L'essere straniero per me non è altro che una via diretta al concetto di identità. In altre parole, l'identità non è qualcosa che già possiedi, devi invece passare attraverso le cose per ottenerla. Le cose devono farsi dubbie prima di potersi consolidare in maniera diversa.
Di Fabrizio (del 01/03/2011 @ 09:50:42, in Europa, visitato 2230 volte)
"Una ventata di ottimismo" da Orhan Tahir
1. Crei una OnG perché vuoi cambiare la situazione nel tuo paese.
2. Contatti un'Organizzazione Donatrice e quelle gentili persone ti dicono
"Dacci un progetto".
3. Elabori il progetto, secondo le richieste del Donatore.
4. In realtà dai informazioni al Donatore - qual è la situazione nella tua
città, quanti Rom vivono là e, la cosa più importante - COSA HAI IN MENTE, COSA
VUOI FARE, SEI PERICOLOSO, PUOI FARE UNA RIVOLUZIONE DOMANI?
5. Se vedono che puoi essere pericoloso ti danno i soldi, e ti rendono
dipendente.
6. Dopo 5, 6, 8 o 10 anni COMPRENDI che questo sistema NON FUNZIONA, CON I TUOI
PROGETTI NON PUOI CAMBIARE NIENTE! VEDI CHE TI USANO.
7. Provi a cercarti un altro lavoro, vuoi indipendenza, ma non hai mai fatto
altro, in tutta la tua vita hai fatto PROGETTI e non hai esperienze
professionali in altri campi. Conosci soltanto parole come: "Integrazione",
"Inclusione", "Discriminazione", "Povertà", "Piattaforma", "Decennio", bla, bla, bla...
8. Alla fine pensi di non aver altra possibilità se non di lavorare in Matrix,
anche se tu Matrix la odi. Sai che non puoi cambiare niente. Hai bisogno di fare
ciò che ti dice la "brava gente". Questa brava gente si occupa dei Rom, loro
sanno meglio cos'hanno bisogno i Rom.
9. Tu sei parte dell'Ipocrisia e sviluppi politiche che rendono la tua comunità
più dipendente dai Donatori, dalla UE e dai Fondi Governativi. Quindi sei uno
strumento nelle loro mani. Gli piaci perché sei il loro Animale da Laboratorio.
10. NON PUOI FARE LA RIVOLUZIONE PERCHE' LA GENTE ATTORNO A TE VUOLE I SOLDI
ED HA SUBITO IL LAVAGGIO DEL CERVELLO.
Alla fine scopri che alcuni non-Rom nel tuo paese sono diventati molto
ricchi, perché hanno usato le informazioni dai tuoi progetti per scrivere
rapporti e proporre politiche. Sono consulenti ben pagati ed invitati
dappertutto. Poi scopri che qualcuno di loro lavora per i Servizi Segreti ed i
Donatori lo sanno molto bene.
Già nel 2003 l'Unmik e il Tpi erano in possesso di testimonianze dettagliate su
presunti rapimenti e uccisioni di civili kosovari (soprattutto serbi) operati in
territorio albanese dall'Uck, anche per espiantare organi da "piazzare" sul
mercato. E' quanto emerge da documenti "riservati e sensibili" pubblicati la
settimana scorsa. Un nuovo tassello che rende sempre più urgenti indagini
approfondite
Non si trattava di semplici sospetti. Dal 2003 la missione delle Nazioni Unite
in Kosovo, Unmik, e il Tribunale penale internazionale per i crimini nella ex
Jugoslavia con sede all'Aia (Tpi), erano in possesso di testimonianze
dettagliate, rilasciate da persone direttamente coinvolte, sui presunti
trasferimenti e soppressioni di prigionieri civili, principalmente serbi, messo
in campo in territorio albanese dall'Esercito di liberazione del Kosovo (Uck),
dopo la fine del conflitto contro Belgrado, il 12 giugno 1999. Scopo di buona
parte di questi omicidi sarebbe stato quello di espiantare organi da "piazzare"
sul mercato internazionale dei trapianti.
E' quanto emerge da un documento Unmik "riservato e sensibile" che è stato
pubblicato – oscurato nelle parti riconducibili all'identità dei testimoni – il
16 febbraio scorso dalla tv France 24 e l'agenzia di stampa italiana, Tmnews. La
stampa locale ed internazionale ha ampiamente ripreso la notizia.
