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Articoli del 16/02/2011

Di Fabrizio (pubblicato @ 09:56:47 in Europa, visitato 1458 volte)

PARLAMENTO EUROPEO Giustizia e affari interni - 09-02-2011 - 15:24

La deputata Lívia Járóka

  • Il 95% dei Rom conduce ormai una vita sedentaria e non vuole tornare a essere nomade
  • Tra i rischi maggiori quello della povertà e della mancanza di istruzione

Mentre la tragica morte di quattro bambini in un campo di Roma commuove l'Italia, sono oltre 12 milioni i Rom europei che continuano a lottare contro segregazione e povertà nell'UE. Oggi l'Europa sta cercando una soluzione comune per risolvere il problema. La presidenza ungherese ha definito la strategia europea sui Rom una delle sue priorità.

Ne abbiamo parlato con la parlamentare di centro-destra (PPE) ungherese Lívia Járóka, l'unica deputata Rom seduta in Parlamento. La giovane 36enne è la relatrice di un rapporto che si propone di non permettere più all'Europa di sprecare il potenziale dei Rom e il loro possibile contributo all'Unione.

Sta cercando di lanciare una strategia europea sui Rom. Quali punti sono più importanti?
Dobbiamo cambiare il nostro approccio. Da una prospettiva etnica di questa minoranza dobbiamo allargare la nostra visuale, dando ai Rom più prospettive specialmente dal punto di vista lavorativo. Abbiamo leggi europee per combattere la discriminazione, ma spesso non vengono messe in atto nei singoli Stati membri. Comunque la discriminazione etnica è soltanto uno dei fattori. Esiste in Europa una povertà invisibile che non viene percepita neanche da coloro che assegnano i fondi europei.

Nella mia strategia metà del successo dipenderà dalla stessa comunità Rom e dalla presenza di leader fra loro. Per questo c'è il bisogno di una nuova classe dirigente di Rom istruiti che vengano dalla comunità stessa e la rappresentino.

Molti continuano a pensare che i Rom siano nomadi. Ma è ancora così?
I Rom hanno il diritto di andare dove vogliono in quanto cittadini europei. Se poi desiderino davvero muoversi è un altro discorso. Oggi il 95% dei Rom europei conduce una vita sedentaria. Quel 5% che continua a muoversi lo fa per ragioni culturali o lavorative.

Negli ultimi anni l'emigrazione che abbiamo visto era legata a motivi economici. Gli Stati membri usciti dall'epoca comunista si sono trovati di fronte a realtà economiche nuove che hanno lasciato i più poveri senza un lavoro. I Rom sono stati i primi a essere espulsi non in quanto gruppo etnico, ma perché non erano istruiti.

I Rom non vogliono una vita nomade, ma lavoro, dignità e cibo. La prossima generazione rischia di continuare a vivere in povertà non per la sua etnia, ma perché probabilmente ha entrambi i genitori disoccupati. Dobbiamo evitare che i Rom emigrino di nuovo per ragioni economiche come hanno fatto quando si sono diretti verso la Francia, il Regno Unito, l'Italia e molti altri paesi. Ma non sono stati soltanto i Rom: anche molte altre persone in difficoltà sono state costrette a lasciare il loro paese alla ricerca di un lavoro.

Perché è tanto importante sostenere le donne Rom?
Nelle aree più svantaggiate, due generazioni di Rom stanno crescendo senza vedere i genitori andare al lavoro. Questo vuol dire anche che sono le donne coloro che mentalmente e fisicamente coltivano la speranza. Sono un'antropologa e ho visto con i miei occhi quanto molto dipenda dal lavoro delle donne. Sono loro a assicurarsi che ogni giorno ci sia del cibo sul tavolo, sono loro a assicurare che vengano rispettati i diritti dei propri figli.

