Di seguito gli articoli e le fotografie pubblicati nella giornata richiesta.
Articoli del 22/05/2008
Il Consejo Estatal del Pueblo Gitano intende manifestare di fronte
all'ambasciata italiana in Spagna entro la prima settimana di giugno, per i
gravi successi accaduti contro le comunità Rom. Vogliamo avere informazione
concreta in quanto ai fatti accaduti, luogo, numero di persone vittime di questa
situazione, ecc. Per questo motivo, vogliamo contattare delle organizzazioni
Rom e Sinti, per comunicare loro la solidarietà dei Gitani spagnoli, e per
proporre loro un appoggio alla manifestazione. Ci servono numeri di telefono ed
e-mail dei rappresentanti Rom e Sinti in Italia.
Grazie e saluti,
Mariano González
per contatto in italiano:
Alessandro
tel. +34 649089190
MARIANO GONZALEZ
PORTAVOZ DEL
MOVIMIENTO GENUINO
GITANO DE MADRID
Di Fabrizio (pubblicato @ 14:48:00 in blog, visitato 1835 volte)
Da
OperaINcerta
Il Consiglio d’Europa li ha definiti l’unica vera minoranza etnica europea,
l’Unione Europea ha formulato tutta una serie di raccomandazioni e linee guida
per il miglioramento delle loro condizioni, il Parlamento Europeo ha votato a
larga maggioranza una risoluzione che condanna ogni forma di razzismo e
discriminazione nei loro confronti e sollecita la Commissione Europea a
sviluppare una strategia per il loro inserimento, il nostro Ministero degli
Interni li annovera tra le cosiddette minoranze senza territorio (ma di fatto
non li ha ancora riconosciuti ufficialmente con lo status di minoranza)...
leggi tutto l'articolo e l'intervista

20 Maggio, 2008 Mi hanno raccontato di un giovane padre il cui bambino ha paura dell'uomo
nero. Il padre gli ha detto che non risulta a sua memoria un solo caso di uomo
nero, gli ha fatto vedere le statistiche: niente, il bambino ha ancora paura.
Chi non s'intenerirebbe a un bambino spaventato dall'uomo nero?
Purché una popolazione di milioni di adulti non pretenda di fare tenerezza anche
lei. La xenofobia, si dice, è la paura del diverso, dunque è qualcosa di
naturale. Chi non prova un'apprensione, una diffidenza, un' angoscia nei
confronti dello sconosciuto? Mah: non ci si crogioli troppo con le
etimologie. La xenofobia è anche l'invenzione del diverso, e il disprezzo,
l'avversione e la persecuzione del diverso. È a un passo dal razzismo, e spesso
quel passo l'ha fatto. Gli italiani non sono xenofobi, non sono razzisti? Ah,
Padre, non metterci alla prova, non indurci in tentazione. Nel dizionario dei
nostri luoghi correnti gli zingari sono associati da sempre al fuoco, al
lanciafiamme, ai forni. Figurarsi quando incenerire rifiuti urbani non si può,
rifiuti umani magari sì. Tutto in ordine: un commissario speciale ai rifiuti
urbani, uno agli umani. Speriamo che qualcuno segua la vicenda della ragazza
accusata di voler rubare una bambina a Ponticelli, fino a venirne a capo. Come
spiega il padre sull'uomo nero, abbiamo statistiche inesorabili che non
contemplano bambini rapiti da zingari: da altri italiani sì.
I sondaggi freschi danno i "musulmani" retrocessi al quarto posto, dopo zingari,
albanesi e romeni (è già tanto che distinguano fra rom e romeni). Ah, popolo
fanciullescamente volubile: abbiamo già declassato, per il momento, lo scontro
di civiltà. Davvero, dobbiamo preoccuparci di evocare a vanvera l'antisemitismo
dell'infanticidio rituale, la memoria dei pogrom? Mah: direi che sono altre le
parole che andrebbero risciacquate: sicurezza, per esempio, sinistra, per
esempio. O intere locuzioni, che non si ascoltano più senza ridere: radicarsi
nel territorio, per esempio. La Lega ha messo tutti in soggezione grazie alla
sua prova di Radicamento nel Territorio. Ma in una classifica neutrale della
materia c'erano, sia detto senza offesa, modelli più rigogliosi, non so, Hamas,
radicata nella striscia di Gaza, la camorra, la mafia, la `ndrangheta. Perfino
la democrazia, obbligata a ratificare gli esiti elettorali del radicamento nel
territorio, conosce le sue eccezioni, come negli scioglimenti prefettizi di
amministrazioni comunali dove si esagera col radicamento. Ci sono posti nei
quali viene da augurarsi un certo sradicamento dal territorio: guardate Roberto
Saviano, che ha scavato così a fondo alla ricerca delle radici da dover vivere
altrove, invidiato, minacciato e braccato. La Lega, quando si proclamò padana,
dichiarò stranieri tutti gli altri.
