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Di seguito gli articoli e le fotografie pubblicati nella giornata richiesta.
Articoli del 27/11/2009
Da
Hungarian_Roma (con un
link per chi conosce un po' d'inglese)
TheBudapestTime.hu by Alice Müller
Sabato, 21 novembre 2009 - Un villaggio vicino al confine ungherese con una
popolazione di 200 abitanti e affetto da disoccupazione e povertà, si sta
preparando a diventare un'attrazione turistica. No, non si tratta di turismo del
disastro. Il villaggio spera di attrarre turisti con i suoi murales. Ispirati
alla rabbia.
"Due anni fa vidi in televisione la Guardia Ungherese marciare davanti al
palazzo di Sólyom. La totale ignoranza ed intolleranza di quella gente mi rese
così furioso che la rabbia mi portò a questo," dice Eszter Pásztor,
iniziatrice del progetto "Freszkófalu". Pásztor è arrivata all'idea di un
villaggio di affreschi per quello che aveva visto in villaggi egiziani che
vivevano di turismo. La possibilità che i turisti vengano a Bodvalenke non è per
niente irragionevole.
La rete di caverne Aggtelek è a meno di 20 km., e non lontano dal villaggio
c'è una strada gotica con un diverse chiese attrattive. Proprio ai margini del
villaggio inizia una palude con rari animali e specie di piante. Attualmente si
stanno completando i programmi per i percorsi turistici attraverso la Grande
Pianura.
Povertà zingara
"Quando arrivammo in questa -Ungheria da terzo mondo- e preparavamo da
mangiare nella cucina dell'ufficio, i bambini del villaggio si allineavano di
fronte alla nostra finestra per vederci mangiare. Comprendemmo che un gran
numero di bambini avevano fame, mentre gli altri erano gonfi, ma completamente
malnutriti," ricorda Pásztor. "Se vuoi davvero combattere la povertà, allora
devi attaccarla da tutti i fronti," aggiunge. Dei 200 residenti del villaggio,
il 58% sono Zingari, ma la percentuale schizza se si guarda la popolazione con
meno di 60 anni: i non-Rom sono solo l'8% della popolazione del villaggio sotto
i 60 anni.
Su tutta la popolazione del villaggio, ci sono due persone con lavori
regolari: uno nell'ufficio del governo locale e l'altro in una succursale di una
clinica. Due donne del villaggio impiegate in una fabbrica di vestiti, hanno
perso il loro lavoro quando la ditta si è spostata in Ucraina perché là ci sono
oneri salariali più bassi. E' davvero sorprendente che il reddito medio è di
soli 16.000 fiorini (59 €u.). Come risultato a malapena ci si può permettere
l'autobus verso il villaggio vicino.
Ottenere vantaggi
L'unico negozio del villaggio sfrutta la situazione vendendo al doppio del
prezzo normale.
Il fenomeno degli usurai è fin troppo facile da comprendere in un simile
retroscena. Non stupisce che non tutti non sono contenti del progetto, che
minaccia di portar via loro dei clienti.
Resistenze da superare
Ma ci sono anche altri ostacoli da superare. "All'inizio, nel marzo 2009, non
è stato facile. Non volevo e non potevo iniziare a cercare i finanziamenti prima
del beneplacito del villaggio. La reazione iniziale di molti residenti è stata:
"Non puoi dipingere la mia parete." "Poi, alcuni dell'assemblea del villaggio
hanno ricordato che c'era un tale János che aveva un cavallo ed un carro che si
potevano usare per trasportare i turisti, mentre una donna di nome Zsusza
avrebbe potuto cuocere il vakaró (focaccia tradizionale) per gli ospiti, ed il
resto è seguito a valanga."
Attualmente non ci sono infrastrutture per i turisti; ristoranti, ostelli e
campeggi esistono solo nell'immaginazione, perché non c'è mai stata l'esigenza
di migliorare le infrastrutture per i residenti. Diverse famiglie del villaggio
sono già state in grado di trasferirsi dalle case a rischio di crollo o senza
riscaldamento, in case ristrutturate nel centro del villaggio.
