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 Dopo circa 6 mesi dall’avvio del nuovo anno scolastico, l’Assessore Moioli è in  procinto di rinnovare l’incarico a termine alle 10 mediatrici Rom che da molti  anni lavorano nella scuola primaria milanese.
 
 Lo farà secondo il suo stile, quello cioè per lo più incurante del buon  andamento dei servizi e del rispetto delle persone, che siano operatori, utenti  o cittadini poco importa.
 
 Lo farà cambiando le carte in tavola, o le "regole", secondo una tipica  espressione ricorrente che però non trova quasi mai riscontro negli atti formali  di questa Amministrazione.
 
 Lo farà frammentando una storia, quella di un gruppo di donne rom, che non solo  hanno saputo e potuto costruire la propria professionalità attorno  all’esperienza avviata e sostenuta dalla sola Opera Nomadi in tutto il contesto  milanese, ma approfittando di continue proposte di studio e aggiornamento  portate avanti negli anni con l’attivo sostegno dell’Università e del CSA di  Milano.
 
 Lo farà infine, con la complicità e il "disinteresse" di quanti sono nel  frattempo subentrati nella gestione dei campi comunali milanesi (associazioni,  fondazioni e cooperative che si "spartiranno" il nuovo "scomodo" personale),  accettando di rimanere troppo spesso in silenzio di fronte a quanto di negativo  e sconcertante sta accadendo.
 
 Il fallimento totale delle politiche sociali appare oggi infatti persino  peggiore e devastante dello stato di abbandono in cui l’Amministrazione  Albertini aveva lasciato questi insediamenti, privandoli di risorse, strumenti  di dialogo e integrazione e peggiorandone quindi, inevitabilmente la condizione.
 
 Ma che cosa è cambiato in questi due anni?
 
 A partire dal famigerato "Patto di legalità e socialità", sostenuto oltre che  dal Comune, dalla Prefettura, dalla Provincia di Milano e dalla Casa della  Carità, la voragine che si è aperta attorno ai Rom appare inarrestabile,  divorando e calpestando i diritti delle persone come se queste nemmeno  esistessero.
 
 Il prossimo passo, dopo un inizio d’estate caratterizzato dalla "caccia alle  impronte" e da un censimento maldestro e ben poco veritiero, sarà quello della  stesura definitiva di un Regolamento delle aree comunali che manderà  definitivamente in soffitta la storia di un confronto spesso difficile e  contrastato, quello tra i rom e la città, ma attorno a cui almeno si continuava  a ragionare.
 
 Regolamento o resa dei conti?
 
 Riportiamo di seguito un intervento ripreso dal libro "I Rom e l’azione  pubblica" (Teti editore – Milano – Novembre 2008) sulla storia e il significato  della mediazione culturale in ambito scolastico e sanitario nella nostra città  da parte di un gruppo di donne rom. 
 
 Introduzione 
 Sono trascorsi 15 anni da quando, a Milano, l’Opera Nomadi avviò il primo corso  di formazione per mediatrici culturali scolastiche rivolto inizialmente a dieci  giovani donne rom.
 
 Da allora, altre romnià hanno seguito questa strada, lavorando fianco a fianco  con gli insegnanti, nei consultori familiari, nelle amministrazioni locali e  finanche nel Carcere di Bollate.
 
 Alcune di loro hanno nel frattempo conseguito un diploma, frequentato corsi  tenuti da docenti universitari, partecipato come relatori a master e convegni,  imparando a gestire un lavoro complesso in condizioni di grande precarietà e di  sostanziale isolamento sociale. 
 
 Certamente, il contesto culturale di quasi due decenni fa esprimeva un orizzonte  di situazioni e relazioni critiche ma comunque aperte al cambiamento, dove anche  i rom si illudevano di cimentarsi in un confronto nuovo alla ricerca di un  proprio spazio di rappresentazione sociale e politica.
 