Non è piacevole dirlo, ma il succo delle elezioni sta in un'espulsione, un
rigetto della classe politica di centrosinistra dalla pancia del paese. Un caso
di rocambolesca xenofobia. Del resto la posta ultima della lotta politica fu
dall'antico questa: l'esilio degli altri. Bisogna pensarci, quando si pronuncia
la frase celebre: «Io me ne vado all'estero». Non lo prendete troppo per un
paradosso. Un segnale lo dava il linguaggio, che trattava all'ingrosso da
clandestini migranti stranieri e politica di centrosinistra: «Rimandiamoli a
casa» e vaffanculo. Nel caso di Veltroni, più precisamente: «Rimandiamolo in
Africa». Così disse Berlusconi, e questo fa somigliare la sbandierata cordialità
del suo dialogo attuale a una pratica di diplomazia estera. Lo ridico: non
prendetelo per uno scherzo. Il centrodestra non ha fatto granché, nel biennio
fra le due elezioni, per meritare il suo trionfo. Ha fatto tutto la coalizione
di governo, compresa la sua componente che fa le veci della destra, che si
trattasse, all'interno della maggioranza, di guidare una crociata sull'indulto
(sicché il centrodestra beneficiò doppiamente dell'indulto, per le modalità
convenienti che aveva dettato, e per il ripudio popolare del governo) o che si
tratti, all'interno dell'opposizione, di rivendicare la trasformazione
dell'immigrazione "clandestina"in reato penale, come vuole Di Pietro, forte di
quaranta parlamentari graziosamente regalati da un Pd sulla cui groppa piantare
banderillas quotidiane. Quel che resta del centrosinistra deve chiedersi come
mai sia stato solo lui il bersaglio colpito dal giustizialismo allevato in seno,
dalla cosiddetta antipolitica, dalla stessa travolgente denuncia della Casta. Il
rigetto pressoché viscerale, esistenziale, della classe dirigente di sinistra si
è manifestato con la stessa insofferenza animalesca che prorompe contro gli
"stranieri". Quella classe politica, alla maggioranza degli italiani, ha finito
per apparire come un corpo estraneo, da espellere, sul quale sfogarsi e trarre
vendetta. Come è potuto succedere? Rispondere, farebbe fare un passo avanti. Ci
sono due ordini di questioni. Uno fornisce una piccola consolazione alla
disfatta della sinistra, ed è l'argomento della moneta cattiva che scacciala
buona. L'altro condanna la sinistra (tutte le sinistre, dal centro all'estrema)
a riconoscersi in un'immagine sfigurata. La questione, realissima e poi
metaforica, della xenofobia è per ambedue quella dirimente.
La moneta buona. Tanti anni fa, facendo tesoro di una complicazione come quella
sudtirolese-alto atesina (luogo di frontiera, crogiolo di nazionalità e
minoranze e lingue, deposito storico di contese acerrime) Alex Langer e i suoi
perseguirono per primi un programma federalista, europeista, nonviolento,
premuroso verso le piccole patrie e l'orizzonte planetario. Le tappe di quell'impegno
furono scandite dal primo "ecopacifismo", dal rifiuto coraggioso del censimento
etnico, dall'apertura internazionale ai diritti umani. La paziente e delicata
anticipazione federalista, locale e globale - i nomi non c'erano ancora - di
Langer si volse nel giro di pochi anni (gli anni della Jugoslavia, e di un
arrivo così rapido e ingente di migranti in Italia da mutarne la fisionomia
demografica e storcerne lo stato d'animo, come una sinistra imbambolata non
volle vedere) nella versione leghista degli stessi temi, con la differenza che
separa, e anzi oppone, una porta che si apre da una che si chiude. Federalismo,
secessione, macroregione, xenofobia e, non di rado, razzismo furono la nuova
moneta- anche il colore verde ne fu confiscato. La sinistra tradizionale in
tutte le sue componenti, travolta da vicende internazionali e interne sempre
subite e mai anticipate, dall'89 a Mani Pulite, non fece altro, lungo tutto
questo tumultuoso volgere di tempi, che provare a galleggiare, spesso ai danni
del vicino di naufragio, e rincorrere di volta in volta le occasioni con un
cambio di ragione sociale. La nascita del Pd è ancora in bilico: fra l'ennesimo
mutamento di ragione sociale, e una svolta vera, comunque di lunga lena. Ora, la
domanda è se in tempi di precipitosa mutazione degli equilibri mondiali, di
crisi di modi di produzione e di pensieri, di terremoti di vecchie identità, la
moneta cattiva sia inevitabilmente destinata a scacciare la buona.