Questa la pista investigativa esplicitata nei documenti emersi, datati fine
2003: "i rapiti (in Kosovo), poi trasferiti in Albania centrale, sono stati
spostati ancora, in piccoli gruppi, in una casa privata a sud di Burrel
convertita in una clinica improvvisata. Qui equipaggiamento e personale medico
venivano usati per estrarre organi dai prigionieri, che poi morivano. I resti
venivano sepolti nelle vicinanze. Gli organi trasferiti all'aeroporto Rinas nei
pressi di Tirana e imbarcati per l'estero".
Come emerso a seguito dell'interesse sollevato dalla pubblicazione del 16
febbraio, una copia del documento era stata in realtà già pubblicata dal
quotidiano serbo 'Press', sul proprio sito web, il 28 gennaio 2011.
Dunque quasi venti giorni – un'era geologica per i tempi giornalistici – durante
i quali una notizia di tale peso resta inspiegabilmente 'congelata': fatti salve
due riprese dell'altro quotidiano serbo Politika e dell'agenzia Tanjug, non vi è
traccia dello scoop di Press, tanto nella stampa locale che extra regionale. Il
perché è solo uno degli interrogativi legati alla pubblicazione del documento.
Il contenuto dei documenti Unmik trapelati Il documento Unmik non si può definire propriamente un report: sfogliandolo, si
comprende che si tratta, piuttosto, di un collage di parti di diverse
documentazioni, sottratte al medesimo dossier, e riunite in un corpo unico di 30
pagine, la cui numerazione è infatti ricostruita manualmente a penna, invece che
seguire quella informatica di un unico file.
Il 30 ottobre 2003, l'allora capo missione del Tpi a Skopje e Pristina, Eamonn
Smyth, trasmette all'Aia - al collega Patrick Lopez Terres, capo della sezione
Indagini - una serie di informazioni "confidenziali, non circolabili" che ha
appreso, a sua volta, il giorno precedente da Paul Coffey, direttore del
dipartimento Giustizia Unmik. Date, orari, tragitti, nomi e cognomi di vittime
e presunti carnefici.
E luoghi. Dal documento emerge infatti che nel 2003 gli investigatori non erano
solo in possesso delle coordinate Gps, ormai di pubblico dominio, della
tristemente nota 'casa gialla', presunto luogo materiale degli espianti che più
testimoni riconoscono, anche se ridipinta di bianco, tra dieci fotografie: "era
pulito è c'era un odore molto forte di medicinale. Mi ha ricordato quello di un
ospedale, dolciastro e mi ha dato fastidio", racconta un testimone (pag. 10/30).
Le descrizioni raccolte vanno ben oltre, consentendo agli inquirenti di
localizzare almeno tre siti in territorio albanese di presunte fosse comuni
delle vittime (pagg. 15 e 16/30).
"Parliamo anche dei dispersi, delle indicazioni che vi sarebbero fosse comuni in
tre aree dell'Albania settentrionale", scrive nel 2008 l'ex procuratore capo Tpi,
Carla Del Ponte, nel suo libro denuncia 'La caccia. Io e i criminali di guerra'
(Milano, Feltrinelli, 2008, pag.297). "Così, alla fine – riferisce Del Ponte del
buco nell'acqua a cui portò nel 2004 il sopralluogo in Albania del Tpi – i
procuratori e gli investigatori sui casi dell'Uck decidono che le prove per
procedere sono insufficienti. Senza le fonti e senza un modo per identificarle e
rintracciarle, senza i corpi, e senza prove che colleghino indiziati di alto
livello a questi atti, tutte le strade di indagine sono sbarrate".
Eppure in queste pagine ci sono fonti e sono identificate, anche se gli autori
vi si riferiscono sempre, per ragioni di sicurezza, attraverso numeri e lettere
e precisano che "la loro credibilità non è testata" e che "non hanno mai
assistito alle operazioni chirurgiche" (pag 29/30).
Ci sono i corpi. "Questa volta ho visto i corpi avvolti in coperte grigie
dell'esercito. Ho sentito l'odore del sangue, dunque so che erano freschi. (...)
Le fosse erano già scavate quando siamo arrivati. Due corpi per ogni fossa. Ho
impiegato un'ora e mezza per finire" è il drammatico resoconto di un
trasferimento di cadaveri dal Kosovo in Albania (pag. 7/30).
