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La redazione
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Fabrizio (del 26/02/2009 @ 09:33:15, in scuola, visitato 2781 volte)


Associazione di Volontariato
Opera Nomadi Milano Onlus
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Dopo circa 6 mesi dall’avvio del nuovo anno scolastico, l’Assessore Moioli è in procinto di rinnovare l’incarico a termine alle 10 mediatrici Rom che da molti anni lavorano nella scuola primaria milanese.

Lo farà secondo il suo stile, quello cioè per lo più incurante del buon andamento dei servizi e del rispetto delle persone, che siano operatori, utenti o cittadini poco importa.

Lo farà cambiando le carte in tavola, o le "regole", secondo una tipica espressione ricorrente che però non trova quasi mai riscontro negli atti formali di questa Amministrazione.

Lo farà frammentando una storia, quella di un gruppo di donne rom, che non solo hanno saputo e potuto costruire la propria professionalità attorno all’esperienza avviata e sostenuta dalla sola Opera Nomadi in tutto il contesto milanese, ma approfittando di continue proposte di studio e aggiornamento portate avanti negli anni con l’attivo sostegno dell’Università e del CSA di Milano.

Lo farà infine, con la complicità e il "disinteresse" di quanti sono nel frattempo subentrati nella gestione dei campi comunali milanesi (associazioni, fondazioni e cooperative che si "spartiranno" il nuovo "scomodo" personale), accettando di rimanere troppo spesso in silenzio di fronte a quanto di negativo e sconcertante sta accadendo.

Il fallimento totale delle politiche sociali appare oggi infatti persino peggiore e devastante dello stato di abbandono in cui l’Amministrazione Albertini aveva lasciato questi insediamenti, privandoli di risorse, strumenti di dialogo e integrazione e peggiorandone quindi, inevitabilmente la condizione.

Ma che cosa è cambiato in questi due anni?

A partire dal famigerato "Patto di legalità e socialità", sostenuto oltre che dal Comune, dalla Prefettura, dalla Provincia di Milano e dalla Casa della Carità, la voragine che si è aperta attorno ai Rom appare inarrestabile, divorando e calpestando i diritti delle persone come se queste nemmeno esistessero.

Il prossimo passo, dopo un inizio d’estate caratterizzato dalla "caccia alle impronte" e da un censimento maldestro e ben poco veritiero, sarà quello della stesura definitiva di un Regolamento delle aree comunali che manderà definitivamente in soffitta la storia di un confronto spesso difficile e contrastato, quello tra i rom e la città, ma attorno a cui almeno si continuava a ragionare.

Regolamento o resa dei conti?

Riportiamo di seguito un intervento ripreso dal libro "I Rom e l’azione pubblica" (Teti editore – Milano – Novembre 2008) sulla storia e il significato della mediazione culturale in ambito scolastico e sanitario nella nostra città da parte di un gruppo di donne rom.

Introduzione
Sono trascorsi 15 anni da quando, a Milano, l’Opera Nomadi avviò il primo corso di formazione per mediatrici culturali scolastiche rivolto inizialmente a dieci giovani donne rom.

Da allora, altre romnià hanno seguito questa strada, lavorando fianco a fianco con gli insegnanti, nei consultori familiari, nelle amministrazioni locali e finanche nel Carcere di Bollate.

Alcune di loro hanno nel frattempo conseguito un diploma, frequentato corsi tenuti da docenti universitari, partecipato come relatori a master e convegni, imparando a gestire un lavoro complesso in condizioni di grande precarietà e di sostanziale isolamento sociale.

Certamente, il contesto culturale di quasi due decenni fa esprimeva un orizzonte di situazioni e relazioni critiche ma comunque aperte al cambiamento, dove anche i rom si illudevano di cimentarsi in un confronto nuovo alla ricerca di un proprio spazio di rappresentazione sociale e politica.

Oggi non più. L’isolamento spaziale dei campi nomadi, quelli che molti definiscono con qualche eccesso delle pattumiere sociali ma che segnano il confine simbolico e materiale di una separazione reale, unitamente al forte pregiudizio politico, fulcro di politiche amministrative discriminatorie ed inefficaci, hanno ristretto fin quasi ad annullare del tutto questa prospettiva.

Le cose cambiano? Sì, un po’, lentamente, faticosamente. Ma la realtà, guardata dal punto di vista dei Rom è sempre quella: il fastidio, la diffidenza, il disprezzo, l’apartheid.

Immobili, permanenti, pesantissimi.

La fase contemporanea è segnata da un’assenza di proposte e dal congelamento delle risorse pubbliche. Assistiamo invece un po’ attoniti all’inasprimento di norme ideologiche autoritarie e sanzionatorie (a Milano e Roma rappresentate dai "Patti di Legalità e socialità"), mitigate nei lori effetti più devastanti da un complice sostegno offerto da enti e fondazioni ecclesiastiche promotori di interventi assistenziali e caritatevoli. Non di diritti.

Quand’anche i più attenti critici fanno osservare che spessissimo gli investimenti pubblici non raggiungono le persone alle quali sarebbero indirizzati, se non in forme indirette e di servizi dei quali sono solo fruitori, si dimenticano di indicare attraverso quali processi alternativi i rom potrebbero appropriarsi di strumenti indispensabili per agire sul proprio destino.

Perché i problemi esistono e sono reali e si chiamano mancanza di istruzione, lavoro, riconoscimento e tutela della salute, scarsità o inadeguatezza di abitazioni e abbandonati a loro stessi e al tentativo contraddittorio e lacerante di tenere insieme, in un equilibrio instabile, valori e modelli tradizionali con quelli imposti dall’asimmetria economica e culturale della globalizzazione, non possono che aggravarsi.

Ogni cultura dà per scontato che il proprio modo di comunicare, i suoi valori, le rappresentazioni della realtà siano in un certo senso uniche o migliori e che gli altri, per esempio gli appartenenti alle minoranze, debbano adeguarsi anche senza condividerle.

E’ necessario invece aumentare le capacità di interazione delle comunità e consolidare la presenza di figure professionali, quali i mediatori culturali, che mettano in comunicazione e sinergia concittadini con pari dignità, offrendo a sinti e rom la possibilità di un riconoscimento di loro stessi come membri di una comunità che si oppone alla logica della cultura dell’assimilazione e dell’emarginazione.

La presenza dei mediatori culturali rom nei servizi socio sanitari e scolastici
La formazione e l’inserimento di mediatori culturali ha finora riguardato il consolidamento di esperienze positive di accoglienza e integrazione scolastica per lo più rivolte a comunità stabilmente insediate sul territorio milanese e provinciale.

Il forte incremento della popolazione rom straniera e la richiesta di nuove iscrizioni da parte delle famiglie di recente immigrazione, porrebbe tuttavia la necessità di estendere il ricorso a nuovi mediatori culturali che siano anche espressione dei gruppi più significativi (romeni e yugoslavi), i quali costituiscono i due terzi dell’attuale popolazione rom, consentendo alle Scuole di contrastare con maggior efficacia il fenomeno della dispersione scolastica e potendo contare sull’operato di una significativa rete sociale di sostegno.

In tal modo sarebbe possibile promuovere una effettiva distribuzione sul territorio cittadino della gran parte dei minori in età scolare garantendo un effettivo diritto allo studio.

L’insegnamento della lingua e cultura rom costituirebbe un’esperienza innovativa di forte interesse per i minori iscritti nella scuola dell’obbligo e un’opportunità di conoscenza per tutto il gruppo classe e gli insegnanti.

La lingua infatti, è il tratto identitario più forte della cultura rom ma è altresì trasmessa solo oralmente e pochi sono gli educatori rom in grado di insegnarla.

La trascrizione faciliterebbe inoltre il passaggio da un apprendimento di tipo mnemonico, agrafico, alla familiarizzazione e interiorizzazione della scrittura non vissuta solo come un veicolo di comunicazione estraneo.