Sostenere le donne Rom è uno degli elementi chiave della nostra strategia. Dobbiamo accertarci che non avvengano più i matrimoni forzati e che si combatta contro l'abuso di droghe e la tratta di esseri umani.

Con la sua storia personale ha dimostrato che è possibile sconfiggere povertà e esclusione sociale. Cosa suggerirebbe a altri Rom che vogliono seguire il suo esempio?
La mia fortuna è stata l'istruzione. I miei genitori si sono trasferiti per evitare che fossimo messi in classi separate, soltanto per Rom. Hanno controllato che studiassimo abbastanza per essere ammessi in buone scuole. Comunque una delle cose più importanti che mi hanno dato è questo forte legame familiare e la nostra tradizione di accettarci l'uno con l'altro.

Io sono figlia di un matrimonio misto. Ho visto quello che hanno fatto i miei genitori per darci una vita migliore. Tutti noi, i miei fratelli e io, siamo andati all'università, grazie ai messaggi positivi trasmessi da mia madre e mio padre.

Ha mai sofferto sulla sua pelle la discriminazione?
Per me essere una Rom è una ricchezza, un elemento molto positivo.
Mio padre è sempre stato molto protettivo: non ho mai sentito nessun commento etnico a casa. Per noi era naturale essere Rom, ma prima di tutto ungheresi e europei.

Per mia sorella è stato diverso. È nata dieci anni dopo di me in un momento in cui il governo stava cambiando e si respiravano turbolenze economiche e tensioni sociali. Si stava creando un baratro tra Rom e non Rom, tra ricchi e poveri. Abbiamo iniziato a avvertire questa sensazione sulla nostra pelle.

Mi sono accorta all'università di quanto colleghi e amici non sapessero niente dei Rom e fossero completamente pieni di pregiudizi infondati. Ho capito così che dovevo fare qualcosa e mostrare che, oltre ai curriculum nazionali, al dialogo sociale e al lavoro nelle comunità Rom, era estremamente importante lavorare con i media.

Come potremmo creare fiducia e cooperazione reciproca?
I media hanno un ruolo molto importante, dovrebbero mostrare modelli di cooperazione tra Rom e non Rom. La crisi economica ha reso ancora più difficile combattere i pregiudizi. Il nostro compito dovrebbe essere quello di creare degli spazi per l'integrazione, come associazioni sportive miste, classi e luoghi di lavoro comuni. Poi abbiamo bisogno di una valida classe dirigente tra i Rom. Aspetto con ansia la nascita all'interno della società Rom di un approccio comune che venga dal basso.

Il rapporto sulla strategia europea per l'inclusione dei Rom dovrebbe essere votato dalla commissione per le libertà civili il 14 febbraio per poi arrivare in plenaria a marzo.

 
Di Fabrizio (pubblicato @ 09:31:45 in Italia, visitato 1688 volte)

Segnalazione di Alberto Maria Melis, che aggiunge: "Un bell'articolo, che dimostra come si può fare del buon giornalismo anche senza intingere la penna nel fango e nel sangue, semplicemente raccontando la verità che chiunque conosca personalmente i rom ha potuto toccare con mano."

Repubblica
Un anno fa in questo campo in un rogo era morto un bambino. Pneumatici e rifiuti abbandonati sono l'eredità di un vecchio sgombero - di BEPPE SEBASTE

La prima cosa che ci colpisce è il pudore. Poiché al mattino gli uomini sono tutti al lavoro, a venirci incontro è stato un nugolo di bambini, sorvegliati a vista e seguiti dalle madri, dai tre ai tredici anni. Sono curiosi e vivaci, e al tempo stesso protettivi. Tra tutti spicca Dario Valentino, undici anni: "Venite stasera, quando torna mio padre e gli altri uomini", ci ripete serio. Ci proibisce (ci prega di non farlo) di fotografare le case e le persone, cioè loro stessi. Colpisce la sua dignità, il volto serio nello sforzo di assumersi la responsabilità del campo. E' anche perfettamente consapevole del bello e del brutto. "Tutta questa zozzeria" - dice indicando una distesa di terra piena di detriti, e le carcasse arrugginite e bruciate di automobili, "non è nostra, l'abbiamo trovata qui". Ci dice il via vai di questi giorni di fotografi, che non hanno chiesto il permesso di scattare immagini a case e persone, come se fossero gabbie di uno zoo: "sono venuti a fotografare tutto e poi sono scappati".