Ci sono le vittime. "Erano civili, serbi, paesani (...) Ho pensato che sarebbero
stati uccisi, ma vi erano ordini rigorosi di non trattare male i prigionieri, di
non picchiarli e dare loro cibo e acqua" (pag. 11/30). O ancora, "anche delle
ragazze furono portate nella casa (la casa/clinica) e usate come 'pezzi di
ricambio'. Ricordo di essere stato molto triste perché erano ragazze albanesi"
(pag 10/30).
Ci sono i medici, tra i quali viene riconosciuto da più fonti "un arabo". I
campioni di sangue, le cartelle cliniche.
Ci sono gli organi. "Dalla prima coppia di serbi vennero estratti solo due reni
e poi vennero uccisi. L'intenzione era di lanciarsi sul mercato. In seguito si
erano organizzati molto meglio e incassavano 45.000 dollari a persona",
riferisce un testimone. "Normalmente – prosegue – volavano (gli organi) su voli
di linea per Istanbul il lunedì e il mercoledì ". Lo scalo di partenza era
quello tiranese di Rinas, dove "alle persone che vi lavoravano venivano dati dei
soldi per chiudere gli occhi e stessa storia a Istanbul" (pag. 25/30).
Ci sono nomi e cognomi: "Ramush e Daut Haradinaj" - l'ex premier kosovaro e il
fratello - insieme ad almeno altre tre persone, vengono infatti indicati da un
testimone come architetti del macabro crimine. "L'operazione è stata sostenuta
da un uomo legato alla polizia segreta albanese operativa del precedente governo
di Sali Berisha", ricostruisce inoltre, nel suo sommario, l'allora capo missione
del Tpi a Skopje e Pristina, Smyth (pag. 2/30). Così, Del Ponte aveva riferito
nel suo libro del "possibile coinvolgimento di servizi segreti albanesi" (p.
297).
Reazioni e domande in cerca di risposta Il nome che non compare mai è invece quello di Hashim Thaci, neo riconfermato
premier di Pristina, il quale sarebbe invece implicato secondo
il rapporto
pubblicato lo scorso dicembre dal senatore svizzero presso il Consiglio
d'Europa, Dick Marty. "No – ha confermato a France24 - non conoscevo il
documento e non l'avevo mai visto. D'altra parte mi erano noti i fatti
descritti". Perché mai in oltre due anni di indagini, nessuno ha condiviso con
Marty queste informazioni? "Siamo in diritto di interrogarci sull'efficacia
della cooperazione internazionale", risponde lui stesso.
Tra tante domande, infatti, c'è una certezza: "Unmik ovviamente conosceva il
documento perché lo ha generato, è in corso una indagine sulla fuga di notizie",
ha confermato l'ambasciatore Zannier a Tmnews. Ma il capo di Unmik precisa anche
che "la missione Eulex dispone del documento che è stato trasmesso al Capo
dipartimento Giustizia EULEX dell'epoca (Alberto) Perduca ed al procuratore capo
di EULEX dr Jacobs, nel marzo 2009". Pertanto, "gli elementi contenuti nel
rapporto del 2009 non sono stati nascosti", conclude il diplomatico italiano che
guida la missione Onu in Kosovo.
"E' vero che Unmik trasmise nel 2009 la documentazione sui crimini di guerra che
venne a sua volta inoltrata alla Procura speciale del Kosovo (Spkr, mista
Eulex-magistrati locali, competente esclusiva per crimini di guerra e altre
fattispecie, ndr)", conferma a Osservatorio Perduca, oggi Procuratore aggiunto a
Torino. "Sulla base di quelle informazioni, nel luglio 2009 Eulex chiese ed
ottenne dal magistrato autorizzazione ad avviare un'indagine sul traffico
d'organi: l'indagine è partita, resta aperta la questione dei risultati a cui ha
condotto".
Servono prove, servono i corpi e il solo posto dove cercare è l'Albania. Un
Paese membro della Nato, che ambisce al suo posto nell'Unione europea, ma da cui
la Comunità internazionale non è mai riuscita ad ottenere l'autorizzazione a
scavare nei presunti siti delle fosse comuni. O, invece, non ha mai voluto, non
con la forza e le pressioni necessarie perlomeno? Al di là degli adempimenti
formali, è lecito pensare che sia ancora in piedi quel 'muro di gomma'
sostanziale denunciato dalla Del Ponte nel suo libro?