Il progetto iniziale di formazione di mediatrici culturali rom si realizzò a Milano a partire dalla metà degli anni ’90 con l’obiettivo di favorire un positivo dialogo tra l’istituzione scolastica e le famiglie zingare, facilitando l’inserimento e l’apprendimento scolastico dei bambini, nel rispetto e recupero della propria identità culturale.

In particolare, considerati i pregiudizi presenti nei confronti dei Rom e dei bambini presenti a scuola, insieme al Provveditorato agli Studi venne deciso di inserire nelle classi dei mediatori culturali provenienti dai campi nomadi, che col trascorrere del tempo diventarono un punto di riferimento autorevole pei i bambini, le loro famiglie, gli insegnanti intervenendo significativamente anche sul problema della dispersione scolastica.

Un ulteriore passaggio, di particolare interesse perché integrò azioni fra loro diverse ma con obiettivi comuni, fu quello di rispondere alla richiesta, soprattutto delle giovani donne, di aveve un’occasione di lavoro e istruzione, aprendosi a un confronto positivo con la realtà esterna.

Il Corso di formazione venne realizzato nel 1993 in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano (équipe coordinata da Susanna Mantovani, allora docente di Pedagogia Sperimentale, oggi vice Rettore all’Università Milano Bicocca).

Nel 1996, le mediatrici parteciparono a un aggiornamento (della durata di 50 ore) gestito sempre in collaborazione tra Università e Opera Nomadi.

Questo secondo momento di formazione, preceduto da un’attività di ricerca (interviste e colloqui con le mediatrici e con insegnanti e dirigenti scolastici), ebbe lo scopo di monitorare l’andamento dell’esperienza, offrendo un supporto formativo in campo pedagogico e culturale e rilanciando il ruolo delle mediatrici culturali all’interno della scuola e con le stesse famiglie zingare (analisi e riflessione sulle problematiche emerse, bisogni specifici di cui prima si era consapevoli in modo generico, prospettive future di cambiamento).

All'inizio del 1998 le mediatrici culturali, sostenute dalle scuole e dai loro dirigenti, vennero incaricate direttamente dall'Amministrazione Comunale con contratto diretto, per poi passare nuovamente per un triennio in convenzione con l’Opera Nomadi e, dall’inizio del 2008 ancora una volta con contratto a termine con il Comune.

Ogni passaggio di natura "contrattuale" non fu estraneo alle difficoltà e ai contrasti politici del momento, ma nascose e accompagnò l’insidia di un’interruzione del rapporto di lavoro che da allora rimane pur sempre di carattere precario.

Nel 2005, l’allora Ministro del MIUR Moratti, oggi Sindaco di Milano e il Direttore Generale, Moioli, oggi Assessore ai Servizi Sociali ed Educativi, firmarono un Protocollo d’Intesa con l’Opera Nomadi Nazionale per la diffusione dei progetti di mediazione culturale nelle Sovrintendenze Regionali Scolastiche.

Dal 2005 al 2007, grazie ad un progetto finanziato dall’Assessorato alla Famiglia e Solidarietà Sociale della Regione Lombardia, 15 mediatrici ebbero la possibilità si seguire dei corsi retribuiti di formazione e tirocinio (100 ore annue), con ricercatori dell’Università Bicocca, Dirigenti e Funzionari dell’Ufficio Scolastico Provinciale, conseguendo dei diplomi di scuola superiore e la certificazione per l’insegnamento della lingua italiana.

Tra il settembre e il dicembre 2007 lo stesso Assessore Moioli non rinnovò la convenzione con l’Opera Nomadi di Milano, lasciando per 4 mesi senza lavoro le mediatrici e contemporaneamente rescindendo il contratto di lavoro a 2 cooperative rom che operavano nei campi nomadi comunali. Altri 20 posti di lavoro in meno.

Dopo 23 anni di servizio, diretto e indiretto, per l’Amministrazione Comunale, l’unico Rom diplomato che collaborava con un servizio sociale di coordinamento, esprimendo uno dei più alti livelli di professionalità esistenti in Italia venne, senza alcun motivo, lasciato a casa.


Com’è immaginabile, molteplici furono le difficoltà incontrate dalle mediatrici, soprattutto nei primi anni di attività: preparazione iniziale insufficiente, richieste eccessive delle scuole che non ne compresero appieno la funzione.

Benché anche attualmente i loro compiti non siano stati del tutto definiti con chiarezza, per cui alle mediatrici si chiede contemporaneamente di provvedere all’accudimento dei bambini fino all’assunzione del ruolo di insegnanti e al mantenimento dei rapporti con le famiglie, la centralità del ruolo della "mediazione culturale" appare aver integrato significativamente l’offerta scolastica.

Le mediatrici affiancano le insegnanti agendo sull’intero gruppo classe e stabilendo dei contatti e comunicazione con le famiglie rom ma senza scaricare su se stesse un compito di mediazione che dovrebbe prima di tutto riguardare sempre il docente.

Le mediatrici oggi vantano un percorso di crescita formativa che le ha portate ad assumere una notevole consapevolezza e capacità di riflessione rispetto al loro ruolo e ai loro compiti, con cognizione di molte delle contraddizioni irrisolte, delle difficoltà incontrate, dei momenti di conflitto che hanno imparato a gestire e a superare anche grazie ad una autentica capacità di mediazione culturale conquistata sul campo.

L’esperienza condotta in questi anni ha sicuramente permesso loro di crescere umanamente e culturalmente, di confrontarsi in modo ravvicinato con il mondo dei cosiddetti gagé al di là dei reciproci stereotipi e pregiudizi e di testimoniare, all’interno della famiglia e della comunità rom un diverso ruolo della donna.

La possibilità di guadagnarsi onestamente da vivere con un lavoro qualificato, stimolante e di sicura utilità per i bambini rom oltre che per tutta la scuola, senza essere costrette alla mendicità o ad altri espedienti, è un’esperienza preziosa non solo da salvaguardare, ma da promuovere ulteriormente (per esempio aumentando il loro impegno lavorativo a scuola, oppure puntando al riconoscimento giuridico del ruolo nelle scuole dell’infanzia o nella scuola primaria).

Queste giovani donne hanno acquisito un certo grado di autonomia e indipendenza dalla famiglia, dopo un periodo di difficili rapporti perché oggetto di invidie e di rivalità da parte delle altre donne e, per quelle sposate, di difficoltà a conciliare il proprio ruolo di madri e di mogli con l’impegno lavorativo.

Esse si sono guadagnate il rispetto di molte famiglie rom proprio per il ruolo che svolgono nella scuola. Grazie alla loro presenza, i genitori affidano più volentieri i loro figli, sapendo che esse possono essere un interlocutore diretto ed affidabile, domandando direttamente ad esse oltre che all’insegnante che cosa accade ai loro bambini, come e che cosa imparino o non imparino, quali siano i problemi e le difficoltà da superare.

L’essersi impossessate di alcuni strumenti culturali del mondo alfabetizzato, senza venir meno al rispetto dei valori della cultura di origine, l’aver lavorato all’interno dell’istituzione scolastica e l’aver conosciuto regole e condizioni di vita profondamente diverse dalle loro, ha potenziato le loro capacità che, unitamente alle peculiari doti e risorse della cultura rom, ha permesso loro di assumere iniziative e di reagire anche agli aspetti di incertezza della loro condizione lavorativa.

In questi anni le mediatrici hanno acquisito maggiore autonomia ed autorevolezza, maggiore capacità d’iniziativa e di collaborazione nel rapporto con docenti e dirigenti scolastici e maggiore consapevolezza delle regole che il lavoro dentro l’istituzione scolastica comporta. Esse svolgono un ruolo cruciale nel primo inserimento dei bambini rom a scuola e collaborano con le insegnanti nel predisporre il setting dell’esperienza educativa e nell’attivazione dei dispositivi necessari all’accoglienza dei bambini.