Ci presentiamo. Siamo in un agglomerato di baracche nel quartiere della Magliana, racchiuse da canneti e pezzi di campagna sopravvissuta, chiusa da un lato dai palazzi che ospitano la Fao. Il sentiero che vi conduce da via Morselli è costellato di pneumatici e tracce di sgomberi recenti. Anche qui, un anno fa, un altro bambino morì bruciato per l'imperizia e la miseria, non questa volta dal riscaldamento, ma dalle candele. Sono rimaste famiglie bosniache di Sarajevo, da cui imparo che le tragedie della miseria accadono a quei rom che non hanno la sapienza pratica di altri, l'arte del sopravvivere. Nuovi poveri, per così dire. Con me e Francesca, fotografa, c'è Alessandro, un giovane antropologo che lavora con Arci Solidarietà nel vicino campo rom "regolare" di via Candoni: concepito per ospitare trecento persone, ne vivono più di mille, stipate dentro container di 18 metri quadrati. Alessandro aiuta le famiglie rom a sbrigare le pratiche sanitarie, scolastiche e sociali in genere. I bambini e le madri di questa baraccopoli di irregolari lo conoscono di vista, e si fidano poco alla volta di noi. Il fatto è che ci sentiamo in colpa a essere qui anche noi solo dopo l'ennesima tragedia che ha fatto notizia e suscitato clamore, a far visita e fotografare delle condizioni di vita, di vita nuda, come se le scoprissimo sempre per la prima volta, dimenticando che le abbiamo create noi, la nostra politica, e solo in seguito attribuite a "loro". Non solo il triste concetto di "campo", mi spiega il giovane antropologo volontario, è un'invenzione nostra, frutto di una logica di esclusione; ma anche all'estremo opposto la lirica adesione a un loro presunto e folcloristico stile di vita, a una loro presunta esigenza di separatezza.

Ci colpisce la serenità di questo scorcio di vita quotidiano di donne e bambini, e la tranquilla dignità delle donne e madri. "Ci portano di qui e di là come se fossimo giocattoli", dice una donna. Da uno sgombero all'altro, da una deportazione all'altra, la loro precarietà è una condanna, non una scelta. "Io vivo qui con mio padre, sono arrivata in Italia quando avevo 11 anni - mi dice un'altra che si definisce single, gonna verde con disegni fantasiosi, collana di perline, pendenti e un bracciale di corallo - vorrei lavorare, sono brava a fare le pulizie" - dice mostrandomi la baracca ordinata e accogliente sulla terra nuda e spazzolata: un letto, un fornelletto, un tavolino, due quadretti di "Roma sparita" appesi alle pareti fragili di legno, e un terzo che è un ritratto di padre Pio. Ma non sa leggere né scrivere, in nessuna lingua. Poi si siede all'aperto, in postura perfettamente eretta toglie il rame scorticando le guaine dei cavi elettrici e lo mette da parte. Sanno, a differenza di altri rom, che non bisogna bruciare il rame per non respirarne la diossina che sprigiona.

Tutte le baracche sono di legno, nessun uso di materiali nocivi, e dalle tettoie pendono le plastiche azzurre della Posta Italiana, con la scritta in bianco. In una, l'unica con l'impiantito pure di legno, tra i letti, i tappeti e le coperte dai colori festosi e sgargianti noto vicino alla porta una stufa circolare di metallo, saldature perfette, ma soprattutto una forma che sembra il frutto di un designer di grido. "L'ha fatta mio marito", dice la donna con orgoglio seguendo il mio sguardo. "Questa è sicura". E' una stufa a legno, davvero bella da guardare.

