, partigiano "Tarzan", ucciso ad Aurigo dai nazifascisti nell'agosto del 1944.

Nell'accogliente sala di "Ca Ru Megu" concessa dal Comune di Aurigo, rappresentato dal Vice Sindaco Piercarlo Gandolfo, sabato 26 aprile si sono riuniti per ricordare Catter, rappresentanti dell'ANPI, militanti dell'Arci e numerose personalità, che con il loro contributo di memoria e di riflessione hanno inteso sottolineare l'attualità del gesto eroico del giovane partigiano, sepolto ad Oneglia, che per difendere il capo della sua formazione, il partigiano"Orano", scelse l'estremo sacrificio.

Presenti alla commemorazione Italo Catter, fratello di Giuseppe, la sorella Maria Rosa, i nipoti ed il cognato. Come sempre vivace e commosso il contributo di Carlo Trucco, partigiano, presidente onorario del Circolo Arci Guernica che non ha voluto mancare all'appuntamento promosso dall'Arci Provinciale Imperiese.
L'ing. Ezio Lavezzi, presidente dell'Associazione Partigiani ha inteso rappresentare l'adesione convinta del comitato provinciale ANPI all'evento, sottolineando l'importanza di non vanificare con becere semplificazioni il valore collettivo della lotta di Liberazione, fondamento della nostra democrazia.

Feli Delucis dell'Arci e Giovanni Rainisio, presidente dell'I.S.R.E.C.IM. hanno svolto la loro relazione commemorativa tratteggiando con riferimenti letterari e note storiche l'esperienza di vita e di lotta di "Tarzan".

Rainisio ha, tra l'altro, testimoniato con soddisfazione il proliferare di eventi promossi da tanti soggetti per ricordare il sessantanovesimo anniversario della Liberazione, segno di speranza in un Paese ferito dai tanti revisionismi. Hanno quindi preso la parola l'assessore Regionale all'immigrazione Enrico Vesco ed il Presidente di Arci Liguria, Walter Massa, che con la loro presenza hanno testimoniato l'attenzione verso una figura così attuale della lotta di Liberazione.

Per la libertà hanno infatti combattuto uomini e donne di ogni etnia, ideologia politica e provenienza, poichè di fronte alla ricerca della libertà ed al riscatto dal giogo delle dittature l'umanità si trova convintamente unita e coesa.

Nelle prossime settimane la targa presentata alla cerimonia sarà posta a perenne ricordo di Giuseppe Catter, il partigiano di origini Sinti morto per le libertà di tutti.

 
Di Sucar Drom (del 27/04/2014 @ 09:06:13, in conflitti, visitato 2286 volte)

da U VELTO

    Nell'Aprile del 1945 c'erano i tedeschi in ritirata. Molti sinti facevano i partigiani. Per esempio mio cugino Lucchesi Fioravante stava con la divisione Armando, ma anche molti di noi che facevano gli spettacoli durante il giorno, di notte andavano a portare via le armi ai tedeschi. Mio padre e lo zio Rus tornarono a casa nel 1945 e anche loro di notte si univano ad altri sinti per fare le azioni contro i tedeschi nella zona del mantovano fra Breda Solini e Rivarolo del Re (oggi Rivarolo Mantovano), dove giravano con il postone che il nonno aveva attrezzato. Erano quasi una leggenda e la gente del luogo li aveva soprannominati i "Leoni di Breda Solini"...

Questo è il racconto di Giacomo "Gnugo" De Bar, sinto emiliano, che bambino è stato rinchiuso con la sua famiglia nel campo di concentramento di Prignano sulla Secchia, in Provincia di Modena, nel settembre del 1940. Dopo l'8 settembre 1943, con l'armistizio, la sua famiglia riusci a fuggire dal campo di concentramento, insieme a tutte le altre famiglie sinte. E' infatti dall'autunno del 1943 che in particolare sinti italiani, maggioritari nel Nord Italia, si danno alla macchia e si uniscono alle brigate partigiane.

Molte famiglie sinte e rom scappate dai campi di concentramento, nel Nord Italia vengono rastrellate e inviate verso il campo di concentramento di Bolzano per poi essere deportati in Germania e in Polonia. Alcune riescono a sfuggire ai rastrellamenti dei Carabinieri e delle Forze tedesche nascondendosi nelle campagne grazie all'aiuto delle famiglie contadine, come per esempio la famiglia di Candida "Bianca" Ornato, sinta mantovana.

Particolare è invece il caso della famiglia di Gnugo che riesce a riprende l'attività circense e con altri sinti costituisce la Formazione partigiana dei Leoni di Breda Solini che operò sul confine tra Mantova, Modena, Cremona e Reggio Emilia.

Di seguito l'elenco dei sinti e dei rom che hanno partecipato alla Liberazione nel Nord Italia:

Giuseppe "Tarzan" Catter, eroe partigiano sinto, ucciso dai fascisti nell'Imperiese, il suo distaccamento ne prese il nome, decorato al valore

Walter "Vampa" Catter, eroe partigiano sinto, Martire di Vicenza, fucilato l'11 novembre 1944

Lino "Ercole" Festini, eroe partigiano sinto, Martire di Vicenza, fucilato l'11 novembre 1944

Silvio Paina, eroe partigiano sinto, Martire di Vicenza, fucilato l'11 novembre 1944

Renato Mastini, eroe partigiano sinto, Martire di Vicenza, fucilato l'11 novembre 1944

Giacomo Sacco, partigiano sinto, partecipa alla liberazione di Genova

Giuseppe "Tzigari" Levakovich, partigiano sinto nella Brigata "Osoppo" in Friuli Venezia Giulia

Rubino Bonora, partigiano sinto nella Divisione "Nannetti" in Friuli Venezia Giulia

Amilcare "Corsaro" Debar, partigiano sinto, staffetta e poi partigiano combattente nella 48° Brigata Garibaldi "Dante Di Nanni"