Lo stesso che ha impedito ieri al Tribunale dell'Aia, oggi alla missione Eulex
di cercare un riscontro probatorio di informazioni tanto preziose, quanto vane
ai fini giudiziari finché resteranno nient'altro che pezzi di carta
'confidenziali'? Lo stesso dietro cui si nasconde Tirana, giustificandosi di non
essere stata né parte, né teatro dei conflitti balcanici degli anni novanta?
Elvira, una bambina gentile e solare, gioca con la sorellina di 2 anni, gira
per casa, anche se quella dove vive è difficile definirla casa. Una baracca di
20 metri quadrati dove vivono in otto, i genitori e sei figli. Fanno parte della
comunità rom di Scampia e si sono costruiti un'abitazione di fortuna con lamiere
e altri materiali trovati in strada. Entrando, però, l'atmosfera è
sorprendentemente accogliente: ci sono mobili, un televisore al plasma, tappeti,
un tavolo di legno e un divano in velluto. Le bambine ridono, si divertono.
Quando vedono Viola, la volontaria dell'associazione 'Non uno di meno', le
corrono incontro felici. Il rapporto che i volontari hanno instaurato con le
famiglie rom è ottimo: loro sanno che grazie a Viola i bambini potranno andare a
scuola e riuscire ad integrarsi con gli altri bambini italiani.
Circa 70 famiglie, giovani, anziani e molti bambini. Tra i campi Rom di Scampia,
quello di viale della Resistenza, proprio di fronte alla scuola elementare
Ilaria Alpi, è uno dei più a rischio. Dopo il tragico incidente verificatosi a
Roma il 6 febbraio scorso, che ha visto la morte di 4 bambini a seguito di un
incendio divampato in un campo nomadi, l'attenzione verso la problematica rom si
sta facendo sentire in tutte le città italiane. E anche a Napoli la situazione
non è delle più tranquille. A Scampia esiste una delle comunità nomadi più
grandi del Paese. In tutto 400 famiglie. Il Comune ha messo a norma uno dei
campi alla periferia nord della città, ma per molti altri le condizioni
igieniche e di sicurezza restano davvero minime.
La scorsa settimana la Commissione d'Inchiesta Anticamorra, per la vigilanza e
la difesa contro la criminalità organizzata, ha visitato il presidio sociale nel
campo di Scampia, denunciando il forte degrado e sottolineando la necessità di
"un potenziamento dei servizi per prevenire e contrastare le emergenze sociali".
Ma la strada da fare è lunga e le scelte condizionate dalla politica.
Dai campi le famiglie lanciano il loro appello: "Abbiamo bisogno di case decenti
in cui vivere e di un aiuto dallo Stato per cercare di integrarci nella
comunità". Così uno degli uomini della baraccopoli di viale della Resistenza
spiega che la difficoltà sta soprattutto nella mancanza del permesso di
soggiorno. Molti di loro, infatti, non sono cittadini italiani e questo rende
ancora più complicato la ricerca di un lavoro. La mancanza di denaro li spinge
verso attività illecite, portandoli spesso a fare i conti con la giustizia e
allontanando la speranza di un permesso di soggiorno. "Un circolo vizioso che lo
stato dovrebbe interrompere", spiega il "capofamiglia", un uomo forte, in Italia
dal 1980, ma ancora con passaporto macedone.
DOMENICO MODAFFERI. Esiste uno stereotipo radicato: quello che con i rom
non ci sia niente da fare, che ce l'abbiano nel sangue di non rispettare le
regole, di vivere da parassiti nei confronti della società. Noi, attraverso la
formazione al lavoro, abbiamo educato al rispetto delle regole della convivenza,
smontando questo luogo comune. In una città come Reggio Calabria, coi
problemi di disagio e disoccupazione che esistono, la nostra cooperativa offre
lavoro regolare ai rom, nel campo ecologico e dello smaltimento dei rifiuti.
Ricordo un episodio all'inizio della nostra attività: in un quartiere della
città avevamo da poco incominciato a fare manutenzione del verde; una signora,
passando, commenta visibilmente soddisfatta: «Finalmente il Comune ci manda
qualcuno!». Avendole spiegato che si trattava di ragazzi rom, la signora si
ferma e dice in dialetto: «Chisti sun zingari fora»; ovvero, questi non possono
essere zingari di Reggio Calabria... Lo stereotipo del rom incapace di lavorare
era messo in crisi. La sua sorpresa era il segno del percorso culturale che
stavamo avviando.