La loro conoscenza dei bambini e delle loro famiglie, la conoscenza della loro cultura e soprattutto l’uso della lingua materna, il romanés, lingua che viene così riconosciuta ed anche valorizzata, sono i punti di forza della loro opera di mediazione culturale in tutti i contesti d’ interazione e di relazione.

Svolgono cioè un ruolo cruciale nella mediazione dei conflitti e nella prassi educativa e didattica.

Attraverso questa esperienza le mediatrici hanno acquisito anche capacità d’insegnamento, non solo nei confronti dei bambini rom, ma anche verso gli alunni stranieri e quelli con difficoltà di inserimento e apprendimento. Ciò è avvenuto affiancando le insegnanti delle classi o gestendo direttamente i bambini nell’apprendimento svolto in piccoli gruppi e nelle attività di laboratorio.

In particolare, sul piano metodologico e didattico, esse hanno compreso il valore di una didattica che si fondi:

  • sull’imparare facendo e giocando
  • sulla predisposizione degli spazi e sull’organizzazione degli ambienti e dei materiali
  • sull’esperienza della narrazione (recupero del patrimonio orale delle fiabe e dei racconti di vita zingara)
  • sullo sviluppo della creatività.

I dati dell’aumento della frequenza scolastica e dell’innalzamento degli obiettivi formativi degli alunni rom, costituiscono un’ulteriore conferma della validità del loro operato e sono, certamente, l’intervento di politica sociale più convincente attuato a favore delle comunità rom.

Sastipe (Stare bene): salute e scenari culturali
La salute è un fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività… recita l’art. 32 della Costituzione. Badate bene: "dell’individuo e della collettività (ricordava Carlo Cuomo). Abbiamo visto con quale drammaticità si pone, per le comunità zingare, la questione della salute ma anche dell’intervento coordinato dei servizi socio sanitari territoriali, così come una specifica formazione degli operatori riguardo alla realtà antropologica delle comunità e la collaborazione dei mediatori.

Le problematiche sanitarie
L’analisi dei fenomeni sanitari evidenzia aspetti di grave preoccupazione, legati soprattutto all’assenza di interventi mirati di prevenzione e cura delle principali patologie riscontrabili.

Gli indici relativi ai tassi di natalità, morbilità, mortalità rilevabili nei diversi gruppi rom e sinti sono drammaticamente accostabili a quelli dei Paesi poveri del sud del mondo e sono la conseguenza diretta non solo delle cattive condizioni di vita ma anche di un rapporto con le strutture sanitarie di base e quelle ospedaliere incerto ed occasionale.

I sistemi informativi sanitari risultano inadeguati per fornire informazioni specifiche sulle caratteristiche dell’utenza ai rom (la malattia non è un evento che investe solo il singolo individuo, bensì può diventare un problema sociale che coinvolge l’insieme del gruppo familiare esteso), mentre gli spostamenti dai luoghi di residenza impediscono di eseguire valutazioni longitudinali consistenti.

Il primo accesso nel nostro sistema sanitario per i rom è rappresentato quasi esclusivamente dal pronto soccorso ospedaliero, per la sua visibilità, accessibilità ad ogni orario, gratuità, assenza di controllo di documenti, per la possibilità di accompagnamento e di solidale permanenza accanto al paziente.

Il ricorso a tale struttura avviene dunque, secondo tradizione, nel momento di conclamata necessità: fatti traumatici o l’apparire di sintomi acuti della malattia, mentre affezioni anche gravi permangono ignorate a lungo.

I dati (pochi) di dimissione ospedaliera relativi ai ricoveri in Regione Lombardia evidenziano ad esempio un alto ricorso all’ospedalizzazione in età pediatrica, soprattutto nel corso del primo anno di vita, con una predominanza di ricoveri per malattie infettive, respiratorie e per patologie neonatali.

Più che una nomenclatura clinica si possono quindi raggruppare e classificare fattori di rischio che sviluppano patologie acute, croniche e da stress che determinano la rilevanza di malattie delle alte e basse vie respiratorie, del sistema digerente (le carie dentali sono un fenomeno diffusissimo a partire dalla prima infanzia), dermatologiche, cardio e cerebrovascolari strettamente correlate alle condizioni materiali di esistenza (situazioni ambientali malsane, vicinanza ad arterie stradali a grossa percorrenza, discariche, accumulo di rifiuti, ratti e insetti; abitudini alimentari che combinano carenze quantitative e qualitative a occasionale sovralimentazione disordinata (obesità) e abuso di fumo e bevande alcooliche; una cultura del corpo e della malattia che rende difficile il rapporto tra medicina ufficiale e zingari).

Inoltre si riscontra anche un atteggiamento delle strutture sanitarie che, riflettendo passivamente il senso comune corrente, combina incomprensione, indifferenza e atteggiamenti discriminatori: non si tenta di capire la cultura "altra", vista solo come indice di ignoranza se non di barbarie; non si prende coscienza né della gravità né della stessa esistenza del problema; spesso - anche se con numerose lodevoli eccezioni - si discrimina più semplicemente il rom che cerca il contatto con le strutture sanitarie.

Per affrontare direttamente la questione sanitaria andando al nocciolo del problema occorrerebbe dunque partire dal difficile rapporto tra la cultura del corpo e della salute delle comunità rom e sinte e la cultura specifica degli operatori dei servizi sanitari progettando percorsi di mediazione culturale tra queste due culture.

Ad esemplificazione di quanto detto i Rom e i Sinti esprimono, ad esempio, una valutazione alquanto diversa del proprio stato di salute rispetto a quanto noi siamo soliti attribuire loro sulla base di riscontri biomedici e dati statistici, non riconoscendosi come gruppo particolarmente soggetto a malattie o con una aspettativa di vita media di gran lunga inferiore rispetto alla popolazione maggioritaria.

La stessa struttura demografica delle comunità zingare ci fornisce la scelta dove indirizzare le nostre proposte di intervento: l’altissimo numero di gravidanze e di parti, quel 48 – 52% di popolazione infantile e pre-adolescenziale impongono "naturalmente" il coinvolgimento dell’area del materno – infantile.

Ma a queste ragioni obiettive se ne sommano altre.

Visto che si tratta di mediare tra due culture diverse, la scelta da effettuare è quella di investire innanzitutto sulla mediazione tra due culture femminili diverse: da una parte non la cultura "media" dei servizi sanitari ma la cultura fortemente innovativa delle operatrici dei servizi territoriali del materno – infantile (puntando soprattutto sulle operatrici dei consultori familiari e dei consultori pediatrici, da sempre tese all’ascolto attento delle utenti e, dall’altra, la specifica cultura del corpo, della sessualità, della gravidanza, dei parti e dell’accudimento – allevamento dei bambini di cui sono portatrici le romnìà, le donne zingare.

Tanto più che l’esperienza parallela della mediazione scolastica ci rivela una peculiarità femminile all’interno della cultura zingara: l’essere cioè le donne custodi della tradizione e, contemporaneamente, le più audaci portatrici del bisogno dinamico di cambiamento.

La mediatrice sanitaria rom è quindi un’operatrice che all’interno della propria cultura e comunità, da quel luogo di vita quotidiano in cui essa stessa vive, impara a rapportarsi alla cultura maggioritaria rappresentando la specificità culturale del proprio gruppo (i bisogni, i problemi e le risposte che in esso maturano) ed acquisendo dalla cultura "altra" tutto quello che può essere utilmente riportato.

In questa dinamica di interscambio culturale assumono quindi un ruolo centrale i servizi dell’area della famiglia, infanzia, età evolutiva, in relazione agli scenari demografici (soprattutto se si pensa al ben più consistente fenomeno migratorio in atto) e ai bisogni di prevenzione che modificano o meglio, costringono a ripensare il superamento di un modello di intervento solo di tipo emergenziale e per questo frammentario e una struttura dei servizi molto poco incentrata su un sistema complesso di interazioni.

