L'arte puo' cambiarti la vita: anche se abiti in una baracca, in un campo rom.
Parola di una giovane pittrice, Rebecca Covaciu.
A giudicare dall'accoglienza che riceve quando presenta il suo libro e dai nomi
delle persone che lo presentano con lei (Lella Costa, Lorella Zanardo, Don Gino
Rigoldi...), si direbbe che fa piu' per la cultura rom questa ragazzina di 16 anni
che un qualunque giornalista, scrittore, antropologo. Rebecca Covaciu e' nata in
Romania, ha vissuto in Sud America e in Spagna, poi con la famiglia e' approdata
a Milano, dove per anni ha dormito dove capitava: in una baracca, all'aperto.
Quando si e' presentata al liceo artistico Boccioni per iscriversi, ha portato
con se'
un quaderno pieno di disegni colorati, ognuno dei quali accompagnato da
qualche parola: il suo diario. Lo ha consegnato al preside e ora questo piccolo
capolavoro e' stato pubblicato, accompagnato da un testo che racconta la sua
vita: si intitola L'arcobaleno di Rebecca (UR editore, euro 11,70, sito:
www.rebeccacovaciu.it).
Rebecca dipinge e vende i suoi lavori sui Navigli, studia, va a parlare nelle
scuole, rilascia interviste ai media. Parla con la saggezza di un'adulta,
sorride con la spontaneita' una bambina.
Che effetto ti fa essere intervistata, applaudita...
"Sono molto felice, perche' finalmente una ragazza rom riesce a parlare della
propria cultura, a dire che anche noi siamo esseri umani. Essere applaudita mi fa
sentire al cuore un'emozione positiva. Anche i miei genitori sono contenti: loro
non hanno studiato e sono molto fieri di me".
Com'e' il tuo rapporto con i compagni di scuola?
"Alle medie e' stata dura perche' non mi hanno accolto bene, dicevano che ero una
zingara e rubavo. Io mi sentivo male, mi chiedevo: perche' devo essere
discriminata perche' sono nata cosi'? Ma adesso al liceo artistico va bene, perche'
tutti gli artisti hanno una parte buona nel cuore... ".
Come descriveresti i tuoi coetanei italiani?
"Sono aperti, semplici... in Romania gia' a 14 anni i ragazzi hanno una mentalita'
quasi da adulti, pensano a lavorare. Qui fanno una vita piu' ricca, sono puliti,
hanno vestiti di marca, l'iPod...".
Cosa rispondi quando ti chiedono di dove sei?
"A volte dico che vengo dalla Romania, perche' e' piu' facile che dire di essere
rom... I rom non hanno stabilita', non hanno una terra. Pero' io mi sento una rom di
Romania".
Come ti piacerebbe che cambiasse l'atteggiamento degli italiani nei confronti
del tuo popolo?
"Vorrei che fossero piu' pazienti, specie nei confronti dei bambini. Che
comunicassero con loro, prima di giudicare".
Molti pensano che ai rom non piaccia abitare nelle case.
"Non e' cosi': chi li vede nelle baracche crede che vogliano stare li'. Ma la verita'
e' che arrivano dalla Romania, dalla Spagna, non hanno un soldo in tasca,
e dove posso andare? Sarebbe diverso se la legge prevedesse l'assegnazione di
una casa. Noi in Romania ne avevamo una, ma a Milano abbiamo sempre abitato
nelle baracche. Da poco, abbiamo una casa: ma mancano le finestre, il
riscaldamento, le piastrelle per terra. Non e' facile viverci, ma sono contenta
che Dio ci abbia dato un tetto sulla testa, per non provare piu' la pioggia e il
freddo".
Un tempo chiedevi anche tu l'elemosina...
"Chiedere aiuto ti fa vergognare: all'inizio e' difficile, poi ti ci abitui.
Spesso, pero', non ti aiuta nessuno. E a volte ti gridano: "Vai a lavorare, non
ti vergogni?" e in quel momento tu non sai cosa dire, perche' hai bisogno e sei
obbligato fare l'elemosina. A me spiace in particolare per quelli che fanno
l'elemosina perche' non hanno le gambe... al posto di dargli una moneta, sarebbe
bello che qualcuno gli desse una casa, che ci fosse un posto dove potessero
vivere: gli servirebbe anche ad aprire la mente, perche' loro pensano che l'unica possibilita' che hanno
e' la strada".
Tu come l'hai aperta la tua mente?
"Con la fede in Dio e nel Vangelo. Da noi non vieni battezzato da piccolo:
quando sei adulto sei libero di scegliere la tua religione. Io ho scelto quella
Evangelica Pentecostale".
Parliamo di pittura: cosa rappresenta per te?
"La mia arte e' semplice come una preghiera. I colori sono importanti per
mostrare la tristezza e la felicita': quando uso quelli scuri significa che sono
triste, quelli chiari esprimono gioia. Quando dipingo e' come se entrassi dentro
al quadro, penso a delle cose felici e vorrei che quello che disegno succedesse
nella realta'. Mi sento piu' rilassata".