Abbiamo sempre pensato che per creare le condizioni di integrazione non si
dovesse fare un percorso di assistenzialismo, ma di rispetto delle regole del
lavoro e della convivenza.
In questo senso, per educare al rispetto della legalità, è stato importante
anche ottenere come sede della cooperativa un bene confiscato alla 'ndrangheta.
Lo stato, assegnandocelo, ha affermato il principio della legalità togliendo un
bene al malavitoso e affidandolo a chi, vivendo nel disagio, ha sempre
considerato il malavitoso un soggetto vincitore. Lavorare in una struttura
confiscata è stato educativo per tutta la comunità rom, perché ha fatto capire
che non sempre la persona che ha il potere criminale nella città riesce a farla
franca.
Quello che mette in crisi il percorso di educazione alla legalità attraverso
il lavoro è, invece, la lontananza delle istituzioni. Ad esempio, la mancanza di
appalti per la cooperativa. Questo fa vacillare la fiducia nelle regole che
cerchiamo di costruire con la nostra attività. Cosa rispondo se un rom, padre di
famiglia, mi dice: «Io ho scelto di lavorare e di sudare, anche rispetto a tanti
altri rom che hanno voluto scegliere strade più comode... loro però adesso i 50
euro per dare il pane ai figli li hanno, io no».
Domenico Modafferi è il presidente della cooperativa sociale Rom 1995, nata
con l'obiettivo di allontanare i rom da emarginazione e devianza attraverso
percorsi di inserimento lavorativo nella gestione dei rifiuti solidi urbani. La
cooperativa ha sede in un immobile confiscato alla 'ndrangheta.
Di Fabrizio (del 27/02/2011 @ 09:49:11, in Italia, visitato 2213 volte)
È pomeriggio. Il campo rom è avvolto da fumo, fuliggine, odore nauseabondo di
liquami. La spazzatura non viene ritirata da giorni. Pozzanghere di melma
fuoriescono in tutta la zona abitata. Cani e bambini giocano nell'area se pur
impraticabile. Le fogne della parte nuova del campo, consegnata da pochi mesi
per il nuovo progetto, risultano non funzionanti. La pendenza della strada è
stata sbagliata: i liquami dei 16 prefabbricati non finiscono nella prevista
fogna a dispersione ma fuoriescono nelle case, attraverso i minuscoli bagni dei
primi alloggi. I "lavori pubblici", pur investiti per giorni del problema, non
intendono intervenire. Alcuni rom aprono un tombino alla fine della strada ed i
liquami abbandonano le casette e si liberano nel campo. I rappresentanti del
campo chiamano a loro spese autospurghi per tentare di trovare soluzioni da sé.
Inutilmente perché il problema non è che risolvibile da un'impresa.
La parte vecchia del campo, quella delle baracche è in parte invivibile a
causa del descritto sovraccarico fognario ed a causa della rottura del vecchio
impianto idrico che non ha retto al tempo allagando parte delle baracche.
Bambini, adulti con gravi forme di disabilità (amputazione degli arti,
dialisi, ictus, epilessia), dormono nell'acqua e non ricevono alcuna assistenza.
I bagni sono comuni e non adiacenti alle baracche. Poi un'ispezione.
Un'ingiunzione di abbattimento. Un tempo limitato per trovare soluzioni ad una
situazione che facile non è e che si trascina da anni. Troppi. Quasi venti.
Iniziata con un' infausta decisione amministrativa di far diventare campo e
comunità semplicemente alcune famiglie di concittadini che scappando dalla
guerra in Jugoslavia avevano cercato rifugio in città. Il ghetto negli anni si è
protratto, è cresciuto nell'incuria politica di tutti. Un'ignavia
politico-organizzativa generalizzata, intervallata da interventi estemporanei
dettati da una qualche situazione emergenziale. Pagamento delle utenze,
autospurgo, spazzatura. Alcuni container forniti con finanziamento provinciale,
un nuovo ultimo progetto abitativo ma mai interventi congiunti, organici, a
lungo periodo, mirati intanto al superamento del campo (perché il campo per
forza?) edal concreto inserimento sociale e lavorativo dei rom.
