Non c'è acqua, non possono lavarsi: niente scuola per quattro bambini.
Manuela ha nove anni, dovrebbe essere in classe assieme ai suoi compagni, nella
terza elementare della Racagni. Invece gioca fra i tappeti di casa, nel campo
nomadi del Cornocchio. L’Iren ha staccato l’energia elettrica e la fornitura
dell’acqua, perché le bollette non sono state pagate per anni, fino a un conto
totale di oltre diecimila euro.
I genitori non hanno iscritto i figli a scuola: «Qui non c'è acqua, non c'è il
bagno, non c'è luce. I bambini devono essere puliti, altrimenti i loro compagni
li allontanano, i genitori e le maestre si lamentano - dice la madre - E poi
vogliono che lasciamo il campo. Ci hanno detto: dovete spostarvi. Come facciamo
a mandarli a scuola se ci mandano via?»
Il Comune dice che il regolamento più volte non è stato rispettato, con la
costruzione di strutture abusive, con l’ingresso di furgoni e di famiglie non in
regola con il permesso di soggiorno.
Allo stesso tempo, la questione delicatissima: per mandare i bambini a scuola,
togliendoli in questo modo dalla strada, il Comune deve fare intervenire il
tribunale, il che vuol dire strappare i bambini dai genitori.
Gli altri piccoli del campo nomadi del Cornocchio vanno tutti in classe. In
tutto, i minori sono 27. C'è un pulmino pubblico che li passa a prendere ogni
mattina e li porta a scuola con gli educatori. Durante l’anno ci sono anche
volontari che al pomeriggio li aiutano a studiare e fare i compiti.
Il campo è diviso in due, da una parte ci sono i rom macedoni, dall’altra
parte, separati da una rete e da una fitta siepe, ci sono i rom bosniaci: ed è
proprio qui che vivono i quattro bambini che non sono in classe. Lo scorso anno
avevano fatto numerose assenze: perché si era spostati a Roma e poi erano
ritornati a Parma.
I quattro bambini sono nati in Italia. Il più grande doveva essere in terza
media. Un altro, più piccolo di un anno, non è tornato in seconda media. Un
bambino doveva frequentare la classe seconda delle elementari di Fognano e poi
c'è Manuela (in realtà ha un altro nome, ma nel campo tutti la chiamano così)
che non è alla Racagni.
Suo padre abita da quindici anni nella casa «provvisoria» del Cornocchio. Dei
quattro minori che non frequentano la scuola dell’obbligo, tre sono suoi figli,
e uno è suo nipote: «Mi piacerebbe che andassero a scuola, per capire qualcosa
nella vita, non per diventare come me, che di mestiere faccio il rottamaio»
commenta lui.
Pentole e mosche. Vestiti appesi a un filo legato al palo della luce. Tappeti
e letti stretti uno accanto all’altro. Fiori e roulotte. Chi vive nel campo
nomadi paga affitto, costo dei consumi energetici e dell’acqua. Per cucinare o
lavarsi, la famiglia di Manuela da mesi usa l’acqua dell’idrante, che è a un
passo dal suo tetto. L’idrante è aperto tutto il giorno, Iren poi chiede il
conto alle casse comunali.
All’ingresso del campo, dicono i responsabili della struttura, ci sarebbe la
possibilità di far fare la doccia agli studenti. Ma fra maxibollette e
regolamenti non rispettati è ormai muro contro muro e a farne le spese sono i
più piccoli.
Di Sucar Drom (del 01/10/2011 @ 09:35:42, in Kumpanija, visitato 2062 volte)
Amiche e amici di Articolo 3
vi aspettiamo giovedì 6 ottobre alle
ore 9.00
Presso l'aula magna della Fondazione Università di Mantova –
via Scarsellini, 2 - Mantova
in occasione della conferenza internazionale In Other Words
Discuteremo di stereotipi, rappresentazione delle minoranze e media con: Udo Enwereuzor, esperto COSPE Rosita D'Angiolella, magistrata, UNAR Verica Rupar, professoressa Università di Cardiff e ricercatrice Media Diversity
Institute Eva Rizzin, ricercatrice Articolo 3 Davide Provenzano, presidente ArciGay 'La salamandra' Porpora Marcasciano, presidentessa Movimento Identità Trans Mostafa El Ayoubi, giornalista e caporedattore 'Confronti' Saji Assi, giornalista Rai News 24 Daniel Reichel, giornalista 'Pagine Ebraiche' Tiziana Ferrario, giornalista Tg1, consigliera nazionale Ordine dei giornalisti
La conferenza è organizzata dalla Provincia di Mantova nell'ambito del progetto
europeo "In
other WORDS ", di cui Articolo 3 è partner.
