Di seguito gli articoli e le fotografie pubblicati nella giornata richiesta.
Articoli del 12/12/2009
Draganesti Olt
da
CITYROM Una ricerca per la soluzione dei problemi abitativi delle
popolazioni emarginate

«Hanno costruito tutte queste case dall’Italia. Hanno fatto i soldi in
Italia. Anch’io ho comprato la casa». Maria abita a Draganesti, un paese di
dodicimila abitanti nella regione dell’Oltenia, in Romania. Ha cinquanta anni,
tre figli e sette nipoti ed è separata dal marito. Coi soldi che ha
guadagnato in Italia ha comperato una casa per il figlio maggiore. È costata
undicimila euro. «Ho lavorato da una donna: lavavo, stiravo – dice in un buon
italiano –. Ho fatto anche la badante. Abitavo nella baracca. Mio figlio Michele
quando siamo arrivati aveva sette anni, è andato scuola per quattro anni. Una
famiglia italiana mi aiutava. Lo portavano in macchina a scuola e lo andavano a
prendere. Dormiva da loro tutta la settimana e la domenica mattina lo
riportavano in baracca. Ma i nostri parenti erano invidiosi e hanno detto che
quelli si approfittavano del bambino. Continuavano a dirlo e allora ho
denunciato la famiglia italiana. Ma poi ho ritirato la denuncia e abbiamo fatto
pace. Sono tornata qui perché sono ammalata. Depressione. Mio marito mi ha
mandato via e vivo da mio figlio maggiore. L’Italia mi ha distrutto. Tante
famiglie sono diventate ricche e tante si sono rovinate. Solo chi ruba e fa cose
brutte ha la casa grande, ha tutto…».
Ogni tanto Maria torna in Italia. Resta a Milano un mese dormendo in una
baracca in un campo abusivo. Con l’elemosina guadagna circa trecento euro. Porta
i soldi a casa e quando finiscono riparte. È quello che fa la maggior parte dei
milletrecento rom che vivono a Draganesti (più del dieci per cento della
popolazione del paese). Viaggiano con un piccolo bus guidato da uno degli
abitanti, che per cinquanta euro assicura il collegamento con Milano e trasporta
anche pacchi e lettere. Qualcuno ha ottenuto un container nel campo comunale di
via Triboniano ma in genere i rom di Draganesti a Milano abitano nelle “baracchine”,
insediamenti abusivi che costituiscono una sorta di doppio milanese del loro
villaggio romeno. Sono loro che per anni hanno resistito a una serie di sgomberi
sotto il ponte di Bacula, nel quartiere della Bovisa, alla periferia nord di
Milano, ricostruendo ogni volta le baracchine. Dopo l’ultimo sgombero e la messa
in sicurezza dell’area da parte del comune, si sono trasferiti in una zona
abbandonata nel quartiere Lambrate.
Flora è tornata a Draganesti dopo l’ultimo sgombero, il marito è rimasto a
Milano. «Vasile chiede l’elemosina e poi mi manda i soldi. Li porta qui un amico
con la macchina. Io sto qui perchè i bambini vanno a scuola. Per ognuno di loro
il governo mi dà un sussidio di circa dieci euro al mese. Una volta sola li ho
portati per due mesi in Italia». A Milano Flora viveva col marito in una baracca
sotto il cavalcavia Bacula, costruita da loro stessi con assi di legno
recuperate dai cantieri e teloni di pvc. Misurava due metri per tre e c’era
spazio per un materasso e una stufa a legna. Si affacciava in uno spiazzo tra le
baracche dove gli abitanti del villaggio si riunivano per chiacchierare,
cucinare sulla griglia e mangiare insieme. A Draganesti Flora vive lungo la
strada che conduce al centro del paese, sui cui lati sorgono case monofamiliari
abitate da cittadini di etnia rom e non solo. Alcune sono piccole, costituite da
un’unica stanza fatta di mattoni di terra a vista. Altre sono più grandi, con i
tetti decorati con lamiera intagliata e un corridoio d’ingresso illuminato da
ampie finestre. Altre ancora sono nuove o in costruzione, molto più grandi, dai
colori vivacissimi, con torri, archi e cortili chiusi da cancellate. A
Draganesti non ci sono fogne e i servizi per la maggior parte sono costituiti da
una baracca in un angolo del cortile. Pochissime case hanno l’acqua corrente
mentre la maggior parte ha il pozzo in cortile.