La storia del Novecento sembra indurre alla risposta pessimista. Naturalmente,
ci si guarderà dal concluderne che le responsabilità delle persone e dei gruppi
siano irrilevanti. Perché in ogni caso perdere si può, e può perfino essere la
sorte più onorevole: ma finire invisi a una larga maggioranza di propri
concittadini come stranieri in patria - come gli incolpevoli zingari italiani di
cittadinanza, cui la brava gente, anche quella che si contenta di non dar loro
fuoco, intima di tornarsene a casa loro... -questo ha bisogno di una speciale
spiegazione. Agli eredi di centrosinistra della Prima Repubblica era rimasta,
passato l'inganno della diversità antropologica, un'aura residuale di miglior
professionalità, e anche di un più retto cinismo, per così dire. Le avventure
della coalizione hanno distrutto anche questo resto. In cambio, hanno instillato
nella maggioranza degli italiani la sensazione da bava alla bocca di un modo di
essere di vivere e di esibirsi che ne faceva desiderare la cacciata ben più che
la vittoria degli altri. Ne vedremo, ne vediamo già delle belle. Berlusconi
promette tante libertà, e tante se ne prende, e intanto un suo avvocato
difensore vuole intestarsi il reato di immigrazione clandestina e l'espulsione
di qualche centinaio di migliaia di badanti. Troppa grazia. Ma tutto questo non
ha impedito che la famosa Casta designasse pressoché solo la consorteria umana
del centrosinistra e della sinistra, che la testa di Pecoraro Scanio venisse
portata -metaforicamente, grazie a Dio - sulle picche dai sanculotti, e che
l'estromissione di un ceto politico apparisse come una pulizia etnica. Quando il
mercato premia la moneta cattiva, si può fare a gara con i cattivi coniatori,
battendo monete appena un po' meno fasulle; oppure fare altro, se si è capaci.
Se non se ne sia capaci, almeno dissociare la propria responsabilità dal fuoco
alle baracche, così, perché un giorno i propri nipoti...
Fonte repubblica.it
Da
Info-Palestine
lundi 19 mai 2008
Marie Medina - BabelMed
I Gitani di Gerusalemme sono così poco numerosi che se ne conosce a
malapena l'esistenza. Di fronte all'analfabetismo ed alla discriminazione,
questa comunità ultra-minoritaria rischia a breve di perdere la propria cultura.
"Da qui a qualche anno, la cultura dom può sparire se non si fa niente per
proteggerla" si inquieta
Amoun Sleem, che dirige l'associazione Domaris: società dei gitani di
Gerusalemme.
Photo Zohar Mor
Settimana scorsa ha organizzato uno spettacolo di danze gitane: Ayameni
Goldeni (Quei belli occhi), a Gerusalemme e Tel Aviv. Qualche bambino zigano
vi ha fatto una breve apparizione ma nessuno degli artisti adulti in scena erano
dom: tre erano di origine americana, la quarta israeliana. "Non ci sono più
artisti professionisti nella comunità dom di Gerusalemme", ricorda Michaela
Harari, una delle quattro danzatrici.
Come la maggior parte della comunità, gli artisti sono emigrati in Giordania
al tempo della guerra dei Sei Giorni (1967). Restano oggi qualche musicista e
danzatore che vivono nella Striscia di Gaza e che, prima del blocco israeliano,
si produceva nei matrimoni in Egitto.
Secondo Amoun Sleem, si contano oggi 7.000 Dom in Israele e nei Territori
palestinesi , contro oltre 42.000 sull'altra riva del Giordano. Questa
immigrazione massiva s'è rivelata "dannosa per la cultura" di
Gerusalemme, rimarca.
"La danza ed il canto sono la nostra ricchezza" osserva Abdelhakim
Salim, mouktar (capo) della comunità dom di Gerusalemme, ricordando come il
divertimento è una delle maniere dei gitani per guadagnarsi il pane.
È del resto questo talento che sarebbe all'origine dell'emigrazione dei
gitani, secondo un resoconto che è fra le diverse - e contradittorie -
spiegazioni, teorie e leggende. Nel Libro dei Re (verso l'anno 1000), il poeta Firdousi narra che un sovrano persiano aveva invitato migliaia di artisti di una
tribù indiana a prodursi alla sua corte.
