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Articoli del 27/11/2009

Di Fabrizio (pubblicato @ 09:49:19 in Europa, visitato 2370 volte)

Da Hungarian_Roma (con un link per chi conosce un po' d'inglese)

TheBudapestTime.hu by Alice Müller

Sabato, 21 novembre 2009 - Un villaggio vicino al confine ungherese con una popolazione di 200 abitanti e affetto da disoccupazione e povertà, si sta preparando a diventare un'attrazione turistica. No, non si tratta di turismo del disastro. Il villaggio spera di attrarre turisti con i suoi murales. Ispirati alla rabbia.

"Due anni fa vidi in televisione la Guardia Ungherese marciare davanti al palazzo di Sólyom. La totale ignoranza ed intolleranza di quella gente mi rese così furioso che la rabbia mi portò a questo," dice Eszter Pásztor, iniziatrice del progetto "Freszkófalu". Pásztor è arrivata all'idea di un villaggio di affreschi per quello che aveva visto in villaggi egiziani che vivevano di turismo. La possibilità che i turisti vengano a Bodvalenke non è per niente irragionevole.

La rete di caverne Aggtelek è a meno di 20 km., e non lontano dal villaggio c'è una strada gotica con un diverse chiese attrattive. Proprio ai margini del villaggio inizia una palude con rari animali e specie di piante. Attualmente si stanno completando i programmi per i percorsi turistici attraverso la Grande Pianura.

Povertà zingara

"Quando arrivammo in questa -Ungheria da terzo mondo-  e preparavamo da mangiare nella cucina dell'ufficio, i bambini del villaggio si allineavano di fronte alla nostra finestra per vederci mangiare. Comprendemmo che un gran numero di bambini avevano fame, mentre gli altri erano gonfi, ma completamente malnutriti," ricorda Pásztor. "Se vuoi davvero combattere la povertà, allora devi attaccarla da tutti i fronti," aggiunge. Dei 200 residenti del villaggio, il 58% sono Zingari, ma la percentuale schizza se si guarda la popolazione con meno di 60 anni: i non-Rom sono solo l'8% della popolazione del villaggio sotto i 60 anni.

Su tutta la popolazione del villaggio, ci sono due persone con lavori regolari: uno nell'ufficio del governo locale e l'altro in una succursale di una clinica. Due donne del villaggio impiegate in una fabbrica di vestiti, hanno perso il loro lavoro quando la ditta si è spostata in Ucraina perché là ci sono oneri salariali più bassi. E' davvero sorprendente che il reddito medio è di soli 16.000 fiorini (59 €u.). Come risultato a malapena ci si può permettere l'autobus verso il villaggio vicino.

Ottenere vantaggi

L'unico negozio del villaggio sfrutta la situazione vendendo al doppio del prezzo normale.

Il fenomeno degli usurai è fin troppo facile da comprendere in un simile retroscena. Non stupisce che non tutti non sono contenti del progetto, che minaccia di portar via loro dei clienti.

Resistenze da superare

Ma ci sono anche altri ostacoli da superare. "All'inizio, nel marzo 2009, non è stato facile. Non volevo e non potevo iniziare a cercare i finanziamenti prima del beneplacito del villaggio. La reazione iniziale di molti residenti è stata: "Non puoi dipingere la mia parete." "Poi, alcuni dell'assemblea del villaggio hanno ricordato che c'era un tale János che aveva un cavallo ed un carro che si potevano usare per trasportare i turisti, mentre una donna di nome Zsusza avrebbe potuto cuocere il vakaró (focaccia tradizionale) per gli ospiti, ed il resto è seguito a valanga."

Attualmente non ci sono infrastrutture per i turisti; ristoranti, ostelli e campeggi esistono solo nell'immaginazione, perché non c'è mai stata l'esigenza di migliorare le infrastrutture per i residenti. Diverse famiglie del villaggio sono già state in grado di trasferirsi dalle case a rischio di crollo o senza riscaldamento, in case ristrutturate nel centro del villaggio.