Milano: un’esperienza di mediazione culturale nel consultorio familiare
Dal 1996 l’Opera Nomadi ha avviato con la ASL di Milano – Dipartimento ASSI la formazione e l’inserimento nei Consultori Familiari di mediatrici culturali sanitarie rom, dando vita a un’esperienza pilota in questo settore.

Nell’ultimo triennio questa azione ha riguardato in particolare l’intervento a favore delle donne dei gruppi romeni che intendevano recarsi al Consultorio con o senza il loro partner.

Il Consultorio è progressivamente diventato un punto di riferimento importante per le comunità di rom stranieri e italiani e, a partire da questa relazione, anche altri Servizi socio sanitari hanno iniziato ad acquisire ai loro occhi una specifica e riconosciuta fisionomia.

Nel percorso di formazione professionale le mediatrici hanno raggiunto un consistente grado di autonomia nei rapporti con i Servizi e un livello di riconoscimento da parte delle comunità Rom che ha inciso anche sulla loro condizione di donne.

All’interno dei villaggi rom la fiducia acquisita le ha messe in condizione di operare per un lavoro di sensibilizzazione sui problemi sanitari e di educazione igienica dei bambini, a partire dalla profilassi delle vaccinazioni, i controlli in gravidanza, il ricorso alla contraccezione.

La continuità ha rappresentato un valore specifico di rafforzamento dell’esperienza acquisita e di perfezionamento della sperimentazione condotta.

Ma nello specifico della cultura e della condizione dei rom essa è anche:

  • una condizione essenziale per mantenere un rapporto di fiducia, faticosamente raggiunto, verso la nostra società e verso gli operatori che hanno saputo accogliere, formare e accompagnare le mediatrici nella loro attività
  • una complessiva risorsa delle comunità interessate, lungo un cammino lento di integrazione che va reso il più possibile sicuro e continuo: ogni interruzione rappresenterebbe infatti una rovinosa perdita di credibilità globale e quindi un probabile abbandono dei processi avviati.
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Di Sucar Drom (del 26/02/2009 @ 21:25:22, in blog, visitato 2003 volte)

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Di Fabrizio (del 27/02/2009 @ 08:55:16, in Kumpanija, visitato 11237 volte)

Da Famiglia Cristiana - di Stefania Di Pietro

CRONACHE ITALIANE
A NOTO, IN SICILIA, LA BASE DI UN ANTICO POPOLO GITANO

Giostrai, stagnini, ombrellai affollano le feste di paese e sono italiani a tutti gli effetti. Non vogliono essere chiamati rom. Ma conservano il vecchio spirito nomade.

Rumungri ungheresi, Tattaren svedesi, Bergitka polacchi, Sinti-Gackanè tedeschi, Gypsies inglesi, Kalé spagnoli. Sono alcuni dei popoli gitani sparsi in Europa, ciascuno con un proprio nome e una storia diversa, ma tutti annotati ai margini delle città e battezzati come "genti del vento", perché dall’aria si fanno trascinare.

In un panorama così ampio, c’è chi rifiuta d’essere assimilato ai rom. Sono i caminanti di Noto, un gruppo "invisibile" di girovaghi siciliani, continuatori di un’antica tradizione incentrata sulla parola, il canto e le leggende. Questa frangia etnica ben radicata nel territorio cerca di far valere la propria identità popolare, ricordando a tutti come la parola "rom" abbia un significato ben diverso dall’uso oggi in voga, e sia semplicemente la traduzione di "uomini liberi".

I giramondo di Noto negano d’essere "zingari" di professione, nonostante sia impresso su di loro come un marchio il destino di un popolo ramingo, fatto di venditori e riparatori ambulanti, tutti "camminanti", nel nome e di fatto.

Discendenti dei nomadi sbarcati in Sicilia alla fine del Trecento, al seguito dei profughi Arberes’h, i caminanti hanno mantenuto intatta l’originaria organizzazione familiare, sotto la guida di un capogruppo più anziano e con matrimoni stabiliti all’interno della comunità, un’unica e grande famiglia. «Sono nato così», ricorda uno di loro, «quando ero bambino e vedevo i figli di chi stava al campo, mio padre mi diceva che eravamo tutti parenti».

Sono considerati i più grandi camminatori della storia, disseminati nel ventaglio tra Catania, Agrigento e Siracusa, ma durante l’inverno affollano uno storico quartiere di Noto, che porta il loro nome. I "siciliani erranti" sono gli ultimi eredi di una cultura fondata sul movimento, ma hanno fatto proprie le tradizioni locali, favorendo la nascita di una mescolanza variopinta di stili di vita.

«Ci basta avere per tetto il cielo e il fuoco per riscaldarci, ma non siamo zingari», continuano, «siamo siciliani e somigliamo alle rondini, perché viviamo liberi». Negli anni ’50 i caminanti salivano in cima alle montagne a dorso di mulo, oggi si spostano alla guida di roulotte attrezzate, una scelta che li accomuna agli altri rom. La Sicilia rimane, però, la loro regione d’appartenenza, l’Italia è la vera patria, anche perché vi abitano da decine d’anni, mantenendo diritto di voto e cittadinanza. Alcune famiglie d’ambulanti continuano a migrare ciclicamente da Sud a Nord, per poi tornare nella provincia siracusana in primavera, "svernando" lì come gli uccelli. A ogni cambio di stagione, traslocano nei paisi dell’entroterra, chiamati così in dialetto baccàgghiu, una lingua inventata dalla fusione tra siciliano stretto e italiano e colorata dall’aggiunta d’accenti diversi, per via del troppo girovagare.

Un buon mezzo per comunicare

Sono siciliani in ogni espressione quotidiana, dal culto della campagna all’abito di stoffa "buona" indossato per la Messa domenicale, dal modo di cucinare e disossare gli animali alla simbolica gestualità isolana, tipica di chi ha conosciuto l’alternanza di svariate dominazioni, ritrovando nel gesto l’unico mezzo d’intesa. Una mimica colorita, quella dei caminanti, che deriva dalla loro essenza raminga, perché continuamente a contatto con genti straniere e in cerca di un buon mezzo per comunicare.

La mattina i bambini vanno a scuola, grazie ai numerosi progetti socio-scolastici nati a favore dell’integrazione di un popolo autoctono, il cui essere itinerante pone non pochi problemi alla scolarizzazione. Gli adulti continuano il mestiere dei padri. Arrotini, ombrellai, giostrai, impagliatori e riparatori di cucine, famosi per lo squillante richiamo lanciato a gran voce con l’altoparlante.

Sono gli "aggiustatori di tutto", svolgono mestieri ormai in disuso, perché spinti dalla stessa mentalità umile e adattabile che accompagnava i caminanti del primo dopoguerra. A ogni festività, gli uomini inondano le strade con le loro giostrine, i palloncini colorati e le bancarelle di calia e semenza, ceci abbrustoliti e semi di zucca seccati al sole, preparati in casa dalle donne. In autunno, arrivano con i camion stracolmi d’ombrelli, anticipando il primo temporale della stagione.

«Un tempo, i nostri mestieri erano tanti», racconta una vecchia caminante della provincia di Siracusa, «si vendevano scaldini di metallo, trappole per topi, gabbie per galline o mestoli per la ricotta. Gli uomini erano tutti stagnini, le donne andavano di porta in porta a raccogliere capelli, per farne poi parrucche o bamboline da rivendere».

Oggi, i giovani preferiscono la vita dei conterranei stanziali, chiamati "paesani sedentari", scegliendo di non allontanarsi troppo da Noto, dove vendono la buona sorte e leggono il futuro ai turisti di passaggio, con un pappagallino portafortuna sempre appollaiato sulla spalla. I caminanti sono un popolo nel popolo, nei gesti traspaiono i tratti dell’appassionata teatralità siciliana, ma il loro spirito è carico d’orgoglio gitano.