Vittorio "Spatzo" Mayer, partigiano sinto in Val di Non

Mirko Levak, partigiano rom, scappato dal campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau si unisce ai partigiani

Fioravante Lucchesi, partigiano sinto nella Divisione Modena Armando

Formazione partigiana I Leoni di Breda Solini, formato unicamente da sinti italiani, fuggiti dal campo di concentramento di Prignano sulla Secchia (MO), operò nel mantovano

 
Di Fabrizio (del 19/01/2014 @ 09:06:40, in conflitti, visitato 2396 volte)

Segnalazione di 9 mesi fa

  Vol 3, article posted August 2013 - Rifugiati siriani ignorati: gli zingari by Kemal Vural Tarlan, Documentary Photographer

Il 17 dicembre 2010, in Tunisia un giovane laureato, venditore ambulante, diede inizio a quella che è conosciuta comunemente come "Primavera Araba". Questa rivolta partita da una strada araba si diffuso poi in tutto il Medio Oriente. Come risultato, diversi regimi dittatoriali nel Medio Oriente, al potere da quasi mezzo secolo, persero uno a uno il potere. Quando i disordini arrivarono nel 2011 in Siria, si ipotizzava che anche il regime Baas sarebbe caduto rapidamente. Al contrario, il regime siriano è tuttora in piedi, dati alcuni motivi come la religione, la diversità etnica della Siria, la posizione geografica, i collegamenti politici tra i diversi gruppi sotto il regime Baas e la stabilità internazionale.

Il conflitto è ora al terzo anno ed ha causato oltre 70.000 morti in Siria. Milioni tra i vari gruppi etnici hanno dovuto lasciare le proprie case e città. Oltre un milione di Siriani hanno lasciato il paese per fuggire nelle nazioni limitrofe, e alcune sono stati obbligati ad immigrare in città relativamente più sicure fuori dalla Siria. Oggi, stanno cercando di sopravvivere in campi e appartamenti nei paesi vicini. Per oltre un anno, ho condotto un documentario fotografico riguardo ai Siriani conosciuti come "ospiti" in città vicine ai confini siriani, e come rifugiati o richiedenti asilo dalla legge internazionale. Li ho fotografati mentre lavoravano nelle fattorie o mentre sudavano dalla paura attraversando quotidianamente i campi minati, nelle loro tende o in lacrime in un appartamento. Più recentemente, ho provato a fotografare ogni momento della loro vita, come testimonianza di una storia. La realtà del popolo siriano in questa stessa regione, assieme e divisi in diverse etnie, fedi e culture.

In mezzo a questi popoli e comunità, c'è un antico gruppo che non solo vive qui dal Medio Evo, ma anche diffuso in tutto il mondo. Ci sono centinaia di migliaia di zingari, conosciuti come Dom, Dummi, Nawwar, Kurbet e Zott, capaci di parlare diverse tra le lingue locali, oltre al curdo, il domari, il turco e l'arabo. Questi gruppi zingari vivono nomadicamente in tutta la Siria e si sono stabiliti, insediati ed integrati con le popolazioni locali. All'inizio del secolo scorso, furono divisi da confini artificiali tra le nazioni. Anche vivendo in paesi diversi, sono rimasti in comunicazione per via parentale, e tra parenti ci sono stati anche matrimoni. Con lo scoppio della recente guerra civile, sono stai esposti a discriminazione da parte delle altre popolazioni e hanno cercato di scappare nelle città dove vivevano altri parenti. C'è una semplice realtà per loro, anche se vivono in paesi diversi; condividono il medesimo destino. Hanno una bassa qualità di vita, sono umiliati, disprezzati, discriminati e ostracizzati sul lavoro da gruppi predominanti rispetto agli zingari.

Gli zingari che hanno vissuto in Siria negli ultimi due anni, si sono trovati in una guerra dove non avevano un lato in cui schierarsi. In un'area abbandonata, una stazione dalle parti di Gaziantep, ho incrociato un gruppo che cercava di vivere in tende di teloni e plastica. Il campo è abitato principalmente da donne e bambini. Gli uomini si sono spostati più vicino alla città, nella speranza di un lavoro. I bambini corrono all'interno delle tende, al cui interno ci sono solo alcune coperte, con un pezzo di pane secco in mano. Vengono da Aleppo. "I ribelli erano entrati in città. L'esercito ci disse che aeroplani da guerra stavano per bombardare le nostre case e che dovevamo andarcene. Così abbiamo abbandonato le nostre case e i nostri averi e siamo partiti. Le notizie arrivate sinora dicono che adesso è tutto bombardato. Non abbiamo più una casa." dice la ragazza, tatuata sul volto e sulle mani. Poi ho chiesto: "Con quale fazione stavate?" Risponde: "Per noi non faceva alcuna differenza. Le nostre case sono bombardate, eravamo tristi e miserabili, ed ora tutti siamo senza cibo."

Ho discusso con un uomo di nome Hasan sui Dom della Siria. Hasan ha 17 anni, è sposato e ha 2 figli. Ha piazzato la tenda in una quartiere di Nizip dove vivono i Dom. Lo hanno aiutato a piantare la tenda. Dentro vivono in 9 in tutto, inclusi suo suocero, sorelle e fratelli. Hasan parla fluentemente domari, curdo e arabo. Ammette di essere un Domari. Gli zingari venuti dalla Siria non possono parlare turco. Si presentano come Turchi e quelli che parlano il turco sono soprattutto Curdi e zingari del Turkmenistan. Indica un'altra tenda e dice: "Non credergli, dicono di essere Curdi, ma sono parenti miei e vivevano per strada dietro la mia casa ad Aleppo." Abbiamo continuato a parlare dei suoi parenti dentro e fuori la Siria.