Abdelhakim Salim
Abdelhakim Salim racconta un'altra storia, quella di un ragazzo molto povero
che era cresciuto vicino ad un fiume ed aveva adottato un coccodrillo come
animale di compagnia. Un giorno, per mostrare ad un amico che aveva domato il
sauro, il giovane aveva messo la sua mano nella bocca dell'animale, che lo
divise. Morale: "la gente della nostra Comunità farebbe non importa cosa per
divertire la platea e guadagnarsi la vita", conclude il mouktar.
Dopo la Persia e la penisola arabica, dove sarebbero arrivati come anfitrioni
pubblici o valorosi guerrieri, secondo le diverse versioni, gli zigani hanno
proseguito la loro strada. Alla fine, alcuni hanno guadagnato la Palestina e
l'Africa del Nord (i Dom), altri hanno superato il Caucaso ed il Bosforo
per raggiungere l'Europa (i Rom). I primi sono diventati musulmani, i secondi
cristiani.
Le prime prove scritte della presenza dom a Gerusalemme risalgono al XIX
secolo. La Comunità si è resa sedentaria inizialmente fuori dalla Città Vecchia.
Ma oggi, vive principalmente dentro le mura, nella zona svantaggiata di Bab
Hutta. Secondo il centro sociale di Burj Al Luq Luq, 170 famiglie vi abitano,
composte da sette persone in media, con 700 dollari (450 euro) mensili per
focolare.
Molti adulti sono illetterati e numerosi allievi abbandonano la loro
scolarità in corso. "Molti nostri bambini sono per strada", deplora il
mouktar Abdelhakim Salim. Tre mattine alla settimana, Burj Al Luq Luq accoglie i
bambini da 7 a 15 anni che non vanno più a scuola; il 90% di loro è costituito
da Dom, indica Imad Jaouny, direttore esecutivo del centro sociale.
Quest'accoglienza, come pure le attività sportive (calcio, basket), tenta di
sottrarre i giovani "dalla cultura di strada", che li espone numerosi rischi,
fra cui la droga. La dipendenza è un problema che riguarda particolarmente la
Comunità dom, afferma Imad Jaouny.
Quando cercano lavoro, i membri della Comunità pagano il prezzo dei loro
studi accorciati, ma anche dei pregiudizi di cui sono oggetto. La parola araba
che designa un gitano, "nawar", è di solito utilizzata come un insulto.
La loro dignità ne non esce indenne. Rari sono coloro che rivendicano la loro
identità dom.
Tutti parlano l'arabo, pochi maneggiano il domari. La "nostra lingua non è
in buono stato ora", sottolinea Amoun Sleem. Gli oratori dom scivolano fino
a tre o quattro parole arabe per frase. La "nostra lingua può scomparire da
qui ad alcuni anni", si preoccupa il direttore della Società dei gitani di
Gerusalemme, che ha organizzato corsi di domari.
Anche le espressioni artistiche sono deprezzate. La musica, ad esempio.
"La gente la vede come musica al ribasso", rileva Amoun Sleem. "I dom
hanno vergogna a promuoverla".

"Stanno perdendo la loro cultura", nota la danzatrice Michaela Harari.
Per incoraggiare i bambini a riappropriarsi della loro cultura, la Società dei
gitani ha approntato dei corsi di danza. Sono frequentati da una mezza dozzina
di ragazze, dai 5 ai 12 anni. È questa piccola troupe che ha fatto una breve
comparsa in Ayameni Goldeni. Ha interpretato una danza chiamata El-Gazawi.
Come la maggior parte delle arti zigane, questa coreografia adotta un
elemento del folclore locale - in questo caso palestinese - e lo adatta
interamente instillandovi là uno stile proprio. Michaela Harari distingue due
particolarità della danza domari: schemi ritmici sofisticati, che sono forse
un'eredità indiana, e movimenti segnati delle anche, che si trova in tutte le
danze orientali.
Amoun Sleem auspica che i Dom trovino il loro orgoglio in questa cultura
della fusione, che sia con le arti o con l'artigianato. Poiché appaiono in
generale fra le comunità più povere, - infine, soprattutto le donne - hanno
sviluppato un certo talento per il riciclaggio. "Le donne hanno il regalo per
fabbricare qualcosa a partire da nulla", spiega senza scherzare il direttore
della Società dei gitani.
Le generazioni precedenti utilizzavano questo "savoir-faire" per decorare il
loro interno e fabbricare gioielli. Il centro domari situato a Shuafat, nel
sobborgo di Gerusalemme, incoraggia la nuova generazione a ricollegarsi a questa
tradizione. Le donne possono vendere le loro produzioni per migliorare i redditi
del loro focolare. Con pezzi di vecchi abiti, preparano ad esempio delle borse o
dei plaids in patchwork.
Un modo, ben modesto, di riparare una cultura che si sta perdendo.
Fotografie del 22/05/2008
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