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Di Fabrizio (del 27/02/2009 @ 09:25:05, in casa, visitato 2107 volte)

Da Roma_Daily_News

ISTANBUL, 24/02/2009 - I residenti di Sulukule che sono spinti ad allontanarsi dalle loro case dalla Municipalità di Fatih ad Istanbul, hanno ottenuto un'udienza per dar voce alle loro preoccupazioni.

Oltre 20 residenti hanno reiterato di essere stati trattati in maniera ingiusta dalla Municipalità di Fatih, nel suo piano di sviluppo di un'area ad alto valore immobiliare.

Il progetto di rinnovamento urbano di Sulukule ha lo scopo di bonificare uno dei quartieri più poveri di Istanbul di cui è una significativa area storica. I residenti di Sulukule sono soprattutto Rom poveri che vivono in appartamenti in affitto.

La maggior parte dei residenti hanno ottenuto sussidi governativi per case popolari a Taşoluk, che costano 750 lire turche di iscrizione ed affitti mensili di 320 lire turche, esclusi gas, elettricità e fatture dell'acqua.

Bassi redditi

Il 50% dei residenti ha redditi mensili inferiori a 500 lire, secondo Neşe Ozan, portavoce di un'organizzazione d'appoggio chiamata La Piattaforma di Sulukule. "Per poter vivere in queste case ha bisogno di un reddito di almeno 1.000 lire, che questa gente non ha", dice Ozan. Dato che la maggior parte dei residenti non può permettersi di abitare nelle case di Taşoluk, sono inadempienti ed hanno occupato case più grandi.

E questi sono i fortunati. Circa 100 famiglie rimangono in un limbo burocratico non avendo garantito il diritto di traslocare a Taşoluk, mentre rimane l'incertezza su quando le loro case a Sulukule verranno demolite. Queste famiglie stanno chiedendo che venga chiarito il loro status.

Mustafa Ustaoğlu, capo del dipartimento di progetto della Municipalità di Fatih, ha detto di aver ascoltato le preoccupazioni dei residenti di Sulukule, e passerà il rapporto ai suoi capi. Ustaoğlu ha anche promesso alle 100 famiglie in attesa che verrà notificato loro entro la fine della settimana la loro qualifica di assistenza governativa.

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Di Fabrizio (del 27/02/2009 @ 18:46:13, in Italia, visitato 3239 volte)

Ricevo da Roberto Malini

COMUNICATO STAMPA 27 febbraio 2009: LE AUTORITA' AVEVANO L'ORDINE DI SGOMBERARE E DI SMEMBRARE LE FAMIGLIE

FOTO: http://www.everyonegroup.com/downloads/pesaro25.zip
Gruppo EveryOne: "Abbiamo vissuto momenti tragici. Una donna è caduta a terra. Madri e padri di famiglia in lacrime volevano darsi fuoco se avessero tolto loro i bambini. Proibita la mediazione umanitaria ai nostri attivisti e nessuna assistenza ai malati". Inatteso il raid della forza pubblica, perché Sindaco e autorità si erano impegnati formalmente ad attuare un programma di integrazione casa-lavoro

Nella mattina del 25 febbraio, a Pesaro, circa 20 tra agenti della Polizia di Stato e della Polizia Locale sono intervenuti intorno alle 7.00 in via Fermo 49, all'altezza della fabbrica dismessa dove da quasi un anno si erano rifugiati 30 Rom romeni – tra cui pazienti cardiopatici e oncologici dell'ospedale San Salvatore, molte donne e 9 minori, compreso un bimbo di pochi mesi – con l'obiettivo di sgomberare lo stabile e sottrarre tutti i minori ai genitori. "Siamo accorsi sul posto e abbiamo assistito a scene strazianti" riferiscono gli attivisti del Gruppo EveryOne. "Madri e padri erano in lacrime e i bambini terrorizzati. Gli agenti avevano annunciato che i bambini sarebbero stati affidati ai Servizi Sociali e quindi sistemati in una comunità. Solo le mamme, però, avrebbero potuto restare con loro, mentre i padri sarebbero stati messi in mezzo alla strada". Nico Grancea, uno dei più noti attivisti Rom in campo internazionale, faceva parte della comunità "nomade" che viveva a Pesaro. "I poliziotti ci hanno detto che il proprietario della fabbrica aveva denunciato l'occupazione dello stabile, ma sapevano che il Sindaco e tutte le Istituzioni pesaresi erano al corrente della nostra presenza nell'edificio, dove ci siamo rifugiati per sfuggire povertà e intolleranza in Romania. Molte delle persone sgomberate si trovavano sotto la tutela del Parlamento europeo, perché avevano denunciato di aver subito gravi aggressioni, pestaggi e intimidazioni in Italia, sia da parte della Forza Pubblica che di razzisti". Le autorità, però, non hanno ascoltato alcuna ragione, nonostante Roberto Malini e Dario Picciau di EveryOne spiegassero loro la delicata condizione di testimoni per l'Unione europea della comunità Rom che veniva invece smembrata e sgomberata. "Il nostro Gruppo aveva ottenuto un impegno formale da parte del Comune di Pesaro" proseguono gli attivisti, "che garantiva un programma casa-lavoro. Il programma avrebbe dovuto iniziare all'inizio di settembre 2008, ma è stato sempre rimandato. Il Messaggero e altri quotidiani locali riportano le dichiarazioni del Sindaco e di alcuni Assessori, riguardo all'impegno assunto dal Comune". Il Gruppo EveryOne aveva già segnalato nomi, cognomi e caratteristiche della comunità Rom sia ai Servizi Sociali che alle Autorità. Il locale Ospedale San Salvatore, quando è stato informato della presenza di bambini, donne incinte e malati gravi, ha intrapreso un programma di assistenza che ha assicurato cure mediche alle famiglie. Disattesi i tempi in cui era previsto il progetto di inclusione e stremata dalla povertà e dall'inverno, la comunità si trovava ora di fronte al dramma umanitario contro cui si battono la Commissione europea, il CERD delle Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali per i diritti dei Rom: la sottrazione di minori da parte delle autorità. "Le famiglie Rom fanno dell'unione la loro stessa ragione di vita," spiegano gli esperti EveryOne, "e in molti casi lo smembramento provoca tentativi di suicidio da parte dei genitori. Negli anni dell'Olocausto, i nazisti conoscevano questo aspetto della cultura Rom e infatti ad Auschwitz, a differenza delle famiglie ebree, quelle ‘zingare' venivano tenute unite nello ‘Zigeunerlager'. Quando padre, madre e figli vengono separati, si creano situazioni di dolore e panico incontrollabili. Durante l'operazione di polizia, una giovane donna è stramazzata a terra, altre si lamentavano disperate, mentre una mamma nascondeva un coltello da cucina in una piega della gonna e sussurrava che si sarebbe sgozzata se l'avessero divisa dal marito. Nonostante il cordone di poliziotti, siamo riusciti a comunicare con la comunità Rom, evitando il peggio". Non veniva garantita libertà di movimento e comunicazione con gli altri attivisti neanche a Nico Grancea, il giovane attivista protagonista di tante azioni a tutela dei diritti dei Rom perseguitati, testimone e consulente per il Parlamento europeo e organizzazioni internazionali per i diritti umani. "Mia moglie aveva in braccio il nostro bimbo di quattro mesi," racconta Nico, "mentre le altre madri erano terrorizzate da ciò che si stava prospettando. Gli agenti non ci ascoltavano, non vedevano famiglie davanti a loro, ma una pratica da sbrigare. Non conoscono lo spirito di sacrificio dei Rom. Non sanno che tanti di noi erano vicini a compiere atti di autolesionismo irreparabili. Alcuni meditavano di darsi fuoco se avessero diviso le famiglie. Non ci avrebbero separati, avremmo protestato sacrificando le nostre vite. I miei amici di EveryOne hanno capito perfettamente la gravità della situazione e ci hanno aiutato con la loro esperienza di fronte a situazioni estreme, mentre gli agenti non volevano riconoscere il loro ruolo di mediatori incaricati dal Parlamento europeo". Per fortuna le madri Rom si organizzavano e riuscivano coraggiosamente a sottrarsi alle forze dell'ordine, fuggendo con i loro piccoli. "Studio l'Olocausto e le dinamiche delle persecuzioni da trent'anni," dice Roberto Malini, "ho pubblicato libri e tenuto conferenze sull'argomento. E' innegabile che vi sono precise attinenze fra gli anni delle leggi razziali e il presente. La fuga delle madri Rom di Pesaro mi ricorda la famosa operazione del Gruppo Westerweel, in Olanda, condotta da Mirjam Pinkhof – mia cara amica, sopravvissuta alla Shoah – e altri attivisti, che misero in salvo numerosi bambini ebrei". Alcuni membri della Commissione Ue e del Parlamento europeo seguivano con ansia le vicende di Pesaro, in contatto con EveryOne. "Mentre si svolgevano i fatti, abbiamo tenuto un canale di comunicazione aperto anche con alcuni deputati e senatori italiani, oltre che con la Procura della Repubblica di Pesaro e Urbino" prosegue Matteo Pegoraro. "Il timore di tutti era che l'operazione di polizia degenerasse in tragedia. Malini, Picciau e Grancea, però, hanno esperienza da vendere e non è certo la prima volta che EveryOne si trova in situazioni tanto difficili. Ora che però l'azione è compiuta, sono necessarie prese di posizione anche da parte del mondo politico, e alcuni deputati radicali mi hanno confermato la volontà di presentare un'interrogazione parlamentare sull'intera vicenda".