Il programma completo è in allegato assieme all'appuntamento con Articolo 3
presso l'Altrofestival - l'Italia sono anch'io di venerdì 30 settembre alle
20.30 a Villa Brescianelli (Castiglione delle Stiviere) in occasione della
campagna CGIL per i diritti di cittadinanza delle persone straniere
Di Fabrizio (del 01/10/2011 @ 09:02:44, in Italia, visitato 1326 volte)
Sarebbe un mondo più giusto, quando fatti come questi non
fossero più una notizia. Ma per il momento andrebbe bene anche così, non fosse
per qualche commento che m'è rimasto sullo stomaco...
La notizia è destinata a frantumare tanti luoghi comuni, anche nella
solare Riviera del Corallo. Non solo documenti nel portafoglio ma anche carta di
credito. Felice il pensionato che aveva smarrito il portafogli
ALGHERO - Una signora residente nel campo nomadi di Fertilia, nella
mattinata di lunedì si è recata nella Stazione dei Carabinieri di via Don
Minzoni per restituire un borsellino appena ritrovato per strada.
Non solo documenti nel portafogli, ma carta di credito e la somma considerevole
di 570 euro. Sarà stato felice il pensionato 60enne originario di Bitti, a cui
sono stati restituiti tutti i suoi averi.
Saranno sorpresi tutti coloro - i pregiudizi sono in agguato per tanti - che
associano un'etnia solo a determinati comportamenti, spesso negativi. Qualche
volta ci sono delle sorprese, per cui vale sempre la pena cambiare idea, o se
non altro riservare il beneficio del dubbio.
Di Fabrizio (del 30/09/2011 @ 09:51:01, in lavoro, visitato 1471 volte)
...che abbiano lavorato in Italia per almeno due anni consecutivi dalla
data dell’11 gennaio 2008. Lo può richiedere anche un datore di lavoro diverso.
23 settembre 2011: Lo ha chiarito il Ministero dell’interno con la
circolare n. 6914 del 12 settembre 2011.
Il 22 marzo scorso ha preso il via la procedura on line, attiva fino al 31
dicembre 2011, per la presentazione delle domande di nulla osta per lavoro
stagionale prevista dal DPCM del 17 febbraio 2011 che consente l'ingresso in
Italia di 60.000 lavoratori extracomunitari stagionali. Novità di quest’anno la
possibilità di richiedere un nulla osta pluriennale per quei lavoratori,
cittadini dei Paesi indicati nel decreto, che siano già entrati in Italia per
prestare lavoro subordinato stagionale per almeno due anni consecutivi. Una
grande semplificazione per i datori di lavoro che, consapevoli di avere bisogno
del lavoratore anche per le stagioni future, il prossimo anno potranno
confermare l’assunzione del lavoratore indipendentemente dal decreto flussi
stagionale. Ma i due anni consecutivi devono essere immediatamente antecedenti
la data di presentazione della domanda? Può presentare la domanda un datore di
lavoro diverso da quello per cui si è già lavorato? A queste domande, poste
dalle Questure, ha risposto il Ministero dell’interno attraverso la circolare n.
6914 del 12 settembre 2011. Per quanto riguarda "i due anni consecutivi",
chiarisce il Ministero, si intendono due anni a partire dall’11 gennaio 2008,
data in cui è entrato in vigore il sistema di rilevazione delle comunicazioni
obbligatorie di assunzione "indispensabile per verificare l’effettiva
sussistenza dei due pregressi rapporti di lavoro stagionali" mentre, per quanto
riguarda il secondo quesito "si ritiene che il datore che presenti, per la prima
volta, l’istanza di rilascio del nulla osta pluriennale possa essere anche
persona diversa da quella delle due precedenti annualità".
Di Fabrizio (del 30/09/2011 @ 09:33:57, in scuola, visitato 1509 volte)
Segnalazione di Stefano Pasta da
Libero. Da notare che basta abbandonare i toni da crociata che in questi
casi sono soliti per quel giornale (difatti si tratta di un pezzo che arriva da
Adnkronos ) e anche i soliti commentatori razzisti stanno zitti.
Milano, 22 set. (Adnkronos) - A quindici anni ha imparato, in soli sei mesi,
a leggere, scrivere e fare di conto, in tempo utile ad iscriversi ad una scuola
professionale, dove potra' imparare un mestiere che gli dia da vivere.
