Di seguito gli articoli e le fotografie pubblicati nella giornata richiesta.
Articoli del 16/02/2011
PARLAMENTO EUROPEO Giustizia e affari interni - 09-02-2011 - 15:24
La deputata Lívia Járóka
- Il 95% dei Rom conduce ormai una vita sedentaria e non vuole tornare a
essere nomade
- Tra i rischi maggiori quello della povertà e della mancanza di
istruzione
Mentre la tragica morte di quattro bambini in un campo di Roma commuove
l'Italia, sono oltre 12 milioni i Rom europei che continuano a lottare contro
segregazione e povertà nell'UE. Oggi l'Europa sta cercando una soluzione comune
per risolvere il problema. La presidenza ungherese ha definito la strategia
europea sui Rom una delle sue priorità.
Ne abbiamo parlato con la parlamentare di centro-destra (PPE) ungherese
Lívia
Járóka, l'unica deputata Rom seduta in Parlamento. La giovane 36enne è la
relatrice di un rapporto che si propone di non permettere più all'Europa di
sprecare il potenziale dei Rom e il loro possibile contributo all'Unione.
Sta cercando di lanciare una strategia europea sui Rom. Quali punti sono più
importanti? Dobbiamo cambiare il nostro approccio. Da una prospettiva etnica di questa
minoranza dobbiamo allargare la nostra visuale, dando ai Rom più prospettive
specialmente dal punto di vista lavorativo. Abbiamo leggi europee per combattere
la discriminazione, ma spesso non vengono messe in atto nei singoli Stati
membri. Comunque la discriminazione etnica è soltanto uno dei fattori. Esiste in
Europa una povertà invisibile che non viene percepita neanche da coloro che
assegnano i fondi europei.
Nella mia strategia metà del successo dipenderà dalla stessa comunità Rom e
dalla presenza di leader fra loro. Per questo c'è il bisogno di una nuova classe
dirigente di Rom istruiti che vengano dalla comunità stessa e la rappresentino.
Molti continuano a pensare che i Rom siano nomadi. Ma è ancora così?
I Rom hanno il diritto di andare dove vogliono in quanto cittadini europei. Se
poi desiderino davvero muoversi è un altro discorso. Oggi il 95% dei Rom europei
conduce una vita sedentaria. Quel 5% che continua a muoversi lo fa per ragioni
culturali o lavorative.
Negli ultimi anni l'emigrazione che abbiamo visto era legata a motivi economici.
Gli Stati membri usciti dall'epoca comunista si sono trovati di fronte a realtà
economiche nuove che hanno lasciato i più poveri senza un lavoro. I Rom sono
stati i primi a essere espulsi non in quanto gruppo etnico, ma perché non erano
istruiti.
I Rom non vogliono una vita nomade, ma lavoro, dignità e cibo. La prossima
generazione rischia di continuare a vivere in povertà non per la sua etnia, ma
perché probabilmente ha entrambi i genitori disoccupati. Dobbiamo evitare che i
Rom emigrino di nuovo per ragioni economiche come hanno fatto quando si sono
diretti verso la Francia, il Regno Unito, l'Italia e molti altri paesi. Ma non
sono stati soltanto i Rom: anche molte altre persone in difficoltà sono state
costrette a lasciare il loro paese alla ricerca di un lavoro.
Perché è tanto importante sostenere le donne Rom?
Nelle aree più svantaggiate, due generazioni di Rom stanno crescendo senza
vedere i genitori andare al lavoro. Questo vuol dire anche che sono le donne
coloro che mentalmente e fisicamente coltivano la speranza. Sono un'antropologa
e ho visto con i miei occhi quanto molto dipenda dal lavoro delle donne. Sono
loro a assicurarsi che ogni giorno ci sia del cibo sul tavolo, sono loro a
assicurare che vengano rispettati i diritti dei propri figli.
Sostenere le donne Rom è uno degli elementi chiave della nostra strategia.