Da Hasan e da altre persone con cui ho parlato, ho ottenuto queste informazioni: Latakia è dove gli zingari lottano per sopravvivere, ci sono attacchi aerei regolari. Dicono che la gente emigra nelle città della Siria Occidentale, come Sham, o in città controllate dalla comunità-società curda, come Afrin, Kobani o Qamishli. Quanti di loro sono artigiani come dentisti, fabbri, circoncisori, intessitoti di setacci, musici e lattonieri, non riescono ad esercitare i loro mestieri per l'industrializzazione, la modernizzazione della produzione e le leggi. Hasan in Siria lavorava nelle costruzioni, se c'era bisogno di lui per lavorare in Turchia ci andava. "I lavoratori turchi prendono 80 lire (1 lira turca = 0,33 euro, ndr.), però noi lavoravamo per 40, anche se per noi non c'era molto lavoro. Di solito lavoriamo una volta alla settimana. Presto, la mia famiglia si trasferirà a Mersin, dove i bambini e gli adulti raccoglieranno le fragole. Sembra che questa guerra non debba finire mai e, quando lo farà, andrò ad Aleppo."

Un affollato gruppo di richiedenti asilo, sotto un mandorlo appena fiorito ai bordi del deserto, si irrita quando mi vedono dietro all'imam Keskin della zona di Urfa. Non dicono che poche parole, anche se sono sicuri che non sono un dipendente pubblico. Le anziane lanciano maledizioni contro quanti ritengono abbiano causato "la loro situazione attuale" [...]. Mentre sto per andarmene, una di loro mi urla contro di "non fare sapere dove sono loro, scattando foto." Due giorni prima le tende degli zingari sono state date alle fiamme nel vicino distretto di Yenice, dalla polizia che agiva in seguito alle lamentele dei residenti. Nelle cronache non ci sono stati riferimenti agli zingari, solo un accenno sulla stampa nazionale a "bruciate le tende dei Siriani". I richiedenti è da due giorni che stanno cercando di scappare dalla polizia. Le autorità locali hanno impedito loro di fermarsi con le tende nel distretto, sia per i pregiudizi, che per le lamentele e l'inquinamento visivo.

Ultimamente, gli zingari in cerca di asilo che dalla Siria fuggono nel nostro paese, cercano rifugio in appartamenti non rifiniti, capannoni e nei quartieri poveri. I loro parenti, che vivono qui, hanno piantato delle tende vicino alle mura delle loro case, anche se non hanno pane da condividere. Assieme vanno per le strade a raccogliere cartoni, beni fatiscenti e un pezzo di pane. Ma molti di loro sono ancora accampati in tende di emergenza, vicino a città, paesi e villaggi lungo il confine tra Mardin e Antakya.

Sono stati accusati di furti e immoralità, discriminati dagli Arabi, Curdi e Turchi che risiedono nei campi, anche se riescono a mimetizzarsi in quegli stessi campi per la loro capacità di parlare quelle lingue, dopo essersi inseriti regolarmente. D'altra parte sono discriminati ed esposti ai medesimi pregiudizi da chi gestisce i campi, fin quando questi ultimi non riescono a demotivarli a sostare lì.

La maggior parte di loro è fuori dai campi ed è tornata nuovamente ad uno stile di vita nomade, per non essere umiliati dai "gagé" e non essere rinchiusi dietro il filo spinato. Partiranno per lavorare come joppers (braccianti o manovali senza qualificazione, ndr.) nelle regioni mediterranee ed interne anatoliche, come forza lavoro a buon mercato, quando le temperature si alzeranno. Si dice che lavorino in queste aree per 5 lire turche a testa per giorno.

Concludendo, gli zingari sono state le vittime della "guerra civile" iniziata tra diversi gruppi etnici che avevano convissuto. Gli zingari nei Balcani hanno patito particolarmente la disintegrazione dei paesi del blocco comunista. In Iraq, migliaia di zingari sono stati obbligati all'immigrazione dalle bande armate degli sciiti radicali, per "la loro insufficiente fede nell'islam". Allora, molti si rifugiarono in Siria. Durante le rivolte in Medio Oriente, entrate ora nel terzo anno, gli zingari si sono ritrovati nel mezzo dei conflitti, ripetendosi la storia. Le notizie provenienti dalla stampa riferiscono che le loro condizioni di vita stanno diventando sempre più problematiche.

Le nuove autorità di questi paesi hanno intrapreso una nuova strategia di fronte a queste rivolte: solo promesse evasive a minoranze etniche e religiose, zingari compresi. Finché queste tematiche verranno trascurate dai politici, e verranno trascurate l'uguaglianza religiosa ed etnica, oltre alla pace, la struttura multiculturale del Medio Oriente continuerà a deteriorarsi.

 
Di Fabrizio (del 11/12/2013 @ 09:00:02, in conflitti, visitato 1983 volte)

Rom-Anzi Sergio Bontempelli, 9 dicembre 2013 su corriere delle migrazioni

Quest'uomo io lo conosco da sempre: da quando, quasi venti anni fa, ho cominciato a frequentare il "campo nomadi" di Coltano, vicino a Pisa. Piccoletto di statura, con una coppola in testa che gli conferisce un'aria quasi da contadino siciliano, con il tono compassato di un vecchio saggio, Zajko è una specie di "istituzione" del campo.

E' in Italia stabilmente dal 1988, ed è stato uno dei primi rom bosniaci ad arrivare a Pisa. Davanti alla sua baracchina ha visto transitare i "nuovi" immigrati rom, i profughi della guerra degli anni novanta. E ha cresciuto almeno tre generazioni, tra figli, nipoti e bisnipoti. Un vero e proprio custode della "memoria storica" di Coltano.