 Oggi non più. L’isolamento spaziale dei campi nomadi, quelli che molti  definiscono con qualche eccesso delle pattumiere sociali ma che segnano il  confine simbolico e materiale di una separazione reale, unitamente al forte  pregiudizio politico, fulcro di politiche amministrative discriminatorie ed  inefficaci, hanno ristretto fin quasi ad annullare del tutto questa prospettiva.
 
 Le cose cambiano? Sì, un po’, lentamente, faticosamente. Ma la realtà, guardata  dal punto di vista dei Rom è sempre quella: il fastidio, la diffidenza, il  disprezzo, l’apartheid.
 
 Immobili, permanenti, pesantissimi.
 
 La fase contemporanea è segnata da un’assenza di proposte e dal congelamento  delle risorse pubbliche. Assistiamo invece un po’ attoniti all’inasprimento di  norme ideologiche autoritarie e sanzionatorie (a Milano e Roma rappresentate dai  "Patti di Legalità e socialità"), mitigate nei lori effetti più devastanti da un  complice sostegno offerto da enti e fondazioni ecclesiastiche promotori di  interventi assistenziali e caritatevoli. Non di diritti.
 
 Quand’anche i più attenti critici fanno osservare che spessissimo gli  investimenti pubblici non raggiungono le persone alle quali sarebbero  indirizzati, se non in forme indirette e di servizi dei quali sono solo  fruitori, si dimenticano di indicare attraverso quali processi alternativi i rom  potrebbero appropriarsi di strumenti indispensabili per agire sul proprio  destino.
 
 Perché i problemi esistono e sono reali e si chiamano mancanza di istruzione,  lavoro, riconoscimento e tutela della salute, scarsità o inadeguatezza di  abitazioni e abbandonati a loro stessi e al tentativo contraddittorio e  lacerante di tenere insieme, in un equilibrio instabile, valori e modelli  tradizionali con quelli imposti dall’asimmetria economica e culturale della  globalizzazione, non possono che aggravarsi.
 
 Ogni cultura dà per scontato che il proprio modo di comunicare, i suoi valori,  le rappresentazioni della realtà siano in un certo senso uniche o migliori e che  gli altri, per esempio gli appartenenti alle minoranze, debbano adeguarsi anche  senza condividerle.
 
 E’ necessario invece aumentare le capacità di interazione delle comunità e  consolidare la presenza di figure professionali, quali i mediatori culturali,  che mettano in comunicazione e sinergia concittadini con pari dignità, offrendo  a sinti e rom la possibilità di un riconoscimento di loro stessi come membri di  una comunità che si oppone alla logica della cultura dell’assimilazione e  dell’emarginazione. 
 
 La presenza dei mediatori culturali rom nei servizi socio sanitari e  scolastici 
 La formazione e l’inserimento di mediatori culturali ha finora riguardato  il consolidamento di esperienze positive di accoglienza e integrazione  scolastica per lo più rivolte a comunità stabilmente insediate sul territorio  milanese e provinciale.
 
 Il forte incremento della popolazione rom straniera e la richiesta di nuove  iscrizioni da parte delle famiglie di recente immigrazione, porrebbe tuttavia la  necessità di estendere il ricorso a nuovi mediatori culturali che siano anche  espressione dei gruppi più significativi (romeni e yugoslavi), i quali  costituiscono i due terzi dell’attuale popolazione rom, consentendo alle Scuole  di contrastare con maggior efficacia il fenomeno della dispersione scolastica e  potendo contare sull’operato di una significativa rete sociale di sostegno.
 
 In tal modo sarebbe possibile promuovere una effettiva distribuzione sul  territorio cittadino della gran parte dei minori in età scolare garantendo un  effettivo diritto allo studio. 
 
 L’insegnamento della lingua e cultura rom costituirebbe un’esperienza innovativa  di forte interesse per i minori iscritti nella scuola dell’obbligo e  un’opportunità di conoscenza per tutto il gruppo classe e gli insegnanti.
 