"Non capisco perché le Istituzioni e le Autorità non ci abbiano contattati, prima di attuare un'azione del genere" si chiede Dario Picciau. "Mentre si svolgevano i fatti, ero in contatto telefonico con la parlamentare europea Viktoria Mohacsi, mentre le principali ONG europee si prodigavano per organizzare una task-force a sostegno della comunità Rom. Non possiamo criticare gli agenti, che hanno obbedito agli ordini e non hanno considerato, poiché non vi erano tenuti, la vulnerabilità delle famiglie nonché le loro condizioni di salute fortemente precarie e la paura di ognuno, dettata da tanti episodi di intolleranza. Non riusciamo a capire, però, che bisogno c'era di inviare 20 agenti armati con volanti e un furgone anziché risolvere la contingenza intorno a un tavolo, con politici, autorità e attivisti. Viktoria Mohacsi, altri europarlamentari e alcuni dei principali esperti europei di cultura e vita del popolo Rom erano pronti a partecipare personalmente all'eventuale tavola rotonda".

Domenica 22 febbraio Canale 5 aveva inviato alla fabbrica di via Fermo a Pesaro una troupe, condotta dal giornalista Mimmo Lombezzi, per un servizio sulla condizione dei Rom in Italia da mandare in onda nella puntata di martedì 24 febbraio: Grancea e diversi Rom hanno raccontato alle telecamere il grado di persecuzione che sono costretti a subire quotidianamente, l'atteggiamento delle forze dell'ordine nei loro confronti, la segregazione in cui sono tenuti, l'azione delle ronde di pulizia etnica, che commettono gravi abusi sui Rom profittando del clima di intolleranza. Un uomo aveva mostrato alle telecamere di Canale 5 i lividi ancora evidenti sul corpo per un pestaggio subito ad Ancona il 15 febbraio, il giorno dopo l'offensiva di violenza xenofoba scoppiata in Italia in seguito allo stupro al parco romano della Caffarella.

Un dossier sui fatti di Pesaro è stato consegnato al Parlamento europeo, alla Commissione e al Consiglio Ue, alla Corte Internazionale dell'Aja, al CERD (Comitato anti-discriminazione delle Nazioni Unite) e all'Ufficio Legale Europeo per i Diritti dei Rom, in relazione ai gravissimi danni che hanno cagionato alla comunità Rom i mancati interventi di assistenza e la mancata realizzazione del programma di integrazione garantito dal Comune di Pesaro.

Per ulteriori informazioni:
Gruppo EveryOne
www.everyonegroup.com :: info@everyonegroup.com
Mobile: +39 334 8429527 - +39 331 3585406

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Di Fabrizio (del 28/02/2009 @ 09:25:05, in Europa, visitato 2159 volte)

Da Roma_Francais

metrofrance.com - Photo : Vincent Michelon / Metro

Un muro di cemento di quattro metri d'altezza barra l'uscita della piccola rue Pierre Degeyter, nel quartiere semi-residenziale e semi-industriale di Haut-Montreuil. Dietro il muro si trova un terreno di 3.000 mq, proprietà del Syndicat des eaux d'Ile-de-France (Sedif), messo a disposizione della città dal 1988. Succede che la municipalità ha lanciato a gennaio dei lavori al fine di accogliere per undici mesi 160 Rom e 50 carovane, sinistrati dall'incendio di rue Dombasle l'estate scorsa. "Il sindaco aveva iniziato ad installare l'acqua prima che Sedif costruisse il suo muro", commenta un artigiano la cui bottega confina col terreno. Per accogliere l'accampamento, i lavori prevedevano ugualmente d'installare l'elettricità, come pure una sede distaccata di sanità, finanziata dal consiglio regionale.

Un muro e procedure per direttissima

Ma il 28 gennaio, i giochi son fatti. André Santini, presidente di Sedif, domanda a Montreuil di interrompere i suoi lavori, poi depone due referti, rigettati dal tribunale amministrativo. Per andare più veloce, la Sedif ha fatto edificare il suo muro di cemento. "La Città ha iniziato dei lavori su un terreno che non le appartiene" si giustifica Philippe Knusmann, direttore generale di Sedif. "Noi siamo a casa nostra, e la convenzione prevedeva un uso esclusivamente sportivo. Inoltre, il terreno confina con installazioni sensibili piazzate sotto il plan Vigipirate rosso". Secondo la Sedif, la presenza dei Rom metterebbe in pericolo la sicurezza di tre serbatoi di 186.000 mq installati in prossimità, che alimentano l'est parigino. L'argomento non è stato accolto dal tribunale amministrativo di Cergy, che venerdì ha stimato che "il rischio addotto non parrebbe reale", imponendo a Sedif un'ammenda di 1.500 euro. "Questo terreno era aperto a tutti gli eventi", reagisce Alain Monteagle, consigliere municipale (Verdi) delegato agli affari generali. "C'erano interventi della polizia. i bambini rom sono più pericolosi per la sicurezza dei serbatoi dell'aria?"

Negoziati

Al momento, la situazione resta bloccata. La giustizia non si è pronunciata sulla costruzione del muro, obbligando il Comune ad iniziare dei dialoghi con il sindacato dell'acqua. "I Rom sono in una situazione d'urgenza. Se si potesse arrivare ad un accordo con la Sedif, tanto meglio", conferma Alain Monteagle "Si potrebbe riflettere su un numero meno elevato di carovane su quel terreno. Ma non ci siamo ancora".

L'installazione dei Rom, che si voleva provvisoria, non sembra imminente. Pertanto, non è che un preludio ad una costruzione "permanente" nel Bas-Montreuil. La Regione, che recisa di "non avere un ruolo nella scelta delle località prese in considerazione", ha adottato a novembre una sovvenzione di oltre 400.000 euro per costruire queste strutture d'alloggio e permettere l'accompagnamento sociale dei Rom di Montreuil.