Protagonista della storia e' un giovane rom venuto dalla Romania a Milano e
a raccontarla e' Elisa Graziano, insegnante all'Itc Schiaparelli-Gramsci di
Milano e, all'occorrenza, insegnante di strada.
"E. (l'iniziale e' di fantasia, ndr) - riferisce la Graziano - e' uno studente
sedicenne al centro di un progetto piuttosto avventuroso: a quindici anni ha
seguito un percorso di studi organizzato esclusivamente per lui da un gruppo di
insegnanti volontari. Quando Stefano Pasta, della Comunita' di Sant'Egidio, ci
ha chiesto di occuparcene ci ha spiegato che bisognava insegnargli a leggere, a
scrivere e a far di conto nell'arco di otto mesi, perche' questo era il tempo
massimo per non perdere il treno dei corsi di formazione professionale".
"La cosa - continua l'insegnante - poteva sembrare complessa, benche' fattibile,
ma lo era oltre le nostre aspettative perche' E. si esprimeva esclusivamente in
lingua romanes, l'idioma della sua famiglia e del suo popolo, la lingua dei rom.
Era troppo grande per essere inserito nelle scuole elementari ma decisamente
analfabeta per le scuole medie. Sapevamo che era fuggito dalla miseria di un
villaggio romeno per cercare opportunita' di vita".
"Poi - prosegue l'insegnante - la faccenda si e' complicata anche perche'
abbiamo dovuto seguirlo negli spostamenti causati dagli sgomberi dei campi a
Milano. C'e' da dire che la determinazione di questo adolescente ci ha aiutati a
proseguire comunque, infatti non abbiamo fatto nessuna fatica a fargli
rispettare i nostri appuntamenti di studio: ricordo che un pomeriggio si e'
presentato bagnato fradicio, ma con i quaderni asciutti, per aver dormito in un
giardinetto sotto l'acqua scrosciante di novembre, dopo l'ennesimo sgombero".
"Ancora pazienza - continua la Graziano - la nostra scuola itinerante e'
continuata tra la sede Acli di via Conterosso e la biblioteca di via Valvassori
Peroni, a Milano, dall'ottobre del 2010 a giugno del 2011, per 10 ore
settimanali, di pomeriggio. Studente tenace e fiducioso, il nostro E. ha
frequentato le lezioni nonostante, da due mesi, venisse da Pavia, dove tuttora
vive in una casa abbandonata, per completare l'anno scolastico con i suoi
insegnanti di sempre: se noi abbiamo avuto pazienza, lui ha dovuto trovare
risorse interiori di ben piu' alto respiro".
"Sostenuto dal nostro affetto e da una nostra piccola borsa di studio - conclude
l'insegnante - ha potuto ancora proseguire sulla strada della sua personale
emancipazione sino a tagliare il suo primo personalissimo traguardo:
l'inserimento in una scuola di formazione professionale a settembre. Adesso ci
sentiamo di ringraziare sia Stefano, della Comunita' di S. Egidio, che molti
altri cittadini i quali , facendo rete con il loro sostegno, ci hanno permesso
di realizzare questo piccolo ma concreto gesto di solidarieta'".
Le Parisien Giudicato per aver pulito la baraccopoli Julien
Heyligen | Publié le 09.09.2011, 07h00
Villabé, il 27 marzo. Serge Guichard (a sinistra), con l'aiuto dei volontari e
degli abitanti della baraccopoli, aveva pulito il campo rom di Moulin-Galant.
Oggi è accusato di "deposito o abbandono sulla strada pubblica di rifiuti e
altri materiali". | (lp/louise combet.)
Nel mese di marzo scorso, Serge Guichard presidente di un'associazione di
sostegno ai rom, aveva aiutato a pulire il campo di Villabé. Una spazzata che
gli costa una denuncia per "deposito di rifiuti su suolo pubblico".
"La solidarietà non è un delitto" Serge Guichard, presidente
dell'Associazione di solidarietà in Essonne, con le famiglie rumene e rom (ASERFF),
lo dice ad alta voce da sempre.
