Di seguito gli articoli e le fotografie pubblicati nella giornata richiesta.
L'Express Israel Galvan: "danzare l'impossibile", il genocidio dei
gitani - Par AFP, publié le 13/02/2013 à 09:52
PARIGI - Il sivigliano Israel Galvan danza dal 12 al 20 febbraio al "Théatre
de la Ville" di Parigi "L'impossibile da danzare": il genocidio tzigane da parte
dei nazisti, con il suo nuovo spettacolo "Le Réel, Lo Real, The Real".
Dimenticatevi del flamenco tradizionale, delle balze e degli "olé":
il flamenco di Galvan è aspro, senza concessioni.
E' a torso nudo, dove si disegnano le costole, danzando sulla scena
quasi vuota. Un piano stonato, dal quale verrà fuori il filo spinato dei campi
di concentramento, dei binari cigolanti: ecco, la scenografia è montata. Lo
spettatore trattiene il fiato: si soffre con lui.
Quando una ballerina irrompe, è vestita come una rom, come in segno di
solidarietà con le persecuzioni di oggi.
Silhouette longilinea vestita di una calzamaglia nera, c'è un uomo
dolcissimo, agli antipodi del solito ballerino brillante, il quale si esprime
tramite interviste, attento alle domande, esitante nell'agganciare delle parole
ai movimenti del corpo.
Cascato piccolino nel flamenco - i suoi genitori sono ballerini e suo padre
insegnante in una scuola di flamenco a Siviglia - traccia rapidamente il proprio
cammino, rischiando di sconvolgere i puristi.
"Hanno il loro posto, è importante conservare la tradizione" afferma Galvan,
"ma il flamenco è in costante evoluzione, e mi sento molto libero".
Libero di scegliere un tema scottante come il genocidio dei gitani, e di
introdurvi "anche della gioia", perché conviene celebrare tanto la loro
sopravvivenza quanto la loro sofferenza.
Il genocidio era presente già nella sua infanzia, "se ne parlava molto a
casa, per motivi religiosi", dice Galvan. I suoi genitori appartengono ai
Testimoni di Geova, perseguitati e deportati dai nazisti a motivo dei loro
legami internazionali e della loro opposizione al potere e alla guerra.
Sua madre è tzigana: il genocidio fa doppiamente parte della storia
familiare. Però, Israel Galvan si è ispirato anche da documentari, libri,
canzoni ("Hitler in my heart" del gruppo Antony and the Johnsons) per la sua
creazione. Dice che come sempre, lo spettacolo risponde a "un'esigenza".
Con una dozzina di creazioni in 15 anni, Israel Galvan si è forgiato la
reputazione di un ballerino profondamente innovatore nell'ambito molto
codificato del flamenco. Applaudito a Parigi e nel nord-europeo da molto tempo,
ha visto il suo lavoro riconosciuto per la prima volta a dicembre, dal Teatro
Real di Madrid, che ha prodotto "Il Réel".
Questo "ballerino delle solitudini", secondo il titolo di un libro che gli è
stato consacrato dal filosofo e storico dell'arte francese Georges Didi Huberman
(2006), è stato per la prima volta - per "Il Réel"- affiancato da due
virtuose ballerine, Belén Maya e Isabel Bayon. Una decina di cantanti e musicisti fanno
molto più che accompagnarlo, essendo la vera spina dorsale dello spettacolo.
Tra i suoi progetti, un duo con il ballerino britannico originario del
Bangladesh Akram Khan, la cui danza è ispirata dal kathak, un'arte tradizionale
indiana vicina al flamenco.
Israel Galvan vorrebbe anche "esplorare il suo lato femminile". Osserva che
"Nel flamenco, l'uomo deve danzare da ++macho++ e la donna, in modo femminile". A
lui piacerebbe "cambiare un po'". Butta là sorridendo: "Ho sempre danzato da
uomo, è un po' stancante".
Una trasgressione fedele al suo percorso, che spiega però, senza alcuna
aggressività. La violenza, la morte, onnipresenti nei suoi spettacoli, li
conserva per la scena. In città, è un uomo timido, che parla dei suoi
figli, tra cui c'è una bambina che danza già "il balletto".
Le Parisien Israel Galvan danza per i rom di Ris-Orangis Publié
le 15.02.2013, 21h24

Nel bel mezzo di un accampamento di Rom a Ris-Orangis, la nuova stella del
flamenco Israel Galvan, batte i tacchi con passione. Habitué delle grandi sale
prestigiose d'Europa, è venuto qui per "confrontarsi con la realtà".
I rom dell'accampamento, autentica bidonville a 20 km al sud-est di Parigi,
hanno terminato la costruzione della scena venerdì mattina, in modo da potere
accogliere il ballerino, attualmente presente sulla locandina del Théatre de la
Ville di Parigi.
All'inizio della serata, la silhouette longilinea d'Israel Galvan, pantalone
colore arancio e piumino marrone, appare nel campo, atteso da circa 70 persone,
abitanti del bidonville e membri di alcune associazioni di sostegno. I bambini,
appena usciti dalla scuola o dal liceo dove alcuni di loro sono scolarizzati, si
spazientiscono in mezzo al fango e alle capanne, costruite lungo la strada N7.
Petto all'infuori, accompagnato da due "cantaores" (cantanti di flamenco) esegue
alcuni passi di danza per alcuni minuti, picchiando il suolo in modo rude e
virile, come un torero atletico.
Ma è soprattutto felice d'invitare gli rom a ballare in mezzo alla piccola
scena, fatta di travi di legno e decorata di ghirlande, che danno al posto delle
arie di parco di divertimenti.
Una donna, la gonna nera della quale sfiora il pavimento, esita, poi finalmente
si lancia nel cerchio sotto lo sguardo benevolo d'Israel Galvan.
Durante la serata, gli rom tirano fuori i propri strumenti: violini,
fisarmoniche e tamburelli colpiti con l'aiuto di bottiglie di plastica.
"E' buono per i bambini, per noi, per la musica", dice Jorge, il quale abita
nell'accampamento da circa otto mesi. "Apporta gioia!"
"Altro tipo di energia"
Figlio di una gitana, Israel Galvan percepisce qui una familiarità con ciò che
conosce.
"Quando guardo la gente, vedo certi volti che potrebbero essere quello di mia
nonna", dice sorridendo, all'AFP.
Aggiunge: "Ciò che mi colpisce, è che nonostante le difficoltà che incontrano
queste popolazioni, riescono a fare venire fuori una gran gioia nel loro modo di
vivere".
Nel suo spettacolo battezzato "Le réel" (il reale), egli evoca senza
concessioni, la sorte tragica – e abbondantemente occultata – che fu riservata
agli tzigani durante la Seconda Guerra Mondiale, perseguitati e sterminati dagli
nazisti.
"Per creare il mio spettacolo, mi sono ispirato a libri e foto antiche di
zigani. Ma venire qui, è la situazione la più reale alla quale mi sono trovato
confrontato" spiega colui che, durante questi ultimi anni, si è tagliato una
reputazione di ballerino profondamente avanguardista e novatore.
Considera: "Non ho mai ballato in questo genere di luoghi prima, ma è importante
per un ballerino, venire a respirare un altro tipo di energia, diverso da quello
dei teatri".
L'incontro, con l'iniziativa della rivista culturale "Mouvement" e
dell'associazione "Perou" che viene in aiuto ai rom, non si ferma qui. Durante
quattro sere, Israel Galvan invita dodici abitanti del bidonville a venire per
assistere al suo spettacolo al Théatre de la Ville, che continuerà fino al 20
febbraio.
Dice che è importante che vengano a vedere lo spettacolo, in quanto questo parla
della loro storia.
Città Nuova 23-02-2013 a cura di Antonio Cecchine
Intervista a due operatori sanitari di un'Asl romana che opera nei
campi nomadi. Il pregiudizio, l'amicizia, le cose da cambiare
Dopo la denuncia e la proposta lanciata dal presidente dell'associazione 21
luglio a proposito dei campi rom nella Capitale, cominciamo un viaggio nella
vita quotidiana di un medico pediatra (Riccardo) e di una infermiera (Stefania)
chiamati ogni giorno ad intervenire dentro un contesto sociale poco conosciuto e
che genera incomprensioni e pregiudizi. Per motivi di riservatezza i nomi sono
di fantasia.
E' un mondo, quello dei rom, che sembra da sempre "fuori posto". Al massimo gente
da tollerare...
Riccardo: "È l'approccio peggiore! È come dichiararsi sconfitti in partenza. E
poi non dimentichiamo che "fuori posto" ci sono stati messi. Gli zingari hanno
una storia antica di persecuzioni e deportazioni feroci. Pensate ai tempi del
nazismo. Ma anche recentemente (vedi rom della Bosnia) molti sono dovuti fuggire
dalla loro terra per salvare la pelle: persone che avrebbero diritto allo status
di rifugiati. Comunque sia, è vero che i rom hanno una loro originalità, e si
infilano in genere tra gli spazi di degrado urbano delle nostre periferie. È un
universo parallelo, alternativo, nomade: il them romanò, in effetti abbastanza
allergico alle strutture".
Ma allora come riuscite a dare continuita' al vostro lavoro, vista questa
condizione nomade?
Riccardo: "Forse è utile partire da un po' di storia. La realtà dei rom, dei sinti e dei camminanti
è complessa e antica. Nell'area romana la presenza
zingara risale al XVI secolo, nel rione Monti c'è ancora la lunga via degli
Zingari a confermarlo. Dietro alla parola "nomade" o zingaro o rom in realtà c'è
un universo complesso. Il nomadismo stesso –anche se in realtà i rom sono ormai
una realtà quasi del tutto stanziale, in Italia – non va pensato come una cosa
strana, appartiene alla storia dell'umanità. Un tempo eravamo tutti dei nomadi.
Nell'anima il popolo rom continua a vivere così, giorno per giorno, senza
preoccuparsi del futuro. Di fatto, vive nei campi, ma la stanzialità è, in
genere, gestita male. Il campo è spesso sinonimo di ghetto".
Considerando la loro diffidenza per le strutture, non deve essere semplice
"inquadrare le situazioni sanitarie", come vi muovete?
Riccardo: "L'esperienza di questa equipe partita nel 2006 è stata quella di
partire dai loro bisogni di salute senza imporre schemi rigidi. Anche se è
chiaro che la prima cosa che salta alla vista è la necessità di curare. Di
prevenire. Ma abbiamo capito che per riuscire era importante partire dalle loro
richieste e soprattutto costruire appunto rapporti di fiducia".
Quindi accettano la vostra offerta di cure?
Stefania: "Dopo anni di lavoro, ormai direi di sì. Certo, c'è ancora un grande
percorso da fare, anche come integrazione sanitaria, ma sta andando bene.
Prendete il campo della Cesarina. Dopo 7 anni di presenza continua e rispettosa
della loro identità e diversità cultuale, le risposte arrivano. Il tasso di
vaccinazioni dei rom bosniaci è intorno al 90 per cento, cosa impensabile anni
fa. L'affluenza negli ambulatori dedicati a Stp ed Eni (acronimo dei codici
sanitari per Stranieri temporaneamente presenti o Europei non iscritti) con
richiesta di visite ginecologiche e pediatriche e specialistiche è aumentata".
Che patologie sono riscontrabili in campo pediatrico?
Riccardo: "Fare il medico nei Campi per visitare i bambini rom è un po' come
compiere un balzo spazio-temporale. All'indietro. Si ritrovano patologie antiche
come la Tbc, o altre ancora presenti tra noi, ma più diffuse".
E riuscite a curarle?
Riccardo: "Si tamponano le urgenze come si farebbe per qualunque altro bambino. E
si lavora sulla prevenzione, vedi vaccinazioni a tappeto. Ma il vero nodo
starebbe nel migliorare le condizioni sociali, igieniche e alimentari. Nel poter
fare un'educazione sanitaria continua. Tutte cose che hanno fatto miracoli per i
bambini italiani, dal dopoguerra in poi. La nostra esperienza ci fa dire che
l'unica è partire dalle donne, vero fulcro della famiglia rom, per arrivare ai
bambini, che sono –per loro come per noi- il futuro".
Come va con la scuola nei campi?
Riccardo: "Finché i bambini nei campi vivranno in condizioni sub-umane, è pura
utopia pensare la continuità scolastica. Sapete che al campo della Cesarina,
dove sono stati investiti centinaia di migliaia di euro, adesso non c'è più
nemmeno l'acqua, visto che l'attuale gestione pare l'abbia tolta? Anche l'unica
fontanella del Comune non c'è più. E la gente va a comprare le bottiglie di
acqua minerale non solo per fare da mangiare, ma anche per lavarsi e lavare i
bambini... Condizioni fatiscenti e potenzialmente a rischio epidemia".
Resta prevalente,quindi, l'aspetto sanitario?
Riccardo: "Proprio così! E' chiaro che anche per un sanitario che si impegni a
"diagnosticare e prescrivere", insomma curare, è frustrante se mancano i
presupposti fondamentali della salute, come l'igiene. Come l'accesso all'acqua,
vero diritto fondamentale. Ed è per questo che anche noi non possiamo starcene
zitti".
E come sono i bambini rom?
Stefania: "Sono vispi, acuti, maturano molto presto. Interessati a tutto, hanno
uno sviluppo cognitivo accelerato, con autonomia e intraprendenza incredibili.
Sulla breve distanza avrebbero da dare molti punti ai nostri bambini, cresciuti
nella bambagia".
Riccardo: "Quando li vedi giocare o danzare ti accorgi di tutto un patrimonio
che potrebbe essere valorizzato. Ed esistono moltissime esperienze positive a
riguardo nate dal volontariato, che fa un lavoro preziosissimo nei Campi.
Purtroppo sono talenti che vengono bruciati in fretta perché qui l'infanzia
è
breve, si diventa presto adulti".
Stefania: "Ci dovremmo chiedere: come sfruttare questo patrimonio umano che
abbiamo? Domanda che una società civile dovrebbe farsi non solo per i bambini
rom, ma per tutti i bambini stranieri nati in Italia, e che ancora non hanno
diritto di cittadinanza. Con i rom sarebbero utili offerte di tipo sportivo, o
teatrale, o musicale. E avremmo risultati eccellenti".
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