Sì, lo conosco da sempre, Zajko. E lo conoscono i tanti operatori, assistenti sociali e volontari che nel corso degli anni hanno frequentato il campo. Ma non tutti hanno avuto la pazienza di ascoltare quel simpatico ometto con la coppola. Perché Zajko si esprime in un italiano tutto suo: che non è un italiano "scorretto", ma una lingua ibrida, pronunciata con un forte accento slavo, piena di costruzioni sintattiche romanes e bosniache, infarcita di parole che sembrano strane, e a volte anche un po' buffe.
Non sempre lo capisci al primo colpo, e per entrarci in contatto hai bisogno di tempo: devi passarci qualche pomeriggio, condividere un caffè, fare due chiacchiere così senza scopo. E invece gli operatori, tutti presi dai loro "progetti", non hanno il tempo per ascoltare. Vanno al campo per convincere, spiegare, illustrare, parlare. Hanno sempre qualcosa di importante da dire, e non si prendono mai la briga di sedersi un attimo.

La storia di Zajko
La storia di Zajko è venuta fuori per caso, in una fredda giornata di inverno di tre anni fa. Con gli altri volontari dell'associazione Africa Insieme eravamo andati al campo, a far visita ad alcuni amici: l'aria gelida della sera ci aveva convinto a entrare nella baracca di Zajko, a prendere un buon caffè caldo.
C'era confusione e non si capiva molto: i bambini giocavano e urlavano, una ragazza più grande ci chiedeva di spiegarle una cosa di matematica che non aveva capito a scuola. E poi le due figlie di Zajko avevano avuto problemi in Questura con il loro permesso di soggiorno, ci chiedevano di aiutarle ma non c'era verso di farle parlare una alla volta. Un gran caos, insomma.

Zajko sembrava farfugliare qualcosa, ma i familiari ci dicevano di non dargli retta, "è vecchio e non si capisce mai quello che dice". Però il "vecchio" aveva pronunciato una parola che non avevamo mai sentito al campo, e che ci aveva incuriosito: "ustascia". Sì, Zajko parlava degli Ustascia, i fascisti croati amici di Hitler, che avevano fondato uno Stato Indipendente Croato alleato della Germania.
"Io visto cartelli", insisteva il nostro amico aggiustandosi la coppola, "cartelli sui muri, dicevano evrei srbi e zingari tutti ammazzare". Zajko aveva assistito all'arrivo delle leggi razziali nel territorio croato (che all'epoca includeva anche la Bosnia): le vittime designate erano - per l'appunto - ebrei, serbi e rom.

Gli ustascia, le leggi razziali, lo sterminio
Secondo alcune stime, gli Ustascia uccisero il 75% degli ebrei presenti nel Paese prima della guerra. Quanto ai serbi, interi villaggi furono dati alle fiamme, sacerdoti e altri esponenti religiosi ortodossi furono massacrati nelle loro chiese, circa 200 mila persone dovettero subire la conversione forzata al cattolicesimo.
Fra gli "zingari" - ci informa Mirella Karpati - "le vittime accertate fino al 1998 furono 2.406, di cui 840 bambini. Il campo più terribile era quello di Jasenovac, dove si uccidevano le persone con metodi barbari. Né mancarono campi destinati ai bambini, come quello di "rieducazione" a Jastrebarsko, dove fra l'aprile 1941 e il giugno 1942 morirono 3.336 bambini di varie etnie. Nel campo per le donne di Stara Gradiska morirono oltre trecento bambini zingari".

Da partigiano ad immigrato
Zajko aveva visto le prime avvisaglie di quella tragedia: i cartelli, affissi per le strade, che annunciavano la volontà di "ripulire" la Croazia dalle "razze maledette": ebrei, serbi e rom ("evrei srbi e zingari tutti ammazzare"). E aveva deciso di scappare, rifugiandosi in montagna. Qui aveva incontrato i partigiani di Tito, e si era unito a loro. Un pezzo di storia del Novecento riemergeva dalle parole un po' farfugliate di quell'ometto in apparenza così modesto.

Zajko era stato ferito ed era finito all'Ospedale: poi, uscito, aveva continuato a combattere. Finita la guerra, era andato a Zagabria, dove con la sua formazione partigiana aveva conosciuto Tito. Quindi era tornato finalmente a casa, si era sposato e aveva costruito la sua famiglia. Aveva avuto una prima esperienza migratoria in Italia negli anni Cinquanta: era stato a Napoli, poi a Piacenza a fare il barista. Ma la vera e propria migrazione - quella definitiva - era avvenuta nel 1988: da allora non è più tornato in Bosnia.

Quando abbiamo ascoltato il suo racconto, abbiamo deciso che questa piccola storia - legata alla Storia più grande, quella con la lettera maiuscola, che si legge nei libri e si studia all'Università - doveva essere raccontata. è nato così un video, prodotto da un gruppo di volontarie della nostra associazione, che trovate qui sotto liberamente visionabile e scaricabile.

Una bandiera alla finestra
Ho continuato a frequentarlo, Zajko. Lo incontriamo tutte le volte che andiamo al campo. Oggi ha problemi di salute dovuti all'età - più di ottanta anni - e fa sempre più fatica a lavorare. Era un calderaio, un artigiano del rame: vendeva i suoi prodotti ai mercati, e con quelli si manteneva. Negli ultimi anni i dolori e gli acciacchi gli hanno reso quasi impossibile continuare. Il Comune gli ha assegnato una "casetta", perché nel frattempo il campo di Coltano è stato trasformato in un "villaggio" di alloggi in muratura: ma lui, senza reddito, fatica a pagare l'affitto, e rischia lo sfratto.

L'esperienza della guerra lo ha segnato in profondità, forse più di quanto non sia disposto ad ammettere lui stesso. Perché di guerre, Zajko, ne ha conosciute due: la prima l'ha vissuta da partigiano, da protagonista e in qualche modo da vincitore. La seconda - quella degli anni Novanta - l'ha sorpreso mentre era in Italia, e di fatto l'ha "intrappolato" a Pisa, impedendogli il ritorno a casa.