Cosa pensano i tuoi amici rom di quello che ti sta accadendo?
"Di miei coetanei, a Milano, ne sono rimasti pochi: sono tutti partiti perche'
non avevano un posto dove dormire. Ma i ragazzi piu' grandi che vivono ancora qui
sono contenti che io parli della nostra cultura. Nel nostro cortile, poi, ci
sono tanti africani e quando mi hanno visto al Tg3 mi hanno detto: "Brava che
hai parlato di tutti gli stranieri!". Quasi piangevano dalla gioia. E questo mi
ha reso felice".
I colori della vita. La storia di Rebecca Covaciu a "Nel cuore dei
giorni"
Il teatro come strumento di inclusione sociale. E' questo il tema sul quale ha
lavorato quest'anno il festival "Fuori dagli schemi" di Belgrado. Affrontando la
tensione tra il promuovere l'integrazione dei gruppi marginali e il rischio che
la loro 'rappresentazione' possa invece rafforzare lo stigma
Van okvira, fuori dagli schemi. Si chiama così il
festival regionale del teatro
sociale che si è svolto in questi giorni a Belgrado. È un nome che si presta a
un curioso bisticcio linguistico, che è ricorso spesso nei discorsi di contorno
suscitando più di qualche risolino. 'Nell'ambito del festival Van okvira' si
dice infatti 'u okviru festivala Van okvira', che è una specie di contraddizione
in termini, traducibile come 'nella cornice del festival Fuori dalla cornice'.
È un bisticcio rivelatore, perché mette in luce la tensione fondamentale sottesa
al teatro sociale: quella tra la volontà di promuovere l'integrazione dei gruppi
marginali della società e il rischio che la loro 'rappresentazione' possa invece
contribuire a rinsaldare i margini e rafforzare lo stigma. Una questione che le
persone coinvolte nel festival hanno avuto la saggezza e il coraggio di
affrontare apertamente.
Persone con invalidità, non-vedenti e ipovedenti, sordomuti, utenti di servizi
psichiatrici, veterani delle guerre jugoslave, minoranze etniche (tra cui i
rom), individui LGBT, anziani, lavoratrici sessuali, donne vittime di violenza.
Sono queste le categorie di persone con cui gli organizzatori e le
organizzatrici del festival Van okvira di quest'anno hanno provato a elaborare
il tema del teatro come strumento e campo di inclusione sociale.
L'incontro tra arte e marginalità ha preso varie forme. Ovviamente quella
teatrale, con spettacoli che hanno visto la partecipazione di persone
appartenenti ai suddetti gruppi emarginati. Ma anche quella didattica e
informativa, con lezioni e presentazioni tenute da esperti sia locali che
internazionali. E infine quella esplorativa, con un ciclo di incontri
partecipativi sulle forme attuali e possibili dell'arte socialmente impegnata
nella regione post-jugoslava.
'La sensualità delle vite disperate'
Gli spettacoli messi in scena nell'ambito di Van okvira sono soprattutto
produzioni indipendenti, nate dalla collaborazione tra professionisti del teatro
e le associazioni e i movimenti che rappresentano gruppi soggetti ad esclusione
sociale.
Lo spettacolo Cabaret dietro lo specchio (Kabare "Iza ogledala"), ad esempio, ha
come protagoniste delle lavoratrici sessuali transgender di Belgrado, e si
propone di descrivere senza eufemismi le norme sociali, ma anche politiche e
legali, che determinano la loro esistenza e ne influenzano il benessere. SS e
più in alto ancora (SS and above) rappresenta invece le sfide con cui le persone
con invalidità si confrontano ogni giorno, a partire dalla difficoltà di entrare
in una relazione alla pari con le persone cosiddette 'normali'. I due
personaggi, un uomo e una donna, si muovono a fatica sotto lo sguardo clinico di
un osservatore esterno e invisibile, come due cavie da laboratorio. Prendono
gradualmente confidenza con il proprio corpo, e poi con il corpo altrui, ma
l'agognato incontro finale, invece che essere liberatorio, genera ancora più
sofferenza e frustrazione.
Lo spettacolo Maschioni (Muškarčine), vero successo di pubblico, vede otto
ragazzi poco meno che ventenni prendersi gioco delle definizioni di 'maschio
vero' dominanti nella società serba. La trasgressione è rappresentata come un
continuo entrare e uscire da degli scatoloni di cartone, i gender box.
Alla leggerezza e al tono canzonatorio di Maschioni fa da contrappunto la forte
inquietudine che suscita la rappresentazione Spettacolo (che non s'intitola
fighe con le palle girate) [Predstava (koja se ne zove "pičke u kurcu")]. Due
ragazze sedute a un tavolo leggono composte un testo femminista. All'improvviso
una delle due ribalta il tavolo, e la situazione degenera in una spirale di
sfoghi emotivi, oscenità corporee e momenti disturbanti. Ciò che lo sguardo
conformista tende a congedare come 'scenata isterica' qui diventa confronto
ineludibile con la natura problematica della posizione della donna nella società
attuale. E quando alla fine dello spettacolo si spengono le luci, le cose non
sono più come prima.