Oggi, la sua frase prende una risonanza del tutto particolare. Il volontario
dovrà comparire davanti al Tribunale di Evry il 22 settembre alle 14.00
"E' totalmente assurdo. Ho pulito il campo rom tra Ormoi, Corbeil e Villabé in
accordo con le autorità e preavvisando gli uffici comunali interessati. Mi
ritrovo oggi denunciato..." dice sospirando. I fatti rimproverati al volontario
risalgono a marzo. Quel mese, con l'aiuto di altri volontari e degli abitanti
del campo, pulisce il campo rom di Moulin-Galant. E' urgente. I ratti invadono
le casupole. Il fiume Essonne, che scorre a due passi, incomincia ad essere
inquinato dall'immondizia. Il consiglio generale, proprietario del terreno,
fornisce i sacchi. In poche ore, circa duemila ne sono riempiti. Prima di
toglierli, la spazzatura viene sistemata lungo la strada. Il consiglio generale
finanzia la raccolta realizzata dai servizi della comunità dell'agglomerato Evry
Centre Essonne (CAECE), del quale dipende Villabé, dove si trova ubicato la
maggiore parte del campo. Un container viene posizionato. Da allora è utilizzato
dai rom ed è regolarmente svuotato dalla CAECE. "Funziona piuttosto bene"
attesta Serge Guichard.
Una petizione di 800 firme.
A luglio, il presidente dell'ASEFRR riceve la chiamata di un ufficiale
giudiziario. Deve andare a prendere una convocazione per il Tribunale. Serge
Guichard, incuriosito, pensa a un "eccesso di velocità un po' elevato". Scoprendo
la verità, casca dalle nuvole. I sostegni del volontario si organizzano. Con una
petizione sono state raccolte finora 800 firme.
Varie associazioni, come la Lega per i diritti dell'Uomo, e associazioni
politiche, come il Partito Comunista, sostengono l'accusato. Alcuni confinanti
con il campo, anche se non ancora pronti a firmare la petizione, sono piuttosto
soddisfatti dell'operazione di pulizia. "E' certamente più pulito di prima. Ora
ciò che occorrerebbe sono dei servizi igienici...." dice una vicina.
Nel frattempo, l'origine della denuncia resta un mistero. Malgrado le sue
richieste, Julie Bonnier-Hamon non ha avuto ancora accesso al fascicolo. "Che
passi così velocemente in aula dopo la denuncia di un confinante mi sorprende.
Potrebbe anche essere che il procuratore abbia fatto tutto lui. Ma l'operazione
era sostenuta da istituzioni importanti. Francamente, questo fascicolo non ha
nessun senso. Pulire un campo rom, non vedo dove sia il male."
Ci sono le ladre rinchiuse nel carcere romano di Rebibbia e le bambine mandate a
mendicare, ma anche la giovane regista di Torino superpremiata per il film in
cui racconta la storia della sua famiglia e la sua passione per Woody Allen,
l'artista che ha scolpito il monumento in onore del Porrajmos, l'Olocausto rom,
l'ex maestro che rifiutò di insegnare nelle classi speciali per i rom e che,
alla guida di un'associazione, si batte per tirar fuori la sua gente dal degrado
dei campi nomadi, il ragazzino di origine slava che a scuola è tra i primi della
classe e da grande vuole fare il soldato, i rumeni sgomberati dalle baraccopoli
abusive di Milano che oggi vivono in dignitosi appartamenti. È un caleidoscopio
di storie che riunisce italiani, slavi, rumeni nel ritratto sorprendente di un
popolo apparso in Italia nel 1422, ma ancora oggi considerato sempre e solo
straniero. Rimprovera all'autrice la fragile Ermina: «Ci giudicate senza averci
conosciuto». Il viaggio che questo libro propone è un viaggio di conoscenza, un
utile antidoto contro l'assedio dei luoghi comuni, a cominciare dal primo, il
più diffuso, che gli zingari siano nomadi.
BIANCA STANCANELLI, autrice del libro "La vergogna e la fortuna" ha gentilmente
messo a disposizione dei lettori di Articolo21 uno dei capitoli del suo libro.
Il suo sogno italiano, Ramona può riassumerlo in sette parole: «fare una vita
bella per i figli.» Mi accompagna da lei Donatella De Vito. Ramona ha trentasei
anni, un marito cinque anni più grande e tre figli. Appartiene alla
generazione che ha fatto in tempo a conoscere la Romania comunista e il dopo.