Quando parla di guerra abbassa gli occhi, Zajko. E il suo sorriso si spegne. La sua "seconda" guerra, il tragico conflitto balcanico degli anni Novanta, non lo racconta volentieri. Ma ogni volta che in televisione sente parlare di bombardamenti, di profughi in fuga, di scontri militari, si preoccupa e ci chiede spiegazioni: vuol sapere che sta succedendo, se il teatro del conflitto è vicino o lontano, se sono coinvolti i civili, se la diplomazia sta facendo il suo lavoro e se le armi si fermeranno.
Nel comodino accanto al letto Zajko tiene una bandiera arcobaleno della pace. E, quando alla televisione parlano di guerra, la appende alla finestra, così che le macchine che sfrecciano sull'autostrada possano vederla.

Zajko. Un video di Africa Insieme from Africa Insieme on Vimeo. Video di Sara Palli, Alice Ravasio, Francesca Sacco, Marta Lucchini, Irene Chiarolanza, Diana Ibba. Prodotto dall'associazione Africa Insieme di Pisa nell'ambito del progetto "volontari come in un film", con la collaborazione di Cesvot, Aiart, Progetto Rebeldia. Musiche originali di Pasqualino Ubaldini

 
Di Fabrizio (del 09/11/2013 @ 09:07:37, in conflitti, visitato 2184 volte)

Domanda oziosa: perché non avevo scritto niente sul "regolamento di conti" avvenuto davanti all'ospedale san Raffaele mercoledì scorso? Eppure, conosco e frequento quella comunità dalla fine degli '80. Conoscevo bene tanto la vittima che chi ha mollato il colpo di spranga mortale.

A parte il dolore che mi ha toccato personalmente, son rimasto zitto per due ragioni:

  1. perché c'è tuttora il rischio per altre famiglie (donne, anziani e bambini, intendo);
  2. perché ancora, nonostante oltre vent'anni di conoscenza, ho il timore di non aver capito bene cosa sia successo e cosa possa succedere.

Per questo, quando venerdì ho letto su il Giornale: Rom ucciso all'ospedale Ecco come è nata la faida mi son stupito che qualcuno potesse spiegarmi tutto ciò. Tanto più perché l'autore, un certo Enrico Silvestri, in via Idro è un perfetto sconosciuto, e quindi immagino abbia delle fonti riservate e sorprendenti.

Purtroppo, la ricostruzione del giornale è una delle cose più orribili (e forse in malafede) che mi sia mai capitato di leggere. Partendo da un fatto di cronaca quel foglio aggiunge tutta una serie di particolari senza verità e senza uno straccio di prova. Vediamone solo alcuni:

  • Motivo del contendere... si parte dal descrivere la situazione come generata da rivalità tra clan. Che esisteva, ma non aveva impedito che le due famiglie vivessero fianco a fianco da anni, e che addirittura la vittima fosse il padrino del ragazzo che l'ha colpito. Insomma, qualcosa si è guastato nel tempo e Enrico Silvestri ignora cosa sia successo. Posso dirlo io: la famiglia di Marco De Ragna (che forse hanno aggredito Luca e i suoi) aveva sì subito un altro attacco ad inizio anno, sempre da alcuni Braidic, ma di un altro gruppo. Scappato in fretta e furia, aveva perso i risparmi di una vita. Ha vissuto quasi un anno in una roulotte scassata, col comune che continuava a ripetere che l'avrebbe aiutato, senza fare assolutamente niente. Non lo giustifico, neanche se è un amico, ma capisco che vivere in quella situazione può portare ad un epilogo tragico come quello di mercoledì scorso.
  • La convivenza sempre più difficile, gli interventi non fatti in via Idro, risalgono e sono stati denunciati da una decina d'anni, passando tra diverse amministrazioni. L'ultimo intervento, lo ricordava proprio Il Giornale, fu nel 2005, a cui segui un lento abbandono bipartisan. Come quando si lascia degradare un condominio, l'abbandono si è tradotto in condizioni sempre più bestiali, in quello che sino alla fine degli anni '90 era un campo considerato modello di convivenza. Singolarmente, nel capitolo precedente (e viene ripetuto alla fine) sembra che l'articolista in questa storia veda un'irresponsabilità della Consulta Rom e Sinti. quando questa accusa le varie amministrazioni di abbandono. D'altronde, è più facile accusare i Rom di essere bestiali, piuttosto che di essere tenuti in bestiali condizioni di vita.
  • Continuo a chiedermi quale siano le fonti di questo Enrico Silvestri, perché volendo mostrare di conoscere la questione, inanella una serie di errori descrivendo particolari che non c'entrano con la cronaca. Via Idro ... nato oltre trent'anni fa è dell'estate 1989 (24 anni), è sempre stato abitato da Rom Harvati (e non da Sinti) e non hai mai visto 600 presenze, attestatesi negli anni tra le 100 e le 200, in maniera piuttosto stabile. Ma 600 presenze è un numero (inventato di sana pianta) che fa paura.
  • Perché, subito dopo, arrivano le affermazioni forti: I Braidic odiano i De Ragna a cui seguirà E adesso la vendetta: la morte di Luca deve essere pagata con la morte di Marco. Lo so, ve lo dico chiaramente, lo temo, ma so anche che ci sono quelli imparentati tanto con i Braidic che con i De Ragna. E proprio in questi giorni, vedo che al campo qualcuno si lascia andare a parole di vendetta, altri (che di cognome facciano Braidic o De Ragna) in silenzio e fatica stanno provando a calmare gli animi.

Per il Giornale e per quelli che sono i suoi giornalisti, non esiste niente di peggio che un Rom che provi a portare pace. Bisogna essere per forza stupidi e sanguinari. Meglio morti che rom, pensano. Non è che io ce l'ho per forza con quella testata, ma successe già a dicembre 2005, che via Idro venne accusata di colpe che non erano sue. Mandammo la smentita, e "naturalmente" non fu mai pubblicata.