 La lingua infatti, è il tratto identitario più forte della cultura rom ma è  altresì trasmessa solo oralmente e pochi sono gli educatori rom in grado di  insegnarla.
 
 La trascrizione faciliterebbe inoltre il passaggio da un apprendimento di tipo  mnemonico, agrafico, alla familiarizzazione e interiorizzazione della scrittura  non vissuta solo come un veicolo di comunicazione estraneo. 
 
 Il progetto iniziale di formazione di mediatrici culturali rom si realizzò a  Milano a partire dalla metà degli anni ’90 con l’obiettivo di favorire un  positivo dialogo tra l’istituzione scolastica e le famiglie zingare, facilitando  l’inserimento e l’apprendimento scolastico dei bambini, nel rispetto e recupero  della propria identità culturale.
 
 In particolare, considerati i pregiudizi presenti nei confronti dei Rom e dei  bambini presenti a scuola, insieme al Provveditorato agli Studi venne deciso di  inserire nelle classi dei mediatori culturali provenienti dai campi nomadi, che  col trascorrere del tempo diventarono un punto di riferimento autorevole pei i  bambini, le loro famiglie, gli insegnanti intervenendo significativamente anche  sul problema della dispersione scolastica.
 
 Un ulteriore passaggio, di particolare interesse perché integrò azioni fra loro  diverse ma con obiettivi comuni, fu quello di rispondere alla richiesta,  soprattutto delle giovani donne, di aveve un’occasione di lavoro e istruzione,  aprendosi a un confronto positivo con la realtà esterna.
 
 Il Corso di formazione venne realizzato nel 1993 in collaborazione con  l’Università degli Studi di Milano (équipe coordinata da Susanna Mantovani,  allora docente di Pedagogia Sperimentale, oggi vice Rettore all’Università  Milano Bicocca).
 
 Nel 1996, le mediatrici parteciparono a un aggiornamento (della durata di 50  ore) gestito sempre in collaborazione tra Università e Opera Nomadi. 
 
 Questo secondo momento di formazione, preceduto da un’attività di ricerca  (interviste e colloqui con le mediatrici e con insegnanti e dirigenti  scolastici), ebbe lo scopo di monitorare l’andamento dell’esperienza, offrendo  un supporto formativo in campo pedagogico e culturale e rilanciando il ruolo  delle mediatrici culturali all’interno della scuola e con le stesse famiglie  zingare (analisi e riflessione sulle problematiche emerse, bisogni specifici di  cui prima si era consapevoli in modo generico, prospettive future di  cambiamento). 
 
 All'inizio del 1998 le mediatrici culturali, sostenute dalle scuole e dai loro  dirigenti, vennero incaricate direttamente dall'Amministrazione Comunale con  contratto diretto, per poi passare nuovamente per un triennio in convenzione con  l’Opera Nomadi e, dall’inizio del 2008 ancora una volta con contratto a termine  con il Comune.
 
 Ogni passaggio di natura "contrattuale" non fu estraneo alle difficoltà e ai  contrasti politici del momento, ma nascose e accompagnò l’insidia di  un’interruzione del rapporto di lavoro che da allora rimane pur sempre di  carattere precario.
 
 Nel 2005, l’allora Ministro del MIUR Moratti, oggi Sindaco di Milano e il  Direttore Generale, Moioli, oggi Assessore ai Servizi Sociali ed Educativi,  firmarono un Protocollo d’Intesa con l’Opera Nomadi Nazionale per la diffusione  dei progetti di mediazione culturale nelle Sovrintendenze Regionali Scolastiche.
 
 Dal 2005 al 2007, grazie ad un progetto finanziato dall’Assessorato alla  Famiglia e Solidarietà Sociale della Regione Lombardia, 15 mediatrici ebbero la  possibilità si seguire dei corsi retribuiti di formazione e tirocinio (100 ore  annue), con ricercatori dell’Università Bicocca, Dirigenti e Funzionari  dell’Ufficio Scolastico Provinciale, conseguendo dei diplomi di scuola superiore  e la certificazione per l’insegnamento della lingua italiana.
 