Già questa è stata una piccola rivoluzione sociale, dato che nel centro
villaggio vive la popolazione di etnia ungherese, che non voleva dei Rom in
questa parte "pulita". I ragazzi vengono a giocare e fare i compiti
nell'ufficio. Nel retro c'è persino un'azienda agricola per i bambini, dove
prendersi cura di conigli, lepri e due capre. La squadra di quattro operatori
sociali assieme a Pásztor assiste i residenti del villaggio nella nutrizione e
nelle visite ai pubblici uffici.
L'arte
Pareti dipinte dai 10 ai 25 metri decorano il villaggio.
La Fondazione Laboratorio Culturale Europeo ha finanziato i creatori di
questi lavori, tutti Rom, tramite una competizione nazionale. Perché non è stato
approcciato nessun artista ungherese? "Hanno avuto le possibilità di esibirsi.
Non si tratta di questo," dice asciutta Pásztor. Il progetto infatti significa
molto di più: è sulla cultura rom, spesso disprezzata in Ungheria e messa in
primo piano. Alcuni affreschi presentano leggende zingare, ma rimarranno un
mistero per molti visitatori se nessuno le spiegherà.
Così un tour dei dipinti apre un mondo unico di immaginazione, per esempio,
la credenza che originariamente i Rom volassero per aria come uccelli. Come
risultato di una ricca festa, le ali ali diventano braccia, e da allora in poi
hanno viaggiato a piedi. O che la luna ed il sole siano stati rubati da un
mostro e liberati da due suonatori di tromba:uno trasportò la luna diventando
sempre più pallido fino a divenire l'uomo nella luna, mentre l'altro che
trasportò il sole ne fu bruciato - diventando con la sua pelle scura l'antenato
degli zingari. Ma vengono rappresentati anche argomenti attuali: la striscia di
uccisioni di Rom l'anno scorso è il motivo di un affresco nel centro del
villaggio.
Ancora da fare
Camminare con Pásztor per Bodvalenke fornisce un'idea di che cosa si
prospetta avanti. La fontana della piazza del villaggio sarà adornata con un
drago che verrà dipinto una volta l'anno da residenti ed ospiti, in occasione
del festival di primavera. Pásztor spiega come un cortile semi abbandonato
diventerà un giardino con uno spazio per i falò. Un edificio in abbandono
diventerà un negozio di oggetti costruiti dagli abitanti, come cesti intessuti e
gioielli.
Tuttavia, ci sono ancora da sviluppare accordi di cooperazione con i villaggi
attorno, e con gli operatori turistici sulle possibili offerte. La speranza che
il villaggio possa reggersi sulle sue gambe è visibile sulle facce di molti dei
suoi abitanti.
Donazioni
European Workshop Cultural Society, 1121 Budapest,Konkoly- Thege M. út 50.
Registry number: 9511
Account number:
Unicredit Bank
10918001-00000046- 61280007
Di Fabrizio (pubblicato @ 09:39:02 in media, visitato 2186 volte)
Corriere.it Dal Sudafrica all’Italia di oggi, la paura del diverso genera
intolleranza di Gian Antonio Stella - 25 novembre 2009
«A l centro del mondo», dicono certi vecchi di Rialto, «ghe semo
noialtri: i venessiani de Venessia. Al de là del ponte de la Libertà, che porta
in terraferma, ghe xè i campagnoli, che i dise de esser venessiani e de parlar
venessian, ma no i xè venessiani: i xè campagnoli».
«Al de là dei campagnoli ghe xè i foresti: comaschi, bergamaschi,
canadesi, parigini, polacchi, inglesi, valdostani... Tuti foresti. Al de là
dell’Adriatico, sotto Trieste, ghe xè i sciavi: gli slavi. E i xingani: gli
zingari. Sotto el Po ghe xè i napo’etani. Più sotto ancora dei napo’etani ghe xè
i mori: neri, arabi, meticci... Tutti mori». Finché a Venezia, restituendo
la visita compiuta secoli prima da Marco Polo, hanno cominciato ad arrivare i
turisti orientali. Prima i giapponesi, poi i coreani e infine i cinesi. A quel
punto, i vecchi veneziani non sapevano più come chiamare questa nuova gente.