La casa di Flora è stata dipinta recentemente di un arancione molto acceso e
ha gli infissi bianchi. «L’abbiamo ampliata due anni fa, con i soldi
dell’elemosina. Abbiamo unito le due vecchie stanze e ne abbiamo aggiunto
un’altra», racconta. La cucina è un piccolo edificio giallo indipendente,
situato nell’ampio cortile pavimentato. Sul retro si trovano un recinto con
polli e oche e la baracca di legno della latrina. Le stanze sono accoglienti,
ciascuna con un grande letto-sofà e tappeti colorati alle pareti. La stanza più
grande è riscaldata da un’antica stufa a legna in ceramica.
Poco lontano dalla casa di Flora abita Monica. Anche a Milano, sotto il
cavalcavia, Flora e Monica erano vicine di casa. Monica ha diciannove anni ed è
tornata da poco in Romania per partorire. Il bambino, nato otto giorni fa, l’ha
chiamato Armani. Il padre del bimbo e il cognato di Monica sono ancora a Milano.
Monica abita con il padre, la madre, il fratello di sedici anni e la sorellina
di sette in una casetta fatiscente che confina col cortile di una delle case più
grandi e vistose del paese. Anche questa appartiene a loro, l’ha costruita il
padre di Monica. Ma la casa è quasi vuota. Le sei ampie stanze hanno l’aspetto
intatto, così come il bagno piastrellato con vasca e doccia. Una stanza funziona
da guardaroba ed è piena di abiti tradizionali femminili. «Non posso dormire
nella casa nuova – dice la mamma di Monica –, non sono abituata. Non so quando
ci andremo. Adesso viviamo tutti insieme nella casa piccola».
Luciano ha ventiquattro anni. Lui una casa non ce l’ha. Abita dalla sorella
che al momento è a Milano. Fino a un mese fa anche lui era in Italia, con la
moglie e il figlio che ora ha un anno e mezzo. Era in regola, con la carta
d’identità italiana. «A Milano – dice – lavoravo per una ditta di materassi. Ho
anche il fatto il muratore. Ho distribuito volantini. Tre anni di lavoro e sono
riuscito a comprare solo un pezzo di terreno. È costato quattromila euro. Voglio
costruirci la casa. La faccio con la terra perché non ho i soldi per i mattoni.
Il terreno è largo sette metri e lungo cento, ci voglio coltivare la verza, il
pomodoro… Qui lavoro per una famiglia rom, faccio trasporti con il loro carretto
a cavallo. Mi danno venti euro al mese. Anche mia moglie lavora due o tre ore al
giorno in casa loro. Ci sono anche i rom ricchi a Draganesti. C’è il più ricco
della Romania che ha quindici case, tutte uguali. Negli anni Novanta è stato in
Italia, in Germania, ha girato tutta l’Europa. Non si sa che lavoro fa, non si
può chiederglielo… Dall’Italia sono andato via perchè gli assistenti sociali
hanno preso mio figlio. Hanno detto che io e mia moglie facevamo accattonaggio.
Allora ho preso mio figlio e sono andato via. In Italia non torno senza un
lavoro».
Luciano a Draganesti sembra un’eccezione. Le scenografiche case di chi torna
dall’Italia con i soldi spiccano nel paesaggio agricolo depresso dell’Oltenia e
costituiscono un miraggio a cui è difficile resistere. I rom di Draganesti vanno
avanti e indietro da Milano a caccia di soldi, da ottenere con il lavoro,
l’accattonaggio o le attività illecite. D’altronde a Draganesti il lavoro non
c’è e quel poco è pagato malissimo. Un operaio in fabbrica guadagna duecento
euro e in questa zona la fabbrica è una sola. Produce vestiti e vi lavorano
duecento donne. Solo tre sono rom. (sp/…)
Segnalazione di Marco Brazzoduro
Di “Rivoluzione Copernicana” aveva parlato lo scorso agosto il Sindaco
Alemanno, preannunciando un nuovo approccio della Giunta Capitolina alla
questione nomadi. Un approccio “all’insegna della stretta identità tra legalità
e solidarietà, tra sicurezza ed integrazione” furono le parole del Primo
Cittadino. In attesa dell’imminente chiusura di oltre 80 campi abusivi e di
altri 9 definiti “tollerati”, la condizione del campo autorizzato della
Cesarina è, questo sì, intollerabile. Nonostante il Comune paghi profumatamente
l’affitto del fazzoletto di terra, oltre ad una quota per ogni abitante,
l’erogazione di servizi e utenze basilari per delle roulotte che ospitano
famiglie sono demandate alla discrezionalità del proprietario del campo.