Dobbiamo accertarci che non avvengano più i matrimoni forzati e che si combatta
contro l'abuso di droghe e la tratta di esseri umani.
Con la sua storia personale ha dimostrato che è possibile sconfiggere povertà e
esclusione sociale. Cosa suggerirebbe a altri Rom che vogliono seguire il suo
esempio? La mia fortuna è stata l'istruzione. I miei genitori si sono trasferiti per
evitare che fossimo messi in classi separate, soltanto per Rom. Hanno
controllato che studiassimo abbastanza per essere ammessi in buone scuole.
Comunque una delle cose più importanti che mi hanno dato è questo forte legame
familiare e la nostra tradizione di accettarci l'uno con l'altro.
Io sono figlia di un matrimonio misto. Ho visto quello che hanno fatto i miei
genitori per darci una vita migliore. Tutti noi, i miei fratelli e io, siamo
andati all'università, grazie ai messaggi positivi trasmessi da mia madre e mio
padre.
Ha mai sofferto sulla sua pelle la discriminazione? Per me essere una Rom è una ricchezza, un elemento molto positivo. Mio padre è sempre stato molto protettivo: non ho mai sentito nessun commento
etnico a casa. Per noi era naturale essere Rom, ma prima di tutto ungheresi e
europei.
Per mia sorella è stato diverso. È nata dieci anni dopo di me in un momento in
cui il governo stava cambiando e si respiravano turbolenze economiche e tensioni
sociali. Si stava creando un baratro tra Rom e non Rom, tra ricchi e poveri.
Abbiamo iniziato a avvertire questa sensazione sulla nostra pelle.
Mi sono accorta all'università di quanto colleghi e amici non sapessero niente
dei Rom e fossero completamente pieni di pregiudizi infondati. Ho capito così
che dovevo fare qualcosa e mostrare che, oltre ai curriculum nazionali, al
dialogo sociale e al lavoro nelle comunità Rom, era estremamente importante
lavorare con i media.
Come potremmo creare fiducia e cooperazione reciproca?
I media hanno un ruolo molto importante, dovrebbero mostrare modelli di
cooperazione tra Rom e non Rom. La crisi economica ha reso ancora più difficile
combattere i pregiudizi. Il nostro compito dovrebbe essere quello di creare
degli spazi per l'integrazione, come associazioni sportive miste, classi e
luoghi di lavoro comuni. Poi abbiamo bisogno di una valida classe dirigente tra
i Rom. Aspetto con ansia la nascita all'interno della società Rom di un
approccio comune che venga dal basso.
Il rapporto sulla strategia europea per l'inclusione dei Rom dovrebbe essere
votato dalla commissione per le libertà civili il 14 febbraio per poi arrivare
in plenaria a marzo.
Segnalazione di
Alberto Maria Melis,
che aggiunge: "Un bell'articolo, che dimostra come si può fare del buon
giornalismo anche senza intingere la penna nel fango e nel sangue, semplicemente
raccontando la verità che chiunque conosca personalmente i rom ha potuto toccare
con mano."
Repubblica
Un anno fa in questo campo in un rogo era morto un bambino. Pneumatici e
rifiuti abbandonati sono l'eredità di un vecchio sgombero - di BEPPE SEBASTE
La prima cosa che ci colpisce è il pudore. Poiché al mattino gli uomini sono
tutti al lavoro, a venirci incontro è stato un nugolo di bambini, sorvegliati a
vista e seguiti dalle madri, dai tre ai tredici anni. Sono curiosi e vivaci, e
al tempo stesso protettivi. Tra tutti spicca Dario Valentino, undici anni:
"Venite stasera, quando torna mio padre e gli altri uomini", ci ripete serio. Ci
proibisce (ci prega di non farlo) di fotografare le case e le persone, cioè loro
stessi. Colpisce la sua dignità, il volto serio nello sforzo di assumersi la
responsabilità del campo. E' anche perfettamente consapevole del bello e del
brutto. "Tutta questa zozzeria" - dice indicando una distesa di terra piena di
detriti, e le carcasse arrugginite e bruciate di automobili, "non è nostra,
l'abbiamo trovata qui". Ci dice il via vai di questi giorni di fotografi, che
non hanno chiesto il permesso di scattare immagini a case e persone, come se
fossero gabbie di uno zoo: "sono venuti a fotografare tutto e poi sono
scappati".