Dario Valentino, il ragazzo undicenne (che scopriamo essere il figlio del falegname e fabbro delle stufe), mentre attorniato dagli altri bambini costruisce con assi di legno, chiodi e un martello una piccola casetta per giocare, pone delle domande ad Alessandro come un grande, sul loro destino, se li sposteranno a via Candoni, che cosa siano le fantomatiche "case popolari", e chi ci può andare. Non è facile spiegare a bambini dagli occhi sgranati, che aspirerebbero ad avere una casa normale, cosa siano e chi abbia diritto alle case popolari, e perché. Intanto si sono avvicinate ad ascoltare alcune donne. Quando nominiamo il Cei (Centro di identificazione e espulsione), la madre di Dario Valentino, che sembrava disinteressata ai nostri discorsi, si affaccia dalla sua baracca per esclamare, seria: "Là non ci voglio andare neanche morta". Tutti qui hanno un regolare permesso di soggiorno, tutti vorrebbero che i loro figli andassero a scuola, vorrebbero una normale assistenza sanitaria, tutto ciò che per noi è così normale che ci dimentichiamo di averlo. Ignoro quali siano i criteri per l'attribuzione, ma una cosa è certa: i nomadi, come li chiamiamo, non sono nomadi, la loro origine è spesso contadina, e il lavoro degli uomini si relaziona con la realtà della metropoli, non in un mondo separato.

"Questa potete fotografarla", ci propongono fieri dopo avere finito la loro capanna di legno. Adesso i bambini, quelli più piccoli a piedi nudi, sono contenti di mostrarci quante più cose possibili, felici della nostra attenzione. Fotografiamo Lisa, il boxer femmina, Bambi, una pecora compagna di giochi dei bimbi. Siamo incantati dalla loro creatività e dalla loro gentilezza. La piccola Samantha, una biondina sempre sorridente, corre e grida di gioia quando diciamo che torneremo a portarle dei vestiti. "Anche delle scarpine", ci dice da lontano.

(11 febbraio 2011)

 
Di Fabrizio (pubblicato @ 09:13:18 in Europa, visitato 1695 volte)

Ho scritto di recente dei rimpatri forzati di Rom kosovari dalla Germania. Da qualche anno politiche simili si verificano anche in Svizzera, Austria, Benelux e Svezia. Da quest'ultimo paese mi arriva la lettera che riporto qua sotto.

Caro Fabrizio

ti scrivo augurandomi che tu possa fare qualcosa, riguardo la deportazione dalla Svezia dei rom kosovari. Da tempo i rom sono mandati verso il Kosovo senza nessuna sicurezza di essere accolti oppure assistiti nel paese di provenienza.

Ho letto l'articolo sulle famiglie rom deportate dalla Germania, scritto sempre sulle tue pagine, è vero che nessuno se ne frega dei rom quando arrivano nella loro maledetta destinazione, sono lasciti alla loro sorte, credetemi per niente buona, nessuna assistenza, né previdenza sociale o assistenza medica, ed infine non sanno dove e come chiedere aiuto, la maggioranza di loro non sono nemmeno iscritti all'anagrafe.

Spero che l'Unione Europea faccia qualche mossa per fermare, questo quasi genocidio di oggi. Sapendo che le dichiarazioni delle bande criminali che guidano il paese, qualcuno controlli meglio, che tutti coloro che alcuni paesi della EU mandano in Kosovo, vengano ben accettati e accolti non sono affatto vere, e sonno lasciati alla loro cattiva sorte.

Per non essere italiano mi auguro di essermi spiegato bene e che mi abbiate capito, perché il traduttore di google ha tradotto questa mia lettera.

Cordiali saluti da Mauro - bajrami162009@hotmail.com

 

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