Già questa è stata una piccola rivoluzione sociale, dato che nel centro villaggio vive la popolazione di etnia ungherese, che non voleva dei Rom in questa parte "pulita". I ragazzi vengono a giocare e fare i compiti nell'ufficio. Nel retro c'è persino un'azienda agricola per i bambini, dove prendersi cura di conigli, lepri e due capre. La squadra di quattro operatori sociali assieme a Pásztor assiste i residenti del villaggio nella nutrizione e nelle visite ai pubblici uffici.

L'arte

Pareti dipinte dai 10 ai 25 metri decorano il villaggio.

La Fondazione Laboratorio Culturale Europeo ha finanziato i creatori di questi lavori, tutti Rom, tramite una competizione nazionale. Perché non è stato approcciato nessun artista ungherese? "Hanno avuto le possibilità di esibirsi. Non si tratta di questo," dice asciutta Pásztor. Il progetto infatti significa molto di più: è sulla cultura rom, spesso disprezzata in Ungheria e messa in primo piano. Alcuni affreschi presentano leggende zingare, ma rimarranno un mistero per molti visitatori se nessuno le spiegherà.

Così un tour dei dipinti apre un mondo unico di immaginazione, per esempio, la credenza che originariamente i Rom volassero per aria come uccelli. Come risultato di una ricca festa, le ali ali diventano braccia, e da allora in poi hanno viaggiato a piedi. O che la luna ed il sole siano stati rubati da un mostro e liberati da due suonatori di tromba:uno trasportò la luna diventando sempre più pallido fino a divenire l'uomo nella luna, mentre l'altro che trasportò il sole ne fu bruciato - diventando con la sua pelle scura l'antenato degli zingari. Ma vengono rappresentati anche argomenti attuali: la striscia di uccisioni di Rom l'anno scorso è il motivo di un affresco nel centro del villaggio.

Ancora da fare

Camminare con Pásztor per Bodvalenke fornisce un'idea di che cosa si prospetta avanti. La fontana della piazza del villaggio sarà adornata con un drago che verrà dipinto una volta l'anno da residenti ed ospiti, in occasione del festival di primavera. Pásztor spiega come un cortile semi abbandonato diventerà un giardino con uno spazio per i falò. Un edificio in abbandono diventerà un negozio di oggetti costruiti dagli abitanti, come cesti intessuti e gioielli.

Tuttavia, ci sono ancora da sviluppare accordi di cooperazione con i villaggi attorno, e con gli operatori turistici sulle possibili offerte. La speranza che il villaggio possa reggersi sulle sue gambe è visibile sulle facce di molti dei suoi abitanti.

Donazioni

European Workshop Cultural Society, 1121 Budapest,Konkoly- Thege M. út 50.
Registry number: 9511
Account number:
Unicredit Bank
10918001-00000046- 61280007

 
Di Fabrizio (pubblicato @ 09:39:02 in media, visitato 2186 volte)

Corriere.it Dal Sudafrica all’Italia di oggi, la paura del diverso genera intolleranza di Gian Antonio Stella - 25 novembre 2009

«A l centro del mondo», dicono certi vecchi di Rialto, «ghe semo noialtri: i venessiani de Venessia. Al de là del ponte de la Libertà, che porta in terraferma, ghe xè i campagnoli, che i dise de esser venessiani e de parlar venessian, ma no i xè venessiani: i xè campagnoli».

«Al de là dei campagnoli ghe xè i foresti: comaschi, bergamaschi, canadesi, parigini, polacchi, inglesi, valdostani... Tuti foresti. Al de là dell’Adriatico, sotto Trieste, ghe xè i sciavi: gli slavi. E i xingani: gli zingari. Sotto el Po ghe xè i napo’etani. Più sotto ancora dei napo’etani ghe xè i mori: neri, arabi, meticci... Tutti mori». Finché a Venezia, restituendo la visita compiuta secoli prima da Marco Polo, hanno cominciato ad arrivare i turisti orientali. Prima i giapponesi, poi i coreani e infine i cinesi. A quel punto, i vecchi veneziani non sapevano più come chiamare questa nuova gente. Finché hanno avuto l’illuminazione. E li hanno chiamati: «i sfogi». Le sogliole. Per la faccia gialla e schiacciata.