 Tra il settembre e il dicembre 2007 lo stesso Assessore Moioli non rinnovò la  convenzione con l’Opera Nomadi di Milano, lasciando per 4 mesi senza lavoro le  mediatrici e contemporaneamente rescindendo il contratto di lavoro a 2  cooperative rom che operavano nei campi nomadi comunali. Altri 20 posti di  lavoro in meno.
 
 Dopo 23 anni di servizio, diretto e indiretto, per l’Amministrazione Comunale,  l’unico Rom diplomato che collaborava con un servizio sociale di coordinamento,  esprimendo uno dei più alti livelli di professionalità esistenti in Italia  venne, senza alcun motivo, lasciato a casa. 
 
 
 Com’è immaginabile, molteplici furono le difficoltà incontrate dalle mediatrici,  soprattutto nei primi anni di attività: preparazione iniziale insufficiente,  richieste eccessive delle scuole che non ne compresero appieno la funzione.
 
 Benché anche attualmente i loro compiti non siano stati del tutto definiti con  chiarezza, per cui alle mediatrici si chiede contemporaneamente di provvedere  all’accudimento dei bambini fino all’assunzione del ruolo di insegnanti e al  mantenimento dei rapporti con le famiglie, la centralità del ruolo della  "mediazione culturale" appare aver integrato significativamente l’offerta  scolastica. 
 
 Le mediatrici affiancano le insegnanti agendo sull’intero gruppo classe e  stabilendo dei contatti e comunicazione con le famiglie rom ma senza scaricare  su se stesse un compito di mediazione che dovrebbe prima di tutto riguardare  sempre il docente.
 
 Le mediatrici oggi vantano un percorso di crescita formativa che le ha portate  ad assumere una notevole consapevolezza e capacità di riflessione rispetto al  loro ruolo e ai loro compiti, con cognizione di molte delle contraddizioni  irrisolte, delle difficoltà incontrate, dei momenti di conflitto che hanno  imparato a gestire e a superare anche grazie ad una autentica capacità di  mediazione culturale conquistata sul campo.
 
 L’esperienza condotta in questi anni ha sicuramente permesso loro di crescere  umanamente e culturalmente, di confrontarsi in modo ravvicinato con il mondo dei  cosiddetti gagé al di là dei reciproci stereotipi e pregiudizi e di  testimoniare, all’interno della famiglia e della comunità rom un diverso ruolo  della donna.
 
 La possibilità di guadagnarsi onestamente da vivere con un lavoro qualificato,  stimolante e di sicura utilità per i bambini rom oltre che per tutta la scuola,  senza essere costrette alla mendicità o ad altri espedienti, è un’esperienza  preziosa non solo da salvaguardare, ma da promuovere ulteriormente (per esempio  aumentando il loro impegno lavorativo a scuola, oppure puntando al  riconoscimento giuridico del ruolo nelle scuole dell’infanzia o nella scuola  primaria). 
 
 Queste giovani donne hanno acquisito un certo grado di autonomia e indipendenza  dalla famiglia, dopo un periodo di difficili rapporti perché oggetto di invidie  e di rivalità da parte delle altre donne e, per quelle sposate, di difficoltà a  conciliare il proprio ruolo di madri e di mogli con l’impegno lavorativo. 
 
 Esse si sono guadagnate il rispetto di molte famiglie rom proprio per il ruolo  che svolgono nella scuola. Grazie alla loro presenza, i genitori affidano più  volentieri i loro figli, sapendo che esse possono essere un interlocutore  diretto ed affidabile, domandando direttamente ad esse oltre che all’insegnante  che cosa accade ai loro bambini, come e che cosa imparino o non imparino, quali  siano i problemi e le difficoltà da superare.
 