 
Di Sucar Drom (del 18/10/2013 @ 09:07:12, in conflitti, visitato 1757 volte)

MEMORS- Francesco Brajdic from Luca Bravi on Vimeo.

nome: Francesco Brajdic
data di nascita: Lubiana, 1939
luogo di nascita:
posizione attuale: Udine
campo:

Francesco Brajdic ricorda il proprio internamento insieme alla madre Maria e ai suoi sette fratelli (tra cui Stanka Brajdic) a Gonars. Racconta infine del successivo trasporto di sua madre verso Buchenwald e Ravensbrück.

 
Di Fabrizio (del 26/09/2013 @ 09:03:43, in conflitti, visitato 1821 volte)

Un mese fa, da Czech_Roma

Conkova (seconda da destra) al Roma street party (Photo: Martin Nejezchleba) - Street party versus odio: i Rom cechi sotto minaccia - Deutsche Welle

    Durante le proteste nelle città ceche, i neonazisti hanno gridato slogan per diffondere la paura tra la popolazione rom. Sembrano pronti ad usare la violenza. Ma i Rom della città di Duchkov hanno risposto con misure pacifiche.

Little Robert e i suoi amici hanno la strada tutta per loro, al momento. Sette anni, siede sul nero asfalto, mentre sua sorella traccia il contorno del corpo con un gesso. Aggiungono uno smiley alla figura.

Due ragazzi più grandi scarabocchiano in fretta delle bandiere rom sulla strada - blu e verdi con la chakra rossa in mezzo - e scrivono accanto "Siamo anche qua". Così, quei bambini cercano in qualche modo di esorcizzare l'incombenti calamità.

Quattro marce in tre mesi

Appena un'ora e mezza dopo, una cinquantina di neonazisti e 250 residenti di Duchkov marciano sulla figura disegnata col gesso. I loro slogan risuonano tra le facciate fatiscenti degli edifici di questo quartiere dove vivono molte famiglie rom. "Questa è casa nostra" e "Boemia ai Cechi" i canti neonazisti.

Little Robert (non è il nome vero) sulla marcia è furioso. Vorrebbe fare qualcosa di più del disegnare figure di gesso sull'asfalto. "Almeno gettare a terra uno skinhead e tirargli dei calci," dice. Davvero? "No, mettergli le manette, almeno non può muoversi." Questa è già la quarta marcia anti-rom nel suo quartiere a cui deve assistere negli ultimi tre mesi.

"Siamo anche qua" hanno scritto (Photo: Martin Nejezchleba)

Le proteste a Duchcov sono state innescate da un'aggressione nel quartiere rom verso la metà di maggio, quando alcuni ubriachi picchiarono un uomo e una donna. Il sito neonazista ceco Free Resistance adoperò le registrazioni della telecamera di sicurezza sull'aggressione, per alimentare il sentimento anti-rom e chiamare ad una protesta a livello nazionale.

La criminalità nelle aree povere è qualcosa che preoccupa molti Cechi, ed i Rom ne sono il capro espiatorio collettivo. "Continueremo a guardare soltanto?" era la domanda retorica posta nel video online dell'estrema destra.

La persecuzione sta diventando un luogo comune

Hanno risposto all'appello circa 2.500 persone in otto città, marciando fianco a fianco ai neonazisti. Lo slogan spregiativo: "Assieme contro il terrore zingaro". Nella città industriale di Ostrava, nell'est del paese, i manifestanti si sono scontrati per le strade con la polizia. La polizia ha usato gas lacrimogeni e manganelli per impedire l'entrata degli estremisti in buona parte del quartiere rom.

Street party per contrastare l'atmosfera da pogrom: rifocalizzando l'attenzione sul positivo

A Duchcov si sono uniti circa 60 tra residenti e volontari, per opporsi alla marcia neonazista. E' stato eretto di fronte all'ingresso di una casa un palco improvvisato, costruito con pallet. Accanto, è appeso uno striscione, con la dicitura "Neri, bianchi, uniamo le forze".

La performer Ivana Conkova sta anche cercando di calmare l'atmosfera di persecuzione. La ventottenne lavora a fianco di pochi altri volontari dell'iniziativa civica Konexe, organizzando azioni ogni fine settimana per contrastare le proteste anti-rom. Lo scopo è anche di distrarre iRom, aiutandoli a mantenere la compostezza ed evitando che si nascondano in casa.

Mentre il corteo canta "Andiamo a prenderli", Conkova suona, canta e balla con i residenti - perlomeno, è quello che cercano di fare. Conkova chiama questo piccolo street festival "un'oasi di pace". I suo occhi castani hanno uno sguardo stanco: porta avanti la sua lotta contro il razzismo - senza alcun supporto finanziario - quasi ogni fine settimana.

La polizia in tenuta antisommossa presidia per mantenere l'ordine e tenere lontani i manifestanti (Photo: Martin Nejezchleba)

"Vogliamo offrire ai bambini un'esperienza differente e positiva," dice Conkova. Visibilmente scossi, gli adulti si agitano su sedili di plastica bianca, bevendo caffè turco. Una giovane trucca le facce dei bambini. Non sembra che abbiano voglia di cantare e ballare. Violino, violoncello e chitarra sono ben presto sopraffatti dal ronzio di un elicottero.

La marcia di protesta è a solo qualche centinaio di metri di distanza. Un cordone di poliziotti in tenuta antisommossa è lì per impedire alla protesta di raggiungere i Rom. La voce roca di Conkova non basta a scacciare la paura e la rabbia dei Rom.

Tempo di attesa, cucinando zuppa di patate

Jitka Bartova non sta passando niente di tutto ciò. Questo sabato la sindaca di Duchcov è a casa, cucinando zuppa di patate. Ma questa signora di mezza età, con capelli rossi e sparsi, dice di poter comprendere perché i cittadini sono arrabbiati, e perché hanno deciso di unirsi agli skinhead nel circondare il quartiere rom.