Questa idea di essere al centro del mondo, in realtà, l’abbiamo dentro tutti. Da sempre. Ed è in qualche modo alla base, quando viene stravolta e forzata, di ogni teoria xenofoba. Tutti hanno teorizzato la loro centralità.

Tutti. A partire da quelli che per i veneziani vivono all’estrema periferia del pianeta: i cinesi. I quali, al contrario, come dicono le parole stesse «Impero di mezzo», sono assolutamente convinti, spiega l’etnografo russo Mikhail Kryukov, da anni residente a Pechino e autore del saggio Le origini delle idee razziste nell’antichità e nel Medioevo, non ancora tradotto in Italia, che il loro mondo sia «al centro del Cielo e della Terra, dove le forze cosmiche sono in piena armonia».

Č una fissazione, la pretesa di essere il cuore dell’«ecumene», cioè della terra abitata. Gli ebrei si considerano «il popolo eletto», gli egiziani sostengono che l’Egitto è «Um ad-Dunia» cioè «la madre del mondo», gli indiani sono convinti che il cuore del pianeta sia il Gange, i musulmani che sia la Ka’ba alla Mecca, gli africani occidentali che sia il Kilimangiaro. Ed è così da sempre. I romani vedevano la loro grande capitale come caput mundi e gli antichi greci immaginavano il mondo abitato come un cerchio al centro del quale, «a metà strada tra il sorgere e il tramontare del sole», si trovava l’Ellade e al centro dell’Ellade Delfi e al centro di Delfi la pietra dell’ omphalos , l’ombelico del mondo.

Il guaio è quando questa prospettiva in qualche modo naturale si traduce in una pretesa di egemonia. Di superiorità. Di eccellenza razziale. Quando pretende di scegliersi i vicini. O di distribuire patenti di «purezza» etnica. Mario Borghezio, ad esempio, ha detto al Parlamento europeo, dove è da anni la punta di diamante della Lega Nord, di avere una spina nel cuore: «L’utopia di Orania, il piccolo fazzoletto di terra prescelto da un pugno di afrikaner come nuova patria indipendente dal Sudafrica multirazziale, ormai reso invivibile dal razzismo e dalla criminalità dei neri, è un esempio straordinario di amore per la libertà di preservazione dell’identità etnoculturale».