 L’essersi impossessate di alcuni strumenti culturali del mondo alfabetizzato,  senza venir meno al rispetto dei valori della cultura di origine, l’aver  lavorato all’interno dell’istituzione scolastica e l’aver conosciuto regole e  condizioni di vita profondamente diverse dalle loro, ha potenziato le loro  capacità che, unitamente alle peculiari doti e risorse della cultura rom, ha  permesso loro di assumere iniziative e di reagire anche agli aspetti di  incertezza della loro condizione lavorativa. 
 
 In questi anni le mediatrici hanno acquisito maggiore autonomia ed  autorevolezza, maggiore capacità d’iniziativa e di collaborazione nel rapporto  con docenti e dirigenti scolastici e maggiore consapevolezza delle regole che il  lavoro dentro l’istituzione scolastica comporta. Esse svolgono un ruolo cruciale  nel primo inserimento dei bambini rom a scuola e collaborano con le insegnanti  nel predisporre il setting dell’esperienza educativa e nell’attivazione dei  dispositivi necessari all’accoglienza dei bambini. 
 
 La loro conoscenza dei bambini e delle loro famiglie, la conoscenza della loro  cultura e soprattutto l’uso della lingua materna, il romanés, lingua che viene  così riconosciuta ed anche valorizzata, sono i punti di forza della loro opera  di mediazione culturale in tutti i contesti d’ interazione e di relazione.
 
 Svolgono cioè un ruolo cruciale nella mediazione dei conflitti e nella prassi  educativa e didattica.
 
 Attraverso questa esperienza le mediatrici hanno acquisito anche capacità  d’insegnamento, non solo nei confronti dei bambini rom, ma anche verso gli  alunni stranieri e quelli con difficoltà di inserimento e apprendimento. Ciò è  avvenuto affiancando le insegnanti delle classi o gestendo direttamente i  bambini nell’apprendimento svolto in piccoli gruppi e nelle attività di  laboratorio. 
 
 In particolare, sul piano metodologico e didattico, esse hanno compreso il  valore di una didattica che si fondi:
    - sull’imparare facendo e giocando
- sulla predisposizione degli spazi e sull’organizzazione degli ambienti e  	dei materiali
- sull’esperienza della narrazione (recupero del patrimonio orale delle  	fiabe e dei racconti di vita zingara) 
- sullo sviluppo della creatività.
I dati dell’aumento della frequenza scolastica e dell’innalzamento degli  obiettivi formativi degli alunni rom, costituiscono un’ulteriore conferma della  validità del loro operato e sono, certamente, l’intervento di politica sociale  più convincente attuato a favore delle comunità rom. 
 
 Sastipe (Stare bene): salute e scenari culturali 
 La salute è un fondamentale diritto dell’individuo e interesse della  collettività… recita l’art. 32 della Costituzione. Badate bene: "dell’individuo  e della collettività (ricordava Carlo Cuomo). Abbiamo visto con quale  drammaticità si pone, per le comunità zingare, la questione della salute ma  anche dell’intervento coordinato dei servizi socio sanitari territoriali, così  come una specifica formazione degli operatori riguardo alla realtà antropologica  delle comunità e la collaborazione dei mediatori. 
 
 Le problematiche sanitarie 
 L’analisi dei fenomeni sanitari evidenzia aspetti di grave preoccupazione,  legati soprattutto all’assenza di interventi mirati di prevenzione e cura delle  principali patologie riscontrabili.
 
 Gli indici relativi ai tassi di natalità, morbilità, mortalità rilevabili nei  diversi gruppi rom e sinti sono drammaticamente accostabili a quelli dei Paesi  poveri del sud del mondo e sono la conseguenza diretta non solo delle cattive  condizioni di vita ma anche di un rapporto con le strutture sanitarie di base e  quelle ospedaliere incerto ed occasionale.
 