"In molti sta crescendo la frustrazione," dice dalla sua terrazza soleggiata, a pochi isolati di distanza dalle manifestazioni. Sottolinea che la difficile situazione economia e l''alta disoccupazione, significano che sempre più "bianchi" sono in difficoltà finanziarie.

"E poi vedono un Rom sorridente con un assistente sociale che compila un modulo per loro. E' un sentimento che cresce tra gente di cui nessuno si occupa." dice la sindaca di Duchcov. Descrive il Rom street party come una provocazione.

La sindaca Bartova ha espresso comprensione per le frustrazioni dei cittadini verso i Rom (Photo: Martin Nejezchleba)

Alla prima protesta anti-rom di maggio, Bartova tenne un discorso in cui sembrava esprimere pubblicamente simpatia per i manifestanti. Qualche settimana fa, l'agenzia d'investigazione pubblica ha valutato il fenomeno che sempre più Cechi rispondano agli appelli alla mobilitazione da parte dei neonazisti, come una grave minaccia alla sicurezza pubblica e alla democrazia della repubblica.

Breakdance al posto della battaglia

Le organizzazioni ceche dei diritti umani per anni hanno evidenziato le discriminazioni sui Rom a scuola, o nel mercato del lavoro e dell'alloggio. Sono discriminazioni profondamente radicate nel sistema. La città di Duchcov, ad esempio, ha venduto a compagnie immobiliari private, gli edifici parzialmente fatiscenti in cui i rom si rifugiavano la notte. Gran parte degli assegni sociali che i Rom ricevono, finiscono direttamente nelle tasche degli squali immobiliari, attraverso affitti gonfiati.

Anche cittadini "regolari" stanno partecipando alle proteste anti-rom (Photo: Martin Nejezchleba)

Tornando allo street party, poco prima delle 16.00, succede qualcosa che Conkova dice succede sempre quando i cori anti-rom diventano troppo opprimenti. I presenti si allontanano dal podio per vedere chi vuole seguirli.

"la pressione sta montando," dice uno. "E' ora di prendere la cosa nelle nostre mani." Anche Conkova, prova a fermare la folla. "I Rom devono uscire dal ruolo di vittime," dice.

Ma alla fine  i Rom decidono contro il conflitto aperto. Non vogliamo provocarli, dicono; dobbiamo proteggere i nostri bambini. Siamo qui per festeggiare.

I bambini lo prendono alla lettera, tornando di corsa sul palco. Assordanti esplosioni pop si diffondono dagli altoparlanti. Robert è i suoi amici trovano finalmente uno sfogo alla loro rabbia: breakdance.

 
Di Fabrizio (del 10/09/2013 @ 09:02:50, in conflitti, visitato 1711 volte)

Il villaggio rom lungo il fiume Crati Il quotidiano della Calabria

Lettera dei rom ai cosentini dopo i raid punitivi su cui indaga la procura Botte, insulti e addirittura un'incursione in auto con un uomo investito: dopo l'escalation di violenza in città è stata aperta un'inchiesta affidata alla polizia. Ma intanto gli abitanti del villaggio sulla riva del fiume Crati scrivono alla città: "Vi è mai successo di essere massacrati di botte mentre andate al supermercato?"

COSENZA - "Vi è mai successo di essere massacrati di botte mentre andate al supermercato a comprare il pane per i vostri figli? Siete mai stati accusati di una cosa che non avete fatto? A noi tutto questo succede da ormai un mese". La comunità rom che vive nel villaggio di Vaglio Lise, alle porte di Cosenza, ha deciso di rivolgersi alla città con una lettera aperta, dopo l'escalation di violenza subita nei giorni scorsi. La procura, nei giorni scorsi, ha deciso di fare luce sulla vicenda e ha affidato alla polizia un'indagine sui pestaggi.

"Ogni volta che usciamo dal villaggio per andare a fare la spesa, su via Popilia veniamo aggrediti, picchiati, insultati da persone che dicono di volersi vendicare per aver subito dei furti" scrivono ora i rom nella loro lettera che, sottolineano, è rivolta a chi ce l'ha con loro, "più che al resto della cittadinanza ed a quanti nel quartiere ci hanno sempre dato affetto e ospitalità": "Chiediamo a questi giovani se secondo loro è giusto che a pagare debbano essere padri di famiglia innocenti, uomini che si alzano all'alba ogni giorno per andare a vendere aquiloni e collanine sulle spiagge. Ai giovani che si aggirano intorno alle nostre baracche, armati di pistole, benzina e mazze da baseball vorremmo chiedere se a loro sia mai capitato di essere picchiati, perseguitati, incarcerati ingiustamente". E aggiungono: "Ogni giorno viviamo nel terrore. E di notte non dormiamo, perché temiamo che qualcuno possa incendiare le nostre baracche, far del male ai nostri bambini".

Raccontano anche che una settimana fa, mentre passava davanti ad una chiesa, un abitante del campo rom, un uomo che vive a Cosenza da quasi dieci anni e mai si è macchiato del minimo reato, è stato investito da una macchina. Dalla macchina sono scesi due giovani che, invece di soccorrerlo, si sono accaniti su di lui a colpi di mazze, spaccandogli la testa. "Alle istituzioni chiediamo sicurezza - è l'appello dei rom -. Ai parenti ed agli amici di questi giovani che fanno le ronde, chiediamo di parlare con loro, spiegare che l'uso della violenza è sempre sbagliato, e che attaccare gli innocenti solo in base alle loro origini etniche, è un crimine contro l'umanità".