Vincent Michelon
Metrofrance. com, à Paris


Raporté par Denis Toulmé denis.toulme@worldonline.fr
http://filsduvent.kazeo.com

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Di Fabrizio (del 28/02/2009 @ 09:47:20, in Italia, visitato 4169 volte)

Da Roma Files

UNIRSI - Unione Nazionale ed Internazionale dei Rom e dei Sinti in Italia
Federazione delle Associazioni e dei Gruppi Autonomi dei Rom e dei Sinti in Italia
Forum Europeo dei Rom e dei Viaggianti di Strasburgo

In risposta ai recenti sviluppi politici e la più recente ondata di razzismo contro il popolo rom in Italia, una coalizione di organizzazioni, inclusa UNIRSI, ha intrapreso una documentazione di prima mano sui diritti umani in Italia (tra il 23 e il 30 maggio 2008). Dette organizzazioni hanno condotto una ricerca, intervistando approssimativamente 100 Romanì che vivevano in campi formali e informali a Roma, Napoli, Firenze, Brescia, Milano e Torino.

Le organizzazioni hanno visitato diversi campi formali e semi-formali, inlusi: Secondigliano e Centro Lima (Napoli); Salviati , Fiume , Casilino 900 e Martora (Roma); Via Triboniano (Milano); Campo nomadi di Brescia per i Sinti Italiani. La coalizione ha anche visitato i seguenti campi informali: Scampia , Ponticelli , Santa Maria e Torre Annunziata Nord (Napoli); Cave di Pietralata ed un campo senza nome accanto a Cave di Pietralata (Roma); Corsico e Bacula (Milano); Via Germagnano (Torino).

Nonostante sia il paese europeo con la più bassa percentuale di Rom/Sinti (la Grecia ne conta lo stesso numero dell'Italia, ma con una popolazione di soli 10 milioni di persone), l'Italia è indietro di almeno 25 anni rispetto a tutte le politiche d'integrazione per i Rom/Sinti.

Mentre non esiste nessun censimento ufficiale, un censimento condotto da varie organizzazioni (inclusa UNIRSI) su scala nazionale mostra che i Rom e i Sinti in Italia sono circa 170.000, di cui 70.000 con cittadinanza italiana e 100.000 (in crescita costante dalla Bulgaria e specialmente dalla Romania) dai Balcani.

Il 30% di questi 100.000 arriva dalla Jugoslavia ed il resto dalla Romania, con un centinaio di presenze dalla Bulgaria e dalla Polonia.

Le ultime due generazioni di Rom "jugoslavi" sono nati in un paese, l'Italia, che non riconosce lo "jus soli" e quindi nega ai bambini i requisiti basici per un'istruzione bilanciata ed integrazione: cittadinanza.

La minoranza dei Rom/Sinti è caratterizzata da bassa aspettativa di vita (la media è tra i 40 e i 50 anni) e dalla presenza di un'alta percentuale di bambini [il 60% della popolazione Rom e Sinti ha meno di 18 anni. Il 47% dei bambini ha tra i 6 e i 14 anni; il 23% tra i 15 e 18 anni; la percentuale rimanente (30%) tra i 0 e i 5 anni].

 I Rom e i Sinti con cittadinanza italiana sono circa 70.000. Oggi le comunità Rom e Sinte (chiamate "zingari" e "nomadi" in maniera dispregiativa ed etnocentrica) sono ancora oggetto di discriminazione, esclusione e segregazione.

 La discriminazione è estesa in tutti i campi, sia pubblici che privati, così l'esclusione e la segregazione economica e sociale dei Sinti e dei Rom diventa discriminazione etnica (Raccomandazione n.1557/2002 Consiglio d'Europa). In Italia, le diverse comunità Rom e Sinte non sono riconosciute come Minoranze Linguistiche Nazionali e perciò non usufruiscono dei diritti che questo status comporta.

Le politiche sociali rivolte alle popolazioni Rom e Sinta tendono apertamente all'inclusione sociale, e all'integrazione. Le comunità Rom e Sinte sono raramente considerate protagoniste del pensare sociale, di politiche d'integrazione, partecipazione diretta e mediazione culturale. L'Italia nega alle comunità Rom e Sinte l'applicazione delle direttive europee sulle Minoranze Linguistiche che proteggono le lingue minoritarie ed inoltre nega la Convinzione sulle Minoranze Nazionali.

In molti casi i Rom e i Sinti si vedono negati i diritti basici come residenza, salute, istruzione, lavoro. In Italia costruiamo ancora i "campi nomadi" che sono posti di segregazione che imprigionano gli individui contro la loro volontà. In Italia molti comuni, in contrasto con le disposizioni costituzionali (art. 16), negano il diritto di residenza e di movimento all'interno del territorio nazionale ai cosiddetti "nomadi" o "zingari".

In questa tragica situazione i Rom di Slovenia, Bosnia, Jugoslavia, Romania, Polonia, Ungheria stanno tutti soffrendo queste politiche estremamente discriminatorie. Intere famiglie scappano dai loro paesi nativi a causa dei conflitti etnici e delle guerre civili e l'Italia nega loro i principali diritti basici.

UNIRSI – Piazza Antonio Meucci, 18 – 00146 Rome - Italy.
UNIRSI president and ERTF Delegate Mr. Kasim Cizmic : e-mail: unirsi@supereva.it 
UNIRSI Secretary: Mr Balo Cizmic : e-mail: unirsi@supereva.it
Web site: www.unirsi.net

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Di Fabrizio (del 01/03/2009 @ 09:11:46, in Europa, visitato 2143 volte)

Da Hungarian_Roma (a proposito di ronde e controronde, latitanza dello stato e crisi economica)

By Thomas Escritt in Miskolc, Hungary - 20 febbraio 2009

Quando cala la notte a Hetes, un insediamento zingaro ai margini della città settentrionale di Ózd, gli uomini scendono per le strade a montare di guardia, armandosi con ogni tipo di arma improvvisata, dai bastoni ai coltelli da cucina.

"Stiamo alzati tutta notte", dice Henrik Radics, con le mani appoggiate su una falce. "Se arriva un'auto, la fermiamo e chiediamo cosa stanno facendo. Se sono pacifici li lasciamo andare".

Radics ed i suoi compagni hanno affrontato in proprio la questione dopo una serie di avvenimenti culminati con una casa data alle fiamme e dai piani dalla Magyar Garda, un gruppo in uniforme di destra che dice di proteggere l'etnia ungherese dal "crimine zingaro", di tenere raduni di reclutamento nella città.

Ózd è una tipica cittadina nella contea di Borsod: una volta orgoglioso centro industriale con un gigantesco impianto per l'acciaio, decaduto con la caduta del comunismo nel 1989, senza nessun datore a dare lavoro al posto della defunta industria pesante dell'era socialista.

Ma la decrescita economica nell'Europa centrale ed orientale ha aggiunto nuova urgenza ad un problema di marginalizzazione che risale a decenni indietro. Ricerche mostrano che gli ungheresi, come molti dei loro vicini nella regione, nutrono forti sentimenti di pregiudizio contro gli zingari. Questo significa che i Rom sono i primi a essere colpiti, e nel modo più duro, dalla disoccupazione, che è al 14% nella contea di Borsod, con la sua alta percentuale di popolazione zingara, due volte la media nazionale. Con le previsioni del governo che prevedono che l'economia quest'anno si contrarrà di un ulteriore 2,7%, la disoccupazione è in rapida crescita.

"La questione ha raggiunto il punto critico", dice Peter Hack, criminologo. "Con la decrescita economica, è iniziata la tradizionale caccia al capro espiatorio. Dato che non ci sono immigrati in Ungheria, i Rom sono il bersaglio".

Zsolt Farkas, zingaro di Miskolc, la terza città ungherese e capitale di contea, parla a nome di molti quando dice che sta diventando impossibile trovare lavoro.