L’impianto elettrico consente il funzionamento delle sole lampadine: basta un
asciugacapelli per far saltare il contatore. Nella malaugurata ipotesi in cui
ciò avvenga, il proprietario del campo priva gli abitanti della luce per ben tre
giorni, a scopo punitivo. Facilmente comprensibili le difficoltà a gestire una
quotidianità che prevede l’accudimento di neonati disponendo di acqua calda
(anche per le docce) per sole 3 ore al giorno, in assenza di elettrodomestici e
frigoriferi, usufruendo di bagni predisposti in un unico spazio aperto,
riscaldando le fatiscenti roulotte con precarie stufe a gas (con il rischio di
sovraccarico e di conseguante stacco della luce per i successivi 3 giorni). Il
tutto, si ribadisce, dietro lauto compenso. Riteniamo doveroso informare che
ogni nucleo familiare (sono meno di 50 quelli oggi ospitati nel campo della
Cesarina) paga una sorta di pizzo al proprietario pari a 50 euro mensili,
ovviamente senza ricevuta, senza specificare a che titolo vengano pretesi questi
soldi. Per le utenze?! Gli abitanti del campo non possono ricevere visite di
familiari ed amici senza l’autorizzazione del proprietario. In assenza di un
regolamento scritto, l’ingresso di visitatori esterni è concesso a sua
discrezione e solo in rarissimi casi. Fino a poco tempo fa due pulmini
accompagnavano i bambini del campo a scuola (sono quasi tutti scolarizzati).
Attualmente il servizio è stato ridotto ad un solo pulmino, che sembra destinato
a scomparire con il prossimo anno scolastico, in barba alla tanto citata
aggregazione.
In fiduciosa attesa della promessa “Rivoluzione Copernicana”,
SI CHIEDE
AL SINDACO DI ROMA
Di consentire agli abitanti del campo nomadi della Cesarina di mantenere intatta
la precaria rete sociale tessuta con la città circostante. Tra mille difficoltà,
adulti in cerca di lavoro e bambini in una scuola che insegna un mondo nuovo
sfidano ogni giorno l’ignoranza ed il pregiudizio, conquistando una dignità che
qualcuno si arroga il diritto di negare. Spostare il campo Nomadi della Cesarina
significa vanificare questi sforzi, creando solo disagi e sofferenza.
di farsi carico responsabilmente delle condizioni di vita di coloro che ospitano
un campo riconosciuto dal Piano Nomadi. Che alla fermezza della Giunta, che con
la sua scure taglia gli insediamenti “non tollerati”, corrisponda la giustezza
di alloggi dignitosi e atti ad ospitare donne, bambini ed anziani.
firma la petizione
Mi scuso per il ritardo della segnalazione, il concerto è
stasera alle 20.00

Porrajmos nel linguaggio Rom significa “divoramento” e indica la persecuzione e
lo sterminio che il Terzo Reich attuò durante la Seconda Guerra Mondiale
uccidendo oltre 500 mila esseri umani. Nel 1936, alla vigilia dei giochi
olimpici di Berlino, Hitler decide che la città deve essere ripulita. La
politica razzista dei nazisti porta alla costruzione di un campo di
concentramento a Marzahn, dove vengono internati centinaia di Rom e Sinti.
La persecuzione di Rom e Sinti è l’unica, unitamente a quella ebraica, a
essere dettata da motivazioni pseudo-razziali, ma la tragedia delle popolazioni
sinte e rom non si conclude con la fine della Guerra: la Repubblica Federale
Tedesca infatti, riconoscerà la loro persecuzione molto tempo dopo, concedendo i
risarcimenti con grandissimo ritardo.
Francesco Lotoro ha cercato di ricostruire un importante tassello della
letteratura concentrazionaria aggiungendo all’opera da lui curata,
l’Enciclopedia discografica KZ Musik pubblicata dalla Musikstrasse di Roma
giunta al dodicesimo CD-volume, l’intero corpus musicale creato da Sinti e Rom
nei campi di sterminio durante il Secondo Conflitto Mondiale. Il risultato di
questa prestigiosa opera di ricostruzione sarà presentato sabato 12 dicembre
all’Auditorium dell’Assunta a Trinitapoli alle ore 20. ‘Prendi un violino e
suona’ è il titolo dato alla conferenza concerto alla quale prenderanno parte
oltre allo stesso Lotoro, l’assessore al Mediterraneo della Regione Puglia,
Silvia Godelli, il Sindaco di Trinitapoli Ruggero Di Gennaro, il Commissario
straordinario di Margherita di Savoia Rachele Gandolfo, il Dirigente scolastico
della Scuola Media Giuseppe Garibaldi di Trinitapoli Anna Maria Trufini, il
musicista Rom slovacco Milan Godla.
Il programma del concerto comprende canti creati a Belzec, Auschwitz, Chelmno
e nei campi di lavoro forzati aperti dai nazisti in Slovacchia.
“Il lavoro di recupero della musica creata dal popolo Romanì nei Lager è
stato molto più complesso di altre parallele produzioni concentrazionarie. Ciò
perché trattasi prevalentemente di musica trasmessa oralmente e conservata
pressoché intatta nella loro vita quotidiana e nella memoria collettiva.” Spiega
il professor Lotoro. “Molti di questi canti arrivano a noi attraverso diversi
modi di esecuzione che variano (a volte anche in modo significativo) da
villaggio a villaggio. Per esempio, Andr’oda taboris cantato a Dhlè Stràze ha
piccole differenze rispetto a quello cantato a Zehra, anche se il testo
coincide”.
Da quanto tempo lavora a questo progetto di recupero della musica dei Rom
e dei Sinti nei lager?
Lavoro a questo particolare filone delle mie ricerche da circa 10 anni; ho
dovuto attendere la pubblicazione del dodicesimo volume dell’Enciclopedia KZ
Musik per dedicarmi con particolare attenzione negli ultimi 12 mesi alla musica
di Rom e Sinti nei lager nazisti, convogliando qui in Puglia alcuni tra i più
validi strumentisti del repertorio Rom come Milan Godla, Marian Serba e Ion
Stanescu, noleggiare ottimi strumenti musicali adatti a tale repertorio come un
grande cimbalom, il tarogato (un particolare clarinetto a forma conica) e una
gamma enorme di flauti e recorders.
Quale è la particolarità di questa musica?
Trovo questa musica molto più “permeabile” della situazione umana nei campo.
Mi spiego; tenendo sempre presente la diversa tipologia dei campi (internamento,
transito, concentramento) e lo stato di cattività più o meno flessibile (ebrei,
detenuti politici, polacchi, civili o militari), la produzione musicale degli
Ebrei a Theresienstadt, dei polacchi ad Auschwitz e Mauthausen, dei frati
benedettini e francescani a Dachau (giusto per fare alcuni esempi) è sempre
“filtrata” dal gusto mitteleuropeo dell’epoca, dall’attenzione alla partitura,
scritta meticolosamente anche su supporti fragili (carta-musica sporca, carta
igienica incollata a strati), dalla giusta strumentazione. .Nella produzione
Romanì, invece, il campo “entra tutto” nella musica, il dolore si fa
musicalmente più intenso senza mediazione; la musica sembra essere l’espressione
più autentica dello stato di abbandono che hanno particolarmente sofferto i Rom
nei campi.
Come dire, la musica di Sinti, Roma, Kalè e di altre famiglie del popolo
romanes è immediata, colpisce di primo acchito, non si fa andare a cercare; e va
suonata lasciando il musicista e il cantante, in un certo senso, liberi di
esprimersi, ricavare l’improvvisazione del momento. Non possiamo neanche
immaginare quanta musica dei Rom abbia respirato, fianco a fianco, con quella
ebraica.
Nei giorni più tristi non solo per l’Europa ma per l’intera civiltà umana,
Ebrei e Rom hanno cantato e suonato l’ultima musica prima che la peggior sorte
si accanisse su questi due popoli dando origine alla catastrofe (la Shoah) e al
divoramento (il Porrajmos).
Lucilla Efrati
Fotografie del 12/12/2009
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