Di seguito gli articoli e le fotografie pubblicati nella giornata richiesta.
Articoli del 15/02/2011
Segnalazione da
Evangelici.net
Repubblica.it
Nei cinque campi di Bologna ci sono 300 sinti, 250 i rom invisibili. Viaggio
negli accampamenti di Bologna dove la vita, nonostante le difficoltà può anche
sorridere. Come?
Chiedetelo a Mary che si è trasferita per amore
di LUIGI SPEZIA
Sinti, non rom, ma la paura non fa differenze, non guarda in faccia nessuno. Nei
campi nomadi - via Peglion, via Erbosa, via Dozza alle Due Madonne, via
Persicetana - vivono i sinti italiani non i rom romeni o bosniaci, che dopo i
grandi sgomberi degli anni scorsi sono ancora oltre 200, ma sono sparpagliati e
invisibili, in fuga dai vigili e senza cittadinanza. La morte dei quattro
bambini rom, soffocati tra le fiamme a Roma, ha trasmesso i brividi anche ai
250-300 abitanti sinti che vivono ai margini della città, tra scarso lavoro,
diffidenze, guai e legittime richieste di essere trattati da cittadini di serie
A. "Ma qui basta una scintilla e prende fuoco tutto" .
"Viviamo in questo campo che doveva rimanere provvisorio per sei mesi e invece è
provvisorio da vent'anni - tuona Matteo Bellinati, uno dei leader di via Erbosa
-. Ci avevano promesso di trasformare questa ammucchiata di roulotte in una
micro-area, ma i soldi ogni anno il Comune li investe altrove. Se qui in piena
notte prende fuoco una di queste roulotte, va a fuoco tutto, capito? Sono una
attaccata all'altra, non è regolare niente".
Vent'anni non è una cifra a caso. I Bellinati - con loro c'è anche un gruppo
della famiglia Orfei - sono i parenti di quel Rodolfo preso nel mirino di
Roberto e Fabio Savi, quando, con i loro Ar 70 e Sig Manurhin, il 23 dicembre
1990 spazzarono di piombo il campo abusivo di via Gobetti e lasciarono feriti e
un'altra vittima, Patrizia Della Santina. Dopo la strage, il gruppo era sciamato
per la regione, "il sindaco Imbeni ci chiese di tornare, ci ha piazzati qui ma
dopo non è successo più nulla". Il campo è infossato fra tre massicciate
ferroviarie e sorvolato dai fili di un traliccio dell'alta tensione. "Come si
può vivere qua - continua un altro Bellinati che di nome fa Antonio -? I nostri
venti bambini vanno a scuola, ma qui soffriamo di mal di testa e agli occhi, non
dicono che dai tralicci bisogna star distanti settanta metri? Le roulotte sono
riscaldate con stufette elettriche. Se scoppia un incendio di notte non si salva
nessuno, la plastica di queste nostre case è come benzina". E come benzina ha
preso fuoco ieri sera una parte di roulotte senza altre conseguenze, con
intervento dei vigili del fuoco, al campo del Bargellino, certamente meglio
attrezzato di quello di via Erbosa. Alcuni bambini bruciavano legna all'esterno.
L'accampamento migliore è quello di via Dozza alle Due Madonne. Lì vive
l'"aristocrazia" nomade e c'è anche una chiesetta in muratura degli Evangelici
Pentecostali, che hanno convertito decine di sinti, le cui anime sono curate da
pastori, sempre sinti. "Ma non curano il corpo, purtroppo - dice un residente -:
io raccolgo ferro con il furgone, non c'è altro lavoro. Qui il villaggio è
bello, sì, ma manca il lavoro". Qui ogni gruppo familiare ha un cortile tutto
suo dove campeggia il fabbricato delle cucine e dei bagni e attorno le varie
roulotte. "Ma le cucine e i bagni sono stati lasciati aperti, non danno il
permesso per chiuderli e d'inverno non è proprio il massimo".
Oltre le Due Madonne c'è l'insediamento di Idice, Comune di San Lazzaro. Il bus
giallo della scuola scarica i bambini, in mezzo al grande prato centrale gli
adulti stanno festeggiando un compleanno, c'è il baffuto Franco che stende
spiedini di pecora sul fuoco. Qui abita Giuseppe Bonora, 64 anni, detto "il
bimbo", coordinatore dell'Opera Nomadi dell'Emilia Romagna: "Abbiamo chiesto più
di una volta un incontro con il sindaco Macciantelli, ma non l'abbiamo ancora
avuto. Qui siamo ancora ad una favelas, non alle micro-aree. In tutti i comuni
dell'Emilia Romagna non fanno più aree di transito e di sosta. E siamo italiani.