Le indagini intanto proseguono e intenzione della Procura di Cosenza è dare un nome agli aggressori. Impresa non tanto facile e per questo ci si avvarrà anche della visione di alcuni video ripresi dalle telecamere di sicurezza posizionate lungo le strade dove si sono materializzati alcuni dei pestaggi. Ritorna alla ribalta, però, il problema dell'integrazione in città: nei giorni scorsi era montata una protesta dei cittadini di Casali, che chiedono l'allontanamento delle famiglie rom dal palazzetto dello sport, nel quale il Comune di Cosenza le ha sistemate da quattordici mesi, dopo un incendio che distrusse molte baracche a Vaglio Lise. Doveva essere un alloggio temporaneo, ma i rom sono ancora lì, con la struttura sportiva (un tempo molto frequentata) diventata un grande stanzone, che ospita quindici nuclei familiari. In teoria dovrebbero abbandonare la struttura, in quanto l'emergenza è di fatto scaduta.

 
Di Fabrizio (del 29/08/2013 @ 09:09:32, in conflitti, visitato 2140 volte)

Non che si stia bene, ma anche con l'affitto da pagare e il conto in rosso, si può vivere una tranquilla e calma ignoranza. Forse, anche se non hai una casa e non hai un conto. Poi, ti svegli una mattina e, vedi una tromba d'aria che si avvicina, è la GUERRA che torna. A dire il vero, la guerra c'è da un po' di tempo: è come quei fulmini improvvisi con cui il tornado ti dice: "Eccomi, sono QUA." (ma, mi chiedo, se non mobilitavano gli USA si continuava a dormire?)

Scrivo di questa impotenza da osservatore. Perché una volta, tanti e tanti anni fa, le comunicazioni non erano istantanee come oggi, e il quadro di Guernica sollevava ancora scandalo e indignazioni REALI. Oggi, io posso solo immaginare che i bambini gasati nelle foto che stanno circolando, siano REALI (e la cosa dovrebbe farmi orrore), ma non ne ho alcuna certezza, né tantomeno ho la certezza di chi possa aver compiuto una strage simile (so solo che non è la prima strage e non sarà l'ultima), So che se potessi, in certi momenti vorrei cancellarmi la memoria, perché l'orrore dell'oggi e del domani non si sommi a quello che sono riuscito ad anestetizzare negli anni scorsi.

Ottant'anni dopo Guernica, scrivo, al computer, collegato in tempo REALE a ogni fonte possibile di informazione, della mia IGNORANZA. Ignoranza, ...disperata, perché non solo non ho i mezzi per capire, ma se anche ne fossi in grado (o volessi cullarmi in qualche certezza) questo mondo e questa informazione (reale?) mi/ci hanno tolto qualsiasi capacità di reagire.

Condivido una riflessione di Tahar Lamri:

    Guardo i notiziari della televisione siriana e vedo che l'esercito siriano avanza e vince sulle orde di jihadisti e takfiristi venuti da ogni dove. Vince su queste orde che comunque hanno sconfitto l'Unione Sovietica in Afganistan e gli Stati Uniti in Iraq. L'esercito siriano opera lontano dai titoloni dei giornali e dalle esperterie degli esperti. Forse fra qualche ora, forse qualche giorno, questo esercito sarà polverizzato dalla potenza dei potenti. Forse non ci sarà più - il difficilmente difendibile - Bashar Al-Assad. Forse, come sappiamo da altrove, allora si aprirà in Siria la guerra dei "tawaif", cioè le varie comunità che compongono il popolo siriano: sunniti, alawiti, sciiti, drusi, ismaeliti, ortodossi, melchiti, armeni, cattolici, maroniti, caldei, assiri, curdi... e che, da sempre, convivono su quella terra condividendo i loro 32 antipasti, bevendo il maté o qualche Barada fresca sotto i gelsomini. Si sa, la convivenza non è necessaria né possibile sotto la democrazia delle bombe. Noi, avremo, come sempre, quel senso di impotenza che ci accompagnerà per un po'. Poi dimenticheremo.

Sunniti, alawiti, sciiti... Succede con tutti gli stati, non solo in Medio Oriente. A guardarli da vicino sono entità geografiche tracciate coi righelli, e dentro ci trovi di tutto, popoli i più diversi, arrivati chi prima e chi dopo. Perché i confini sono statici, i popoli no. Cosa ne sappiamo di loro?

Apro una parentesi a tal proposito: già in Italia si sa poco del popolo rom, che pure è un ingrediente fondamentale di ogni stato-macedonia. Figuriamoci se si sa qualcosa dei Dom, o Domari. Sono il corrispondente mediorientale del popolo rom, e sono lì presenti, ed ignorati, da circa un millennio. Sono pochi, pochissimi, ignorati e discriminati come da noi. Al di là della conoscenza accademica, venni a contatto con la loro esistenza FISICA, una decina d'anni fa, in occasione di un'altra guerra scatenata da (una scusa? una certezza? difficile da dire...). Erano sempre gli USA che stavano regolando i conti col loro ex alleato Iraq.

I Dom, in Iraq, c'erano come tutti gli altri popoli e, per quanto Saddam Hussein non fosse l'esempio del padrone di casa che ognuno vorrebbe, avevano trovato il modo di conviverci. Furono le bombe USA, fu l'arrivo al potere degli sciiti (cioè, quelli che gli USA temevano), che fecero terra bruciata attorno a loro. E dieci anni fa, con ritardo di mesi, mi arrivavano le notizie del loro nuovo migrare in cerca di lidi tranquilli. Cioè: SIRIA, Aleppo.

Credo che la sfiga sia un tratto genetico inscritto in questa gente condannata ad un continuo migrare: stanno scappando nuovamente, chi in Libano e chi in Turchia, nei campi profughi o all'addiaccio. REALI, loro, forse più dei dispacci d'agenzia o delle dichiarazioni dei politici. REALI, perché il migrare sotto le bombe o inseguiti dalla cavalleria, è nel loro DNA, ma anche nella nostra memoria (con l'affitto da pagare e il conto in rosso).

 
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