I bambini nati qui, cresciuti nelle scuole della città non hanno di fatto un
futuro diverso che vivere, crescere e morire nel campo. Da soli non ce la fanno
nemmeno ad affrontare la scuola media. non hanno ancora i libri! Stamane,
durante l'incontro avvenuto a Palazzo Carafa col Sindaco di Lecce ed altri
rappresentanti istituzionali, abbiamo appreso con sollievo la dichiarata volontà
politica dell'amministrazione comunale di non voler agire un indiscriminato
sgombero delle famiglie rom di campo Panareo ma la disponibilità anzi, ad un
tavolo di concertazione che possa mettere in campo progettualità possibili.
La convocazione dei piani di zona, inoltre, risulta un percorso
indispensabile, stante la disponibilità finanziaria derivante dalla misura PO
FESR 2007-2013, asse III, linea 3.4 azione 3.4.1., il cui bando - che sta per
scadere a brevissimo - è fruibile solo dai comuni ed è rivolto, fra i possibili
beneficiari anche ad "adulti in condizione di disagio, minoranze quali nomadi e
stranieri immigrati, altri soggetti marginali o a rischio di emarginazione
sociale, culturale, economica e lavorativa". È un finanziamento che non può
essere utilizzato per usi edilizi ma bensì per il pagamento di fitti, per
progetti di inserimento sociale e lavorativo e quant'altro si possa mettere in
atto per un ammontare massimo di 700mila euro. Con l'individuazione di strategie
possibili ed un minimo di coordinamento fra i differenti settori del Comune di
Lecce e fra questo e i Comuni del Salento, non diventerebbe più impossibile
mettere in campo dei canali di risoluzione delle problematiche sociali ed
abitative dei rom come di altri soggetti svantaggiati della città.
Ma se l'uso di fondi regionali già esistenti risulta proficuo per la
determinazione di servizi possibili utili sia al provvisorio arginamento
dell'emergenza abitativa sia alla collocazione ed al sostegno dei disabili
residenti al campo, rimane da risolvere e presto la gravissima situazione
igienico-ambientale in cui versano attualmente le famiglie rom.
È necessario un intervento straordinario ed urgente, possibile, con facilità,
solo con un impegno celere, sinergico e congiunto fra istituzioni. Qualcuno deve
intervenire e fondi straordinari ed immediati possono essere reperiti da
qualsiasi ente, intanto, ad esempio, da quello principe che è l'Ente Provincia.
L'invito finale rivolto ai soggetti istituzionali coinvolti ed a quelli
silenziosi è quello di recarsi di persona, almeno per una volta, al campo
Panareo, perché prima di decidere se intervenire o meno, come o come non farlo,
si ha il dovere etico, morale e politico di conoscere la realtà e di vedere la
situazione coi propri occhi.
Non sfuggirebbe lo stridio fra il degrado estremo del campo Panareo e la
forza, la dignità, lo sforzo di cura della famiglia e degli spazi, altrettanto
estreme e tenaci, che contraddistinguono gli abitanti, anche i più piccoli, e la
loro solitudine.
Di Fabrizio (del 27/02/2011 @ 09:09:36, in lavoro, visitato 2009 volte)
(mi-lorenteggio.com)
Buccinasco, 23 febbraio 2011 - La Associazione Apertamente di Buccinasco che
gestisce il Punto Parco Terradeo, è una associazione costituita da Sinti e Gage
( non Sinti) la quale in collaborazione con l'Associazione BUCCinBICI ha il
piacere di invitarvi alla serata presso la locale Cascina Robbiolo mercoledì
02.03.11 ore 21.00.( ...)
La serata è anche a sostegno del Progetto Mobilità (conosciuto come progetto
Ciclofficina), finalizzato a creare alcuni posti di lavoro per giovani Sinti,
offrire alcuni servizi alla cittadinanza, e contemporaneamente cercare di dare
qualche risposta ai problemi di mobilità del nostro comune e quelli limitrofi.
Oltre ad Apertamente, contribuiscono all'impresa Buccinbici e la Banca del Tempo
e dei Saperi con il patrocinio dell'Amministrazione Comunale ed è stata
finanziata dal "Fondo Maroni" gestito dal Commissario Straordinario per
l'emergenza Nomadi in Lombardia (Prefetto di Milano Lombardo).