Anche in Europa, ha suggerito, «si potrebbe seguire l’esempio di questi straordinari figli degli antichi coloni boeri e 'ricolonizzare' i nostri territori ormai invasi da gente di tutte le provenienze, creando isole di libertà e di civiltà con il ritorno integrale ai nostri usi e costumi e alle nostre tradizioni, calpestati e cancellati dall’omologazione mondialista. Ho già preso contatti con questi 'costruttori di libertà' perché il loro sogno di libertà è certo nel cuore di molti, anche in Padania, che come me non si rassegneranno a vivere nel clima alienante e degradato della società multirazziale». La «società multirazziale»? Ma chi l’ha creata, in Sudafrica, la «società multirazziale»? I neri che sono sopravvissuti alla decimazione dei coloniali­sti bianchi e sono tornati da un paio di decenni a governare (parzialmente) quelle che erano da migliaia di anni le loro terre? O i bianchi arrivati nel 1652, cioè poco meno di due millenni più tardi rispetto allo sfondamento nella Pianura Padana dei romani che quelli come Borghezio ritengono ancora oggi degli intrusi colonizzatori, al punto che Umberto Bossi vorrebbe che il «mondo celtico ricordasse con un cippo, a Capo Talamone » la battaglia che «rese i padani schiavi dei romani»? Niente sintetizza meglio un punto: il razzismo è una questione di prospettiva. (...) Non si capiscono i cori negli stadi contro i giocatori neri, il dilagare di ostilità e disprezzo su Internet, il risveglio del demone antisemita, le spedizioni squadristiche contro gli omosessuali, i rimpianti di troppi politici per «i metodi di Hitler», le avanzate in tutta Europa dei partiti xenofobi, le milizie in divisa paranazista, i pestaggi di disabili, le rivolte veneziane contro gli «zingari» anche se sono veneti da secoli e fanno di cognome Pavan, gli omicidi di clochard bruciati per «ripulire» le città e gli inni immondi alla purezza del sangue, se non si parte dall’idea che sta manifestandosi una cosa insieme nuovissima e vecchissima. Dove l’urlo «Andate tutti a ’fanculo: negri, froci, zingari, giudei co!», come capita di leggere sui muri delle città italiane e non solo, è lo spurgo di una società in crisi. Che ha paura di tutto e nel calderone delle sue insicurezze mette insieme tutto: la crisi economica, i marocchini, i licenziamenti, gli scippi, i banchieri ebrei, i campi rom, gli stupri, le nuove povertà, i negri, i pidocchi e la tubercolosi che «era sparita prima che arrivassero tutti quegli extracomunitari ». Una società dove i più fragili, i più angosciati, e quelli che spudoratamente cavalcano le paure dei più fragili e dei più angosciati, sospirano sognando ognuno la propria Orania. Una meravigliosa Orania ungherese fatta solo di ungheresi, una meravigliosa Orania slovacca fatta solo di slovacchi, una meravigliosa Orania fiamminga fatta solo di fiamminghi, una meravigliosa Orania padana fatta solo di padani.

Ma che cos’è, Orania? Č una specie di repubblichina privata fondata nel 1990, mentre Nelson Mandela usciva dalla galera in cui era stato cacciato oltre un quarto di secolo prima, da un po’ di famiglie boere che non volevano saperne di vivere nella società che si sarebbe affermata dopo la caduta dell’apartheid. Niente più panchine nei parchi vietate ai neri, niente più cinema vietati ai neri, niente più autobus vietati ai neri, niente più ascensori vietati ai neri e così via. (...) «Il genocidio dei boeri»: titolano oggi molti siti olandesi de­nunciando le aggressioni ai bianchi da parte di bande criminali di colore gonfie di odio razziale che da Durban a Johannesburg sono responsabili dal 1994 al 2009, secondo il quotidiano «Reformatorisch Dag­blad », di oltre tremila omicidi. Il grande paradosso sudafricano, quello che mostra come la bestia razzista possa presentarsi sotto mille forme, è qui. I boeri, protagonisti di tante brutalità contro le popolazioni indigene e oggi vittime di troppe vendette, sono gli stessi boeri che furono vittime del primo vero genocidio del XX secolo. Perpetrato dagli inglesi che volevano liberarsi di quei bianchi africani nati da un miscuglio di olandesi, francesi, tedeschi... (...) Č tutto, la memoria: tutto. Č impossibile parlare del razzismo di oggi se non si ricorda il razzismo di ieri. Sull’uno e sull’altro fronte. Non puoi raccontare gli assalti ai campi rom se non ricordi secoli di pogrom, massacri ed editti da Genova allo Jutland, dove l’11 novembre 1835 organizzarono addirittura, come si trattasse di fagiani, una grande caccia al gitano. Caccia che, come scrivono Donald Kenrick e Grattan Puxon ne Il destino degli zingari, «fruttò complessivamente un 'carniere' di oltre duecentosessanta uomini, donne e bambini». Non puoi raccontare della ripresa di un crescente odio antiebraico, spesso mascherato da critica al governo israeliano (critica, questa sì, legittima) senza ricordare quanto disse Primo Levi in una lontana intervista al «Manifesto»: «L’antisemitismo è un Proteo». Può assumere come Proteo una forma o un’altra, ma alla fine si ripresenta. E va riconosciuto sotto le sue nuove spoglie. Così com’è impossibile capire il razzismo se non si ricorda che ci sono tanti razzismi. Anche tra bianchi e bianchi, tra neri e neri, tra gialli e gialli...

 

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