"Lavoravo su una linea di assemblaggio a Bosch, e poi ho installato persiane nelle case, ma adesso è impossibile trovare un lavoro. Quando... vedono che sono zingaro, non sono più interessati".

Il mese scorso il Movimento per un'Ungheria Migliore, un partito di estrema destra, ha ottenuto l'8% in un'elezione distrettuale a Budapest dopo una campagna elettorale condotta sugli slogan contro il "crimine zingaro". Settimana scorsa Albert Pasztor, capo della polizia di Miskolc, ha attratto in ugual misura obbrobrio ed elogi quando ha detto in una conferenza stampa che "tutte le aggressioni a scopo di rapina" nel territorio di Miskolc nei due mesi scorsi erano state commesse da zingari, aggiungendo: "Le culture ungherese e zingara non possono vivere assieme". E' stato sospeso su ordine del ministero di giustizia e reintegrato meno di 24 ore dopo, a seguito di un coro di proteste di alti funzionari di polizia, governi cittadini locali ed un rally di 1.000 skinhead.

Questa settimana il panico zingaro ha raggiunto l'isteria tre giocatori professionisti di pallamano di Croazia, Romania e Serbia sono stati pugnalati in un nightclub, si suppone da una banda di circa 30 zingari, nella città occidentale di Veszprem. Il rumeno, Marian Cozma, giovane promessa sportiva, è morto per le ferite.

Durante il funerale, Ferenc Gyurcsany, socialista e primo ministro, ha promesso di "agire decisamente" contro la violenza, e il partito di destra all'opposizione ha detto che il governo dovrebbe concentrarsi nel prendere i criminali. "Il numero di crimini gravi commessi da gente di origine zingara sta crescendo in modo allarmante", viene detto.

Janos Ladanyi, un sociologo, dice che gli zingari, deprivati prima dai programmi di insediamento negli anni '70 del loro tradizionale stile di vita itinerante, e poi dalla deindustrializzazione negli anni '90 dai lavori con bassa professionalità da cui dipendevano, si sono rivolti al crimine, sia in scala ridotta che organizzato.

"Abbiamo ora una popolazione che ha vissuto fuori dalla società per 20 anni. Sempre più spesso, qualcuno richiede una rapida, semplicistica soluzione, che porta ad uno scoppio di panico anti-zingaro, ma questa volta la crisi economica rende tutto più serio", dice.

IL gruppo escluso, che conta il 6% della popolazione ungherese, è anche quello con la crescita più rapida.

"Se non possiamo integrarli nella forza lavoro, allora è in questione la stabilità a lungo-termine del sistema fiscale", ha detto Gordon Bajnai, ministro dell'economia. Un pacchetto di 2 miliardi di € sta per essere immesso nell'industria delle costruzioni come parte della risposta, dice, per creare il tipo di lavori a bassa professionalità di cui questa popolazione ha bisogno.

The Financial Times Limited 2009

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Di Fabrizio (del 01/03/2009 @ 09:19:27, in musica e parole, visitato 2254 volte)

Da Virgilio notizie

Sold out concerto per Black Panthers, mitico locale gitano. Si raccoglievano fondi per riaprirlo dopo incendio in dicembre - postato 15 ore fa da APCOM

Belgrado, 27 feb. (Apcom-Nuova Europa) - Belgrado difende la sua anima zingara. "Sold out" ieri sera al concerto per la raccolta fondi da destinare alla riapertura del luogo simbolo della musica gitana nella capitale serba: il mitico Black Panthers, il locale-barcone sulle rive di Ada ziganlia, l'isola 'zingara' sul fiume Sava.

Lo scorso dicembre un corto circuito dell'impianto elettrico ha ridotto in cenere il Black Panthers che prende il nome dal gruppo di musicisti zingari che lo fondarono nel 1990. Da allora il Panther non è rimasto zitto una sola notte: nel 1999, i belgradesi vi si rifugiavano a soffocare il rumore delle bombe con quello squillante di fisarmoniche, chitarre e violini incessanti all'unisono fino al chiaro del mattino. Sera dopo sera fino a diventare un mito, un simbolo: non c'è una guida turistica di Belgrado che non lo segnali e un visitatore che non lo stipi nei suoi ricordi della Serbia.

Non avevano minima idea dell'esistenza del movimento rivoluzionario afroamericano quando trent'anni fa (molto prima di aprire il locale) si battezzarono Pantere nere: "il nome ci piaceva, suonava bene non so nemmeno perché lo abbiamo scelto" ci racconta Toma, uno dei due soli componenti rimasti in vita della formazione originaria del gruppo.

Toma e Bronson, il bassista, ieri sera si sono esibiti "come il primo giorno" sul palco dell'Orchestra filarmonica di Belgrado, che ha fornito i locali per il concerto: i leggii di ordinanza degli orchestrali avanzano per chi la musica degli spartiti non la conosce e suona a orecchio da tutta la vita.

Di generazione in generazione la stirpe di nipoti e pronipoti si avvicenda ad accompagnare il duetto: il resto lo fa l'immancabile bicchierino di rakija (tipica grappa balcanica) che fa il suo ingresso inaspettato persino sull'austero palcoscenico.

"Del nostro locale - prosegue la voce storica dei Panthers - vive tutta la nostra famiglia". Un rapido conto mentale: "Circa 150 persone".

In attesa di riaprire "il sei maggio, il giorno di San Giorgio (nel calendario ortodosso, ndr.), il protettore di noi zingari", il Black Panthers ha traslocato in una zattera vicina. Ma i belgradesi rivogliono quella stessa, precisa, storica, barca.

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Di Fabrizio (del 01/03/2009 @ 11:11:22, in Italia, visitato 1651 volte)

Da Lia Didero

Al Sindaco di Pesaro
Al Prefetto
Alla città di Pesaro

Noi, associazioni, realtà cittadine, semplici abitanti e frequentatori di questa città, avuto notizia delle operazioni di polizia contro le famiglie rom presenti a Pesaro il 25 febbraio, riteniamo quanto successo una grave sconfitta politica e sociale di una città come la nostra.

Una comunità rom di poco più di 30 persone tra adulti e bambini, che non si è mai fatta notare per atteggiamenti contrari alla legge ma cercava semplicemente di sopravvivere alla meno peggio, è stata sgombrata e costretta ad allontanarsi con la forza. Donne, bambini, malati costretti ad andarsene. Dove? Non importa, l'importante è fuori dai confini comunali.

Si dirà: avevano occupato illegalmente una fabbrica, una casa abbandonata, ed è reato.
Noi diciamo: la fabbrica, la casa erano vuote, fatiscenti, in vendita da chissà quanto tempo e chissà per quanto tempo, e loro non avevano una casa, un posto dove stare. E fa freddo, d’inverno./

Si dirà: non avevano un lavoro onesto.
Noi diciamo: è vero, ma lo hanno cercato, hanno bussato a tante porte e nessuno ha dato loro una possibilità.

Si dirà: erano dei parassiti, volevano vivere sfruttando la carità della gente.
Noi diciamo: a chi non ha nulla, basta poco, meno del superfluo di chi ha troppo. Non amiamo la carità, ma la solidarietà sì.

Si dirà: erano sporchi, puzzavano, non sanno vivere.
Noi diciamo: provate a vivere senz’acqua, senza luce, e sapendo che vi possono sgombrare in ogni momento, e vediamo che decoro siete capaci di mantenere.

Si dirà ancora: i bambini non possono vivere in quelle condizioni.
Noi diciamo: E’ vero, non dovrebbero. Ma sono bambini amati, e per non perderli i genitori sono stati costretti a lasciare quel poco che potevano avere qui. e adesso quei bambini vivono ancora peggio.

Si dirà: Pesaro adesso è più sicura.
Noi diciamo: NO, Pesaro adesso è meno civile, meno giusta, meno ricca. Meno nostra.

Adesioni (individuali e collettive) da spedire a altlib@altraofficina.it

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