Ci presentiamo. Siamo in un agglomerato di baracche nel quartiere della
Magliana, racchiuse da canneti e pezzi di campagna sopravvissuta, chiusa da un
lato dai palazzi che ospitano la Fao. Il sentiero che vi conduce da via Morselli
è costellato di pneumatici e tracce di sgomberi recenti. Anche qui, un anno fa,
un altro bambino morì bruciato per l'imperizia e la miseria, non questa volta
dal riscaldamento, ma dalle candele. Sono rimaste famiglie bosniache di
Sarajevo, da cui imparo che le tragedie della miseria accadono a quei rom che
non hanno la sapienza pratica di altri, l'arte del sopravvivere. Nuovi poveri,
per così dire. Con me e Francesca, fotografa, c'è Alessandro, un giovane
antropologo che lavora con Arci Solidarietà nel vicino campo rom "regolare" di
via Candoni: concepito per ospitare trecento persone, ne vivono più di mille,
stipate dentro container di 18 metri quadrati. Alessandro aiuta le famiglie rom
a sbrigare le pratiche sanitarie, scolastiche e sociali in genere. I bambini e
le madri di questa baraccopoli di irregolari lo conoscono di vista, e si fidano
poco alla volta di noi. Il fatto è che ci sentiamo in colpa a essere qui anche
noi solo dopo l'ennesima tragedia che ha fatto notizia e suscitato clamore, a
far visita e fotografare delle condizioni di vita, di vita nuda, come se le
scoprissimo sempre per la prima volta, dimenticando che le abbiamo create noi,
la nostra politica, e solo in seguito attribuite a "loro". Non solo il triste
concetto di "campo", mi spiega il giovane antropologo volontario, è
un'invenzione nostra, frutto di una logica di esclusione; ma anche all'estremo
opposto la lirica adesione a un loro presunto e folcloristico stile di vita, a
una loro presunta esigenza di separatezza.
Ci colpisce la serenità di questo scorcio di vita quotidiano di donne e bambini,
e la tranquilla dignità delle donne e madri. "Ci portano di qui e di là come se
fossimo giocattoli", dice una donna. Da uno sgombero all'altro, da una
deportazione all'altra, la loro precarietà è una condanna, non una scelta. "Io
vivo qui con mio padre, sono arrivata in Italia quando avevo 11 anni - mi dice
un'altra che si definisce single, gonna verde con disegni fantasiosi, collana di
perline, pendenti e un bracciale di corallo - vorrei lavorare, sono brava a fare
le pulizie" - dice mostrandomi la baracca ordinata e accogliente sulla terra
nuda e spazzolata: un letto, un fornelletto, un tavolino, due quadretti di "Roma
sparita" appesi alle pareti fragili di legno, e un terzo che è un ritratto di
padre Pio. Ma non sa leggere né scrivere, in nessuna lingua. Poi si siede
all'aperto, in postura perfettamente eretta toglie il rame scorticando le guaine
dei cavi elettrici e lo mette da parte. Sanno, a differenza di altri rom, che
non bisogna bruciare il rame per non respirarne la diossina che sprigiona.
Tutte le baracche sono di legno, nessun uso di materiali nocivi, e dalle tettoie
pendono le plastiche azzurre della Posta Italiana, con la scritta in bianco. In
una, l'unica con l'impiantito pure di legno, tra i letti, i tappeti e le coperte
dai colori festosi e sgargianti noto vicino alla porta una stufa circolare di
metallo, saldature perfette, ma soprattutto una forma che sembra il frutto di un
designer di grido. "L'ha fatta mio marito", dice la donna con orgoglio seguendo
il mio sguardo. "Questa è sicura". E' una stufa a legno, davvero bella da
guardare.