-Durante la serata verrà presentata la guida "A partire da Buccinasco"
contenente informazioni su percorsi ciclopedonale che risponde alle richieste
delle persone che vogliono esplorare il Parco Agricolo Sud.(all.2)
-Sarà comunicato il programma della prossima stagione ciclistica di Buccinbici.
-Inoltre , vi sarà la proiezione delle foto scattate nelle scorse stagioni.
sabato 5 marzo dalle ore 22.00
Allo Spazio A di Sesto San Giovanni (attaccato a Milano) | via
Maestri del Lavoro| info@spazioa.org |
http://www.spazioa.org/
UDITE! UDITE! SIORE E SIORI!
GRANDE CONCERTO serale e
STAGE pomeridiano
(fantasia di valzer a 3, 5, 8, 11 tempi)
Vieni in bicicletta, in moto o in automobile?
Da Milano, percorrere viale Monza sino al termine. Oltrepassata la fermata di
Sesto Marelli della MM1 restare sulla destra senza salire sul cavalcavia. Subito
dopo l'ufficio postale (circa 100 metri) girare a destra in via Maestri del
Lavoro. La costruzione sulla sinistra è spazioA, di fronte a un ampio parcheggio
gratuito.
Vieni in metropolitana?
Prendere la MM1 fino a Sesto Marelli. Appena usciti restare sul lato destro di
viale Monza (il lato della sede CGIL-CISL-UIL) e proseguire in direzione Sesto
san Giovanni. Oltrepassato un porticato con le colonne rosse, proseguire sino
all'ufficio postale e girare a destra in via Maestri del Lavoro. La costruzione
sulla sinistra è spazioA.
Per info:
Gianmarco - 335.8395877
Daniela - 320.0877526
Pietro - 349.6342214
Di Fabrizio (del 26/02/2011 @ 09:10:33, in Italia, visitato 2149 volte)
mercoledì 2 marzo dalle 10.00 alle 17.00
a
Brescia in
Via Orzinuovi n. 108
L'incontro è aperto a tutte le associazioni aderenti alla Federazione, a tutte
le associazioni sinte e rom e a tutti i singoli sinti e rom che vogliono
impegnarsi per il riconoscimento dei diritti di minoranze linguistiche.
Ordine del Giorno: 1) Stati generali della federazione;
2) Azioni dei Presidenti delle associazioni aderenti nei diversi territori;
3) Analisi della situazione di Roma e Milano e preparazione di un comunicato
stampa.
sabato 5 marzo alle ore 22.00
Teatro Bibiena, Mantova
Ancor prima di uscire dal ventre materno, Boulou ed Eliòs Ferrè hanno ascoltato
le note di una chitarra. Loro padre, Matelo Ferrè, è tuttora considerato una
leggenda. Compagno di strada di Django Reinhardt, Matelo aveva formato con i
suoi fratelli Baro e Sarane un trio divenuto celebre. In particolare Baro,
componente del quintetto di Django, è considerato come l’inventore del “valse
swing”, un vero e proprio fuoco musicale degli anni Trenta, Quaranta e
Cinquanta. Con Django, Gus Viseur e Jo Privat, i fratelli Matelo, Baro e Sarane
hanno colorato di francese il jazz.
Il primogenito di Matelo, Boulou, ha le stimmate del genio fin da piccolo: è
capace di suonare qualunque cosa ascolti, e in casa Ferrè di musica se ne
ascolta tanta! Django, certo, ma anche Charlie Parker e Dizzy Gillespie, di cui
Boulou impara tutti i “chorus” ad orecchio, la musica zigana, la classica
(Ravel, Bebussy, Faurè...). Insomma, un conservatorio domestico. E’ a otto anni,
con suo padre, che Boulou tiene il suo primo concerto: canta, suona, improvvisa.
Fra chi lo ascolta provoca stupore e meraviglia. Ancor prima di Raphael Fays e
Bireli Lagrene, Boulou è il bambino prodigio della grande famiglia manouche.
Qualche anno più tardi troviamo Boulou insieme a suo fratello Elòs, di 5 anni
più giovane, all’Olympia, in diretta televisiva. Quindi iniziano gli incontri
con i grandi del jazz, fra cui Dexter Gordon.
Ingresso: 15 euro - studenti 12 euro
Domenica 6 Marzo 2011 dalle ore 11.00 alle 13.00 Stage con Boulou ed Elios Ferrè
Iscrizione 15 euro
Info T +39 349 5921605
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