 I sistemi informativi sanitari risultano inadeguati per fornire informazioni  specifiche sulle caratteristiche dell’utenza ai rom (la malattia non è un evento  che investe solo il singolo individuo, bensì può diventare un problema sociale  che coinvolge l’insieme del gruppo familiare esteso), mentre gli spostamenti dai  luoghi di residenza impediscono di eseguire valutazioni longitudinali  consistenti.
 
 Il primo accesso nel nostro sistema sanitario per i rom è rappresentato quasi  esclusivamente dal pronto soccorso ospedaliero, per la sua visibilità,  accessibilità ad ogni orario, gratuità, assenza di controllo di documenti, per  la possibilità di accompagnamento e di solidale permanenza accanto al paziente.
 
 Il ricorso a tale struttura avviene dunque, secondo tradizione, nel momento di  conclamata necessità: fatti traumatici o l’apparire di sintomi acuti della  malattia, mentre affezioni anche gravi permangono ignorate a lungo.
 
 I dati (pochi) di dimissione ospedaliera relativi ai ricoveri in Regione  Lombardia evidenziano ad esempio un alto ricorso all’ospedalizzazione in età  pediatrica, soprattutto nel corso del primo anno di vita, con una predominanza  di ricoveri per malattie infettive, respiratorie e per patologie neonatali.
 
 Più che una nomenclatura clinica si possono quindi raggruppare e classificare  fattori di rischio che sviluppano patologie acute, croniche e da stress che  determinano la rilevanza di malattie delle alte e basse vie respiratorie, del  sistema digerente (le carie dentali sono un fenomeno diffusissimo a partire  dalla prima infanzia), dermatologiche, cardio e cerebrovascolari strettamente  correlate alle condizioni materiali di esistenza (situazioni ambientali malsane,  vicinanza ad arterie stradali a grossa percorrenza, discariche, accumulo di  rifiuti, ratti e insetti; abitudini alimentari che combinano carenze  quantitative e qualitative a occasionale sovralimentazione disordinata (obesità)  e abuso di fumo e bevande alcooliche; una cultura del corpo e della malattia che  rende difficile il rapporto tra medicina ufficiale e zingari).
 
 Inoltre si riscontra anche un atteggiamento delle strutture sanitarie che,  riflettendo passivamente il senso comune corrente, combina incomprensione,  indifferenza e atteggiamenti discriminatori: non si tenta di capire la cultura  "altra", vista solo come indice di ignoranza se non di barbarie; non si prende  coscienza né della gravità né della stessa esistenza del problema; spesso -  anche se con numerose lodevoli eccezioni - si discrimina più semplicemente il  rom che cerca il contatto con le strutture sanitarie.
 
 Per affrontare direttamente la questione sanitaria andando al nocciolo del  problema occorrerebbe dunque partire dal difficile rapporto tra la cultura del  corpo e della salute delle comunità rom e sinte e la cultura specifica degli  operatori dei servizi sanitari progettando percorsi di mediazione culturale tra  queste due culture.
 
 Ad esemplificazione di quanto detto i Rom e i Sinti esprimono, ad esempio, una  valutazione alquanto diversa del proprio stato di salute rispetto a quanto noi  siamo soliti attribuire loro sulla base di riscontri biomedici e dati  statistici, non riconoscendosi come gruppo particolarmente soggetto a malattie o  con una aspettativa di vita media di gran lunga inferiore rispetto alla  popolazione maggioritaria.
 
 La stessa struttura demografica delle comunità zingare ci fornisce la scelta  dove indirizzare le nostre proposte di intervento: l’altissimo numero di  gravidanze e di parti, quel 48 – 52% di popolazione infantile e  pre-adolescenziale impongono "naturalmente" il coinvolgimento dell’area del  materno – infantile.
 
 Ma a queste ragioni obiettive se ne sommano altre.
 