Il teatro sociale è, per propria natura e vocazione, un teatro 'senza censura',
proprio perché ambisce a rendere visibili e mettere in discussione proprio le
forme di censura e discriminazione cui sono soggetti tutti coloro che si
discostano dalla 'tirannia della normalità'. Tuttavia, portare in scena la
marginalità e la 'stranezza' (ovvero ciò che non aderisce alle convenzioni)
porta con sé un pericolo. Quello che la rappresentazione diventi attrazione (da
parata o da circo), e che all'intento pedagogico e politico si sostituisca la
curiosità morbosa del pubblico. Ed è forse proprio qui che entra in gioco
l'arte, chiamata a mediare tra la volontà di esprimere un messaggio e il rischio
che la visibilità si riduca a voyeurismo.
Marko Pejović, uno degli ideatori di Van okvira, mi invita a considerare anche
un altro aspetto: 'Sono successe cose che non ci aspettavamo. Ad esempio una
lavoratrice sessuale transgender, protagonista del primo spettacolo in scaletta,
era presente tra il pubblico degli spettacoli dei giorni seguenti. Questo
significa che qui si è sentita al sicuro, al riparo dalle discriminazioni'. Come
a dire che l'inclusione avviene anche, e forse soprattutto, fuori dai
riflettori.
Il teatro sociale nel contesto post-jugoslavo
Chiedo a Marko quale sia per lui il senso di fare teatro sociale. In
particolare, lo invito a riflettere proprio sul rischio che la rappresentazione
della marginalità possa avere effetti controproducenti, in un contesto segnato
da forti discriminazioni come quello post-jugoslavo. La sua risposta è lucida e
misurata: 'La società si evolve per gradi. Il primo passo è l'identificazione
del problema, ovvero la consapevolezza dell'esclusione sociale e della
privazione di diritti. Noi ci troviamo ancora in questa fase. In questo senso,
il festival ha come proposito quello di offrire ai gruppi emarginati uno spazio
per esprimersi artisticamente. Nel passato siamo riusciti a dimostrare che anche
una persona paraplegica può fare danza contemporanea. È quello che questo
festival fa anche oggi: rompe le barriere'.
Il progetto Van okvira coinvolge persone ed associazioni provenienti da vari
paesi della regione, in particolare Croazia e Bosnia Erzegovina. Mi interessa
sapere se ci siano energie sufficienti per stabilire una collaborazione efficace
a livello regionale. O se invece la dimensione regionale del festival non sia
soprattutto l'effetto delle politiche dei donatori, che spesso la impongono come
requisito imprescindibile.
Marko precisa subito che la decisione di coinvolgere soggetti provenienti da
altri paesi non è il risultato di una pressione esterna, ma scaturisce invece
dalla volontà di raccogliere esperienze diverse. Ammette poi che nell'ambito del
teatro sociale le reti di collaborazione non sono molto sviluppate. Ma aggiunge:
'Non sono particolarmente interessato alle produzioni teatrali socialmente
impegnate che si sono già 'istituzionalizzate' e che circolano per la regione.
Trovo più interessanti le iniziative minori e indipendenti, le organizzazioni
che raccontano cose nuove e fresche, e che anzi spesso non sanno neanche bene
che cosa raccontano. È a loro che ci rivolgiamo'.
Come avviene il cambiamento?
Prima di congedarci, Marko mi spiega cosa lo ha portato ad occuparsi della
promozione del teatro sociale. La sua passione è nata a seguito di due eventi:
un'operazione agli occhi, che lo ha costretto a un periodo di cecità temporanea
durante il quale si è accorto degli enormi ostacoli che segnano la vita delle
persone non-vedenti. E un incontro con dei veterani delle guerre degli anni '90
(anche il fratello di Marko è un veterano) che hanno espresso il desiderio di
esprimersi attraverso il teatro. Due momenti che per Marko hanno costituito una
specie di illuminazione.
C'è un concetto, sviluppato dalla filosofa sociale Nomy Arpaly, che descrive
bene l'esperienza di Marko: dawning (alba, epifania). Scrive Arpaly (2003):
'L'epifania è forse il modo principale in cui le persone cambiano idea,
specialmente riguardo ai temi che ritengono importanti. [...] Sono poche le
persone che abbandonano pregiudizi razzisti, per esempio, a seguito di un
processo di deliberazione. È più frequente che l'irrazionalità dei loro
pregiudizi appaia loro 'come un'alba' dopo aver trascorso abbastanza tempo con
persone della razza in questione, ed essersi accorti, passo a passo, di
assomigliarsi molto'.
Il senso del teatro sociale è forse soprattutto questo: creare occasioni di
incontro tra persone che 'normalmente' conducono esistenze separate e spesso
segregate. E favorire così il manifestarsi di qualche piccola alba.
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