Dario Valentino, il ragazzo undicenne (che scopriamo essere il figlio del
falegname e fabbro delle stufe), mentre attorniato dagli altri bambini
costruisce con assi di legno, chiodi e un martello una piccola casetta per
giocare, pone delle domande ad Alessandro come un grande, sul loro destino, se
li sposteranno a via Candoni, che cosa siano le fantomatiche "case popolari", e
chi ci può andare. Non è facile spiegare a bambini dagli occhi sgranati, che
aspirerebbero ad avere una casa normale, cosa siano e chi abbia diritto alle
case popolari, e perché. Intanto si sono avvicinate ad ascoltare alcune donne.
Quando nominiamo il Cei (Centro di identificazione e espulsione), la madre di
Dario Valentino, che sembrava disinteressata ai nostri discorsi, si affaccia
dalla sua baracca per esclamare, seria: "Là non ci voglio andare neanche morta".
Tutti qui hanno un regolare permesso di soggiorno, tutti vorrebbero che i loro
figli andassero a scuola, vorrebbero una normale assistenza sanitaria, tutto ciò
che per noi è così normale che ci dimentichiamo di averlo. Ignoro quali siano i
criteri per l'attribuzione, ma una cosa è certa: i nomadi, come li chiamiamo,
non sono nomadi, la loro origine è spesso contadina, e il lavoro degli uomini si
relaziona con la realtà della metropoli, non in un mondo separato.
"Questa potete fotografarla", ci propongono fieri dopo avere finito la loro
capanna di legno. Adesso i bambini, quelli più piccoli a piedi nudi, sono
contenti di mostrarci quante più cose possibili, felici della nostra attenzione.
Fotografiamo Lisa, il boxer femmina, Bambi, una pecora compagna di giochi dei
bimbi. Siamo incantati dalla loro creatività e dalla loro gentilezza. La piccola
Samantha, una biondina sempre sorridente, corre e grida di gioia quando diciamo
che torneremo a portarle dei vestiti. "Anche delle scarpine", ci dice da
lontano.
(11 febbraio 2011)
Ho scritto di recente dei rimpatri forzati di Rom kosovari
dalla Germania. Da qualche anno politiche simili si verificano anche in
Svizzera, Austria, Benelux e Svezia. Da quest'ultimo paese mi arriva la lettera
che riporto qua sotto.
Caro Fabrizio
ti scrivo augurandomi che tu possa fare qualcosa, riguardo la deportazione
dalla Svezia dei rom kosovari. Da tempo i rom sono mandati verso il Kosovo senza
nessuna sicurezza di essere accolti oppure assistiti nel paese di provenienza.
Ho letto l'articolo sulle famiglie rom deportate dalla Germania, scritto
sempre sulle tue pagine, è vero che nessuno se ne frega dei rom quando arrivano
nella loro maledetta destinazione, sono lasciti alla loro sorte, credetemi per
niente buona, nessuna assistenza, né previdenza sociale o assistenza medica, ed
infine non sanno dove e come chiedere aiuto, la maggioranza di loro non sono
nemmeno iscritti all'anagrafe.
Spero che l'Unione Europea faccia qualche mossa per fermare, questo quasi
genocidio di oggi. Sapendo che le dichiarazioni delle bande criminali che
guidano il paese, qualcuno controlli meglio, che tutti coloro che alcuni paesi
della EU mandano in Kosovo, vengano ben accettati e accolti non sono affatto
vere, e sonno lasciati alla loro cattiva sorte.
Per non essere italiano mi auguro di essermi spiegato bene e che mi
abbiate capito, perché il traduttore di google ha tradotto questa mia lettera.
Cordiali saluti da Mauro -
bajrami162009@hotmail.com
Fotografie del 16/02/2011
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