Finché hanno avuto l’illuminazione. E li hanno chiamati: «i sfogi». Le sogliole.
Per la faccia gialla e schiacciata.
Questa idea di essere al centro del mondo, in realtà, l’abbiamo dentro
tutti. Da sempre. Ed è in qualche modo alla base, quando viene stravolta e
forzata, di ogni teoria xenofoba. Tutti hanno teorizzato la loro centralità.
Tutti. A partire da quelli che per i veneziani vivono all’estrema
periferia del pianeta: i cinesi. I quali, al contrario, come dicono le parole
stesse «Impero di mezzo», sono assolutamente convinti, spiega l’etnografo russo
Mikhail Kryukov, da anni residente a Pechino e autore del saggio Le origini
delle idee razziste nell’antichità e nel Medioevo, non ancora tradotto in
Italia, che il loro mondo sia «al centro del Cielo e della Terra, dove le forze
cosmiche sono in piena armonia».
Č una fissazione, la pretesa di essere il cuore dell’«ecumene», cioè
della terra abitata. Gli ebrei si considerano «il popolo eletto», gli egiziani
sostengono che l’Egitto è «Um ad-Dunia» cioè «la madre del mondo», gli indiani
sono convinti che il cuore del pianeta sia il Gange, i musulmani che sia la Ka’ba
alla Mecca, gli africani occidentali che sia il Kilimangiaro. Ed è così da
sempre. I romani vedevano la loro grande capitale come caput mundi e gli antichi
greci immaginavano il mondo abitato come un cerchio al centro del quale, «a metà
strada tra il sorgere e il tramontare del sole», si trovava l’Ellade e al centro
dell’Ellade Delfi e al centro di Delfi la pietra dell’ omphalos , l’ombelico del
mondo.
Il guaio è quando questa prospettiva in qualche modo naturale si traduce
in una pretesa di egemonia. Di superiorità. Di eccellenza razziale. Quando
pretende di scegliersi i vicini. O di distribuire patenti di «purezza» etnica.
Mario Borghezio, ad esempio, ha detto al Parlamento europeo, dove è da anni la
punta di diamante della Lega Nord, di avere una spina nel cuore: «L’utopia di
Orania, il piccolo fazzoletto di terra prescelto da un pugno di afrikaner come
nuova patria indipendente dal Sudafrica multirazziale, ormai reso invivibile dal
razzismo e dalla criminalità dei neri, è un esempio straordinario di amore per
la libertà di preservazione dell’identità etnoculturale».
Anche in Europa, ha suggerito, «si potrebbe seguire l’esempio di questi
straordinari figli degli antichi coloni boeri e 'ricolonizzare' i nostri
territori ormai invasi da gente di tutte le provenienze, creando isole di
libertà e di civiltà con il ritorno integrale ai nostri usi e costumi e alle
nostre tradizioni, calpestati e cancellati dall’omologazione mondialista. Ho già
preso contatti con questi 'costruttori di libertà' perché il loro sogno di
libertà è certo nel cuore di molti, anche in Padania, che come me non si
rassegneranno a vivere nel clima alienante e degradato della società
multirazziale». La «società multirazziale»? Ma chi l’ha creata, in Sudafrica, la
«società multirazziale»? I neri che sono sopravvissuti alla decimazione dei
colonialisti bianchi e sono tornati da un paio di decenni a governare
(parzialmente) quelle che erano da migliaia di anni le loro terre? O i bianchi
arrivati nel 1652, cioè poco meno di due millenni più tardi rispetto allo
sfondamento nella Pianura Padana dei romani che quelli come Borghezio ritengono
ancora oggi degli intrusi colonizzatori, al punto che Umberto Bossi vorrebbe che
il «mondo celtico ricordasse con un cippo, a Capo Talamone » la battaglia che
«rese i padani schiavi dei romani»? Niente sintetizza meglio un punto: il
razzismo è una questione di prospettiva. (...) Non si capiscono i cori negli
stadi contro i giocatori neri, il dilagare di ostilità e disprezzo su Internet,
il risveglio del demone antisemita, le spedizioni squadristiche contro gli
omosessuali, i rimpianti di troppi politici per «i metodi di Hitler», le
avanzate in tutta Europa dei partiti xenofobi, le milizie in divisa paranazista,
i pestaggi di disabili, le rivolte veneziane contro gli «zingari» anche se sono
veneti da secoli e fanno di cognome Pavan, gli omicidi di clochard bruciati per
«ripulire» le città e gli inni immondi alla purezza del sangue, se non si parte
dall’idea che sta manifestandosi una cosa insieme nuovissima e vecchissima. Dove
l’urlo «Andate tutti a ’fanculo: negri, froci, zingari, giudei co!», come capita
di leggere sui muri delle città italiane e non solo, è lo spurgo di una società
in crisi. Che ha paura di tutto e nel calderone delle sue insicurezze mette
insieme tutto: la crisi economica, i marocchini, i licenziamenti, gli scippi, i
banchieri ebrei, i campi rom, gli stupri, le nuove povertà, i negri, i pidocchi
e la tubercolosi che «era sparita prima che arrivassero tutti quegli
extracomunitari ». Una società dove i più fragili, i più angosciati, e quelli
che spudoratamente cavalcano le paure dei più fragili e dei più angosciati,
sospirano sognando ognuno la propria Orania. Una meravigliosa Orania ungherese
fatta solo di ungheresi, una meravigliosa Orania slovacca fatta solo di
slovacchi, una meravigliosa Orania fiamminga fatta solo di fiamminghi, una
meravigliosa Orania padana fatta solo di padani.
Ma che cos’è, Orania? Č una specie di repubblichina privata fondata nel
1990, mentre Nelson Mandela usciva dalla galera in cui era stato cacciato oltre
un quarto di secolo prima, da un po’ di famiglie boere che non volevano saperne
di vivere nella società che si sarebbe affermata dopo la caduta dell’apartheid.
Niente più panchine nei parchi vietate ai neri, niente più cinema vietati ai
neri, niente più autobus vietati ai neri, niente più ascensori vietati ai neri e
così via. (...) «Il genocidio dei boeri»: titolano oggi molti siti olandesi
denunciando le aggressioni ai bianchi da parte di bande criminali di colore
gonfie di odio razziale che da Durban a Johannesburg sono responsabili dal 1994
al 2009, secondo il quotidiano «Reformatorisch Dagblad », di oltre tremila
omicidi. Il grande paradosso sudafricano, quello che mostra come la bestia
razzista possa presentarsi sotto mille forme, è qui. I boeri, protagonisti di
tante brutalità contro le popolazioni indigene e oggi vittime di troppe
vendette, sono gli stessi boeri che furono vittime del primo vero genocidio del
XX secolo. Perpetrato dagli inglesi che volevano liberarsi di quei bianchi
africani nati da un miscuglio di olandesi, francesi, tedeschi... (...) Č tutto,
la memoria: tutto. Č impossibile parlare del razzismo di oggi se non si ricorda
il razzismo di ieri. Sull’uno e sull’altro fronte. Non puoi raccontare gli
assalti ai campi rom se non ricordi secoli di pogrom, massacri ed editti da
Genova allo Jutland, dove l’11 novembre 1835 organizzarono addirittura, come si
trattasse di fagiani, una grande caccia al gitano. Caccia che, come scrivono
Donald Kenrick e Grattan Puxon ne Il destino degli zingari, «fruttò
complessivamente un 'carniere' di oltre duecentosessanta uomini, donne e
bambini». Non puoi raccontare della ripresa di un crescente odio antiebraico,
spesso mascherato da critica al governo israeliano (critica, questa sì,
legittima) senza ricordare quanto disse Primo Levi in una lontana intervista al
«Manifesto»: «L’antisemitismo è un Proteo». Può assumere come Proteo una forma o
un’altra, ma alla fine si ripresenta. E va riconosciuto sotto le sue nuove
spoglie. Così com’è impossibile capire il razzismo se non si ricorda che ci sono
tanti razzismi. Anche tra bianchi e bianchi, tra neri e neri, tra gialli e
gialli...
Fotografie del 27/11/2009
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