Da noi non cresce nemmeno l'erba, chissà cosa ci hanno messo qua sotto". Bonora
ci tiene a dire che tutti i 15 bimbi del campo vanno a scuola, "nessuno va a
chiedere l'elemosina, eh? Gli adulti raccolgono ferro, o fanno spettacoli
viaggianti e poi magari c'è anche chi fa cose non belle. Ma bisogna pur dire che
una mano non ce la dà nessuno".
Se il campo disastrato di via Erbosa è circondato da tre ferrovie, quello
piccolo della famiglia Gallieri in via Peglion ha vista sul guardrail dell'A14.
Un campo che è stato trasferito in loco per tre volte, anche l'ultimo pezzo di
terra acquistato dalla famiglia per abitarci è stato espropriato dal Comune "e
io - dice Antonio Gallieri, che a 58 anni ha 9 figli, 18 nipoti e 3 pronipoti -
ho fatto una causa alla Corte europea. Ho avuto venti processi contro di me, ora
ce n'è ho uno "Gallieri contro lo Stato"".
Non ci sono solo i campi. Dappertutto ci sono le famiglie isolate, soprattutto
rom, anche dentro luoghi abbandonati come l'ex Casaralta o l'ex Cevolani. In via
Biancolelli, a Borgo Panigale, ecco una roulotte di sinti che non trovano posto
in via Persicetana, con tre bimbi che vanno alle elementari: "Abbiamo chiesto
casa due anni fa al Comune, non l'abbiamo ancora", dice Adriano Bonora. Lì
accanto una vecchia roulotte di rom, il capofamiglia è Brahim Husovic, calderas
bosniaco. La moglie è incinta, ha sei figli stipati dentro quel cubo fatiscente,
la più grande ha 18 anni. "Mio nonno viveva al Casilino 900", racconta
riferendosi alla tragedia di Roma. "Da Roma ho dovuto scappare". Storie che si
intrecciano. "I rom oggi sono circa 250 a Bologna, compresi quelli ai semafori -
dice Dimitris Argiropoulos, attivista della Federazione Romanì -. Stanno
nascosti". Due famiglie vivono tra le frasche del giardino del Baraccano.
Blog di
Casa della Poesia
A proposito della "questione rom", oggi tragicamente
agli onori della
cronaca, per conoscere e capire, una delle poesie più famose del grande Paul Polansky:
The well, in italiano Il pozzo.
Leggi e ascolta anche la
versione originale!
Il pozzo
Mi presero al mercato
dove la mia gente una volta vendeva vestiti,
e dove ora gli albanesi praticano il contrabbando.
Quattro uomini mi gettarono sul sedile posteriore
di una Lada blu, urlando "Lo abbiamo detto,
niente zingari a Pristina."
Mentre mi spingevano giù sul fondo,
sentivo la canna della pistola sull’orecchio sinistro. Era così fredda
che sussultai proprio mentre qualcuno premette il grilletto.
Il sangue mi schizzò su un lato della faccia
dalla ferita sulla spalla.
Caddi, fingendomi morto.
Pregai la mia amata madre morta, tutti i
mulos*, affinché questi uomini non si accorgessero da dove
fuoriusciva il sangue. Quando arrivammo,
mi tirarono fuori per i piedi. La testa si schiantò
sul terreno, rimbalzando sulle pietre.
Mi gettarono a testa in giù in un pozzo.
Non raggiunsi mai l’acqua.
C’erano troppi corpi.
Giacevo rannicchiato, quasi incosciente
finché la puzza e il bruciore della calce viva
non mi fecero rinvenire.
Trattenni il fiato finché non sentii
ripartire la macchina, ma poi soffocai
per il fetore che mi circondava.
Con una sola mano, mi trascinai
aggrappandomi a gambe rigide
che mi fecero da scala per arrampicarmi.
La faccia, le mani, tutto il mio corpo
bruciava per la calce. Usai dell’erba
per pulire quello che potevo,
poi barcollai giù per una strada sporca
verso una lunga fila
di luci che si muovevano lentamente.
Venti minuti più tardi ero sull’autostrada
guardando i camion e le jeep verde oliva,
che mi passavano accanto come se fossi un palo del telefono.
Alla fine crollai davanti a due fari.
Non so dire se l’ultimo rumore che sentii
fu uno stridio o un grido.
Il giorno dopo in un ospedale militare
qualcuno della Nato mi interrogò per alcuni minuti.
L’interprete albanese fece sorridere i soldati.
A mezzogiorno stavo camminando
attraverso un bosco seguendo un sentiero per carri
che nessuno usa più,
tranne gli zingari
che fuggono da un paese
in cui hanno vissuto
per quasi
settecento anni.
* Mulos: spiriti di zingari defunti a cui non è stato
ancora concesso di entrare nel regno dei morti.
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Fotografie del 15/02/2011
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