Preferiva la dittatura: «Quando lui era vivo, lavoravi.» Non pronuncia il nome
di Nicolae Ceausescu: solo quell'ingombrante pronome evocativo. Quando c'era
"lui", Ramona si guadagnava da vivere come contadina nei campi di mais e suo
marito aveva un impiego come operaio in fabbrica. Caduto il regime, hanno perso
il lavoro. Nel 2003 hanno deciso di venire in Italia, lasciando alla nonna
materna, all'inizio, i tre figli. A Milano sono arrivati nel campo di via Capo Rizzuto, verso l'autostrada per Torino, una baraccopoli nascosta tra gli
alberi. Ci abitavano trecento persone: alcuni avevano chiesto l'asilo
politico, altri, portandosi dietro un figlio malato, avevano ottenuto un
permesso di soggiorno. Per due anni vissero in pace e in miseria. «Nessuno
veniva a trovarci» dice Ramona, e quel nessuno è la polizia. Niente di cui
gioire, in quella quiete: «Avevo una vita malissima.» Suo marito è un musicista
della casta dei lautari, il suo strumento, purtroppo, è la batteria.
Purtroppo? Gli amici con cui era venuto, musicisti come lui, andavano a
suonare in metropolitana e guadagnavano benino, ma non potevano portarselo
dietro «perché faceva troppo rumore.» Per tirare avanti, Ramona chiedeva
l'elemosina davanti ai supermercati. Nel giugno del 2005 li sgomberarono e
sulla loro strada si alzò la mano protettrice della Casa della Carità. Cinque
anni dopo, la famiglia di Ramona vive in affitto, in un bilocale di periferia.
L'appartamento è modesto e confortevole. Ai balconi, sgargianti tende di garza
rossa, contro il malocchio. La figlia maggiore, che ha ventidue anni, è
impegnata in un tirocinio come assistente alla persona, una via di mezzo tra
un'infermiera e una badante, il figlio sedicenne frequenta un corso per
diventare meccanico, il piccolo va a scuola, il marito è stato assunto in una
cooperativa che ha in appalto dal Comune la pulizia delle docce pubbliche, Ramona lavora come domestica, una sua sorella di vent'anni si è sposata con un
italiano e gli ha pure confessato di essere rom senza esserne ripudiata (ma ai
suoceri non l'hanno detto, non si sa mai), altre due sorelle, che si erano
trasferite in Italia con la famiglia, sono tornate indietro perché non hanno
trovato nulla. Quanto alla Romania, i suoi figli non hanno nessuna intenzione
di tornarci e lei vuole solo dimenticarla: «Speriamo che non ci vado più.»
Questo quadretto di tranquillità domestica prospera al riparo di un'identità "di
copertura". Nessuno dei vicini, dei datori di lavoro, dei compagni di classe dei
figli sa che la famiglia è zingara. La Casa della Carità ha giudicato che tacere
questo dettaglio sia il metodo migliore per offrire ai rom sgomberati
l'opportunità di rifarsi una vita. Sembrano precauzioni eccessive, ma
l'esperienza insegna che non sono mai troppe. Ramona si è giocata un posto
scoprendosi per sbaglio come zingara e ancora non se lo perdona. L'errore, forse
un minuscolo peccato di vanità, è stato prender parte a un film con i comici Ale
e Franz. S'intitolava, come per sberleffo, Mi fido di te. È successo nel 2006,
quando da due anni Ramona faceva le pulizie a casa di una ricca signora milanese
che vendeva a domicilio abiti firmati, aveva un vasto giro d'amicizie e
l'abitudine di seminare i soldi per casa senza problemi. Capitava che la
signora andasse a prendere Ramona alla fermata della metropolitana e che, in
macchina, incontrassero rom. La signora si sfogava: «Che gente schifosa, questi
zingari: ne arrivano a milioni, non se ne può più.» Seduta accanto a lei, rigida
come un lampione, Ramona farfugliava: «Ma davvero, ma che schifo» e tremava di
paura al pensiero che da un segno, da un gesto, la signora capisse che anche lei
era zingara e la cacciasse. Né Ramona né, probabilmente, la sdegnata signora
che le sedeva accanto potevano sapere che la capitale della Lombardia ha
un'antica tradizione di odio antizigano. Uno dei più brutali editti che mi sia
capitato di leggere è una grida pubblicata a Milano l'8 agosto 1693. Consente a
chiunque incontri zingari «d'ammazzarli impune e levar loro ogni sorta di robbe,
bestiami e denari che gli trovasse.» Trecento anni dopo quella grida, Ramona
traccia i suoi giudiziosi distinguo tra gli zingari: «I rom jugoslavi sono
cattivi davvero. Anche noi rumeni siamo zingari, ma non facciamo male.» La
ascolto, non replico: dopotutto, perché a noi italiani soltanto deve essere
riservato il privilegio del pregiudizio? La sua conclusione non ammette
repliche: «Tutti credono che i zingari fanno male, così non