 Visto che si tratta di mediare tra due culture diverse, la scelta da effettuare  è quella di investire innanzitutto sulla mediazione tra due culture femminili  diverse: da una parte non la cultura "media" dei servizi sanitari ma la cultura  fortemente innovativa delle operatrici dei servizi territoriali del materno –  infantile (puntando soprattutto sulle operatrici dei consultori familiari e dei  consultori pediatrici, da sempre tese all’ascolto attento delle utenti e,  dall’altra, la specifica cultura del corpo, della sessualità, della gravidanza,  dei parti e dell’accudimento – allevamento dei bambini di cui sono portatrici le  romnìà, le donne zingare.
 
 Tanto più che l’esperienza parallela della mediazione scolastica ci rivela una  peculiarità femminile all’interno della cultura zingara: l’essere cioè le donne  custodi della tradizione e, contemporaneamente, le più audaci portatrici del  bisogno dinamico di cambiamento.
 
 La mediatrice sanitaria rom è quindi un’operatrice che all’interno della propria  cultura e comunità, da quel luogo di vita quotidiano in cui essa stessa vive,  impara a rapportarsi alla cultura maggioritaria rappresentando la specificità  culturale del proprio gruppo (i bisogni, i problemi e le risposte che in esso  maturano) ed acquisendo dalla cultura "altra" tutto quello che può essere  utilmente riportato.
 
 In questa dinamica di interscambio culturale assumono quindi un ruolo centrale i  servizi dell’area della famiglia, infanzia, età evolutiva, in relazione agli  scenari demografici (soprattutto se si pensa al ben più consistente fenomeno  migratorio in atto) e ai bisogni di prevenzione che modificano o meglio,  costringono a ripensare il superamento di un modello di intervento solo di tipo  emergenziale e per questo frammentario e una struttura dei servizi molto poco  incentrata su un sistema complesso di interazioni. 
 
 Milano: un’esperienza di mediazione culturale nel consultorio familiare 
 Dal 1996 l’Opera Nomadi ha avviato con la ASL di Milano – Dipartimento ASSI  la formazione e l’inserimento nei Consultori Familiari di mediatrici culturali  sanitarie rom, dando vita a un’esperienza pilota in questo settore.
 
 Nell’ultimo triennio questa azione ha riguardato in particolare l’intervento a  favore delle donne dei gruppi romeni che intendevano recarsi al Consultorio con  o senza il loro partner.
 
 Il Consultorio è progressivamente diventato un punto di riferimento importante  per le comunità di rom stranieri e italiani e, a partire da questa relazione,  anche altri Servizi socio sanitari hanno iniziato ad acquisire ai loro occhi una  specifica e riconosciuta fisionomia.
 
 Nel percorso di formazione professionale le mediatrici hanno raggiunto un  consistente grado di autonomia nei rapporti con i Servizi e un livello di  riconoscimento da parte delle comunità Rom che ha inciso anche sulla loro  condizione di donne.
 
 All’interno dei villaggi rom la fiducia acquisita le ha messe in condizione di  operare per un lavoro di sensibilizzazione sui problemi sanitari e di educazione  igienica dei bambini, a partire dalla profilassi delle vaccinazioni, i controlli  in gravidanza, il ricorso alla contraccezione.
 
 La continuità ha rappresentato un valore specifico di rafforzamento  dell’esperienza acquisita e di perfezionamento della sperimentazione condotta.
 
 Ma nello specifico della cultura e della condizione dei rom essa è anche:
    - una condizione essenziale per mantenere un rapporto di fiducia,  	faticosamente raggiunto, verso la nostra società e verso gli operatori che  	hanno saputo accogliere, formare e accompagnare le mediatrici nella loro  	attività
- una complessiva risorsa delle comunità interessate, lungo un cammino  	lento di integrazione che va reso il più possibile sicuro e continuo: ogni  	interruzione rappresenterebbe infatti una rovinosa perdita di credibilità  	globale e quindi un probabile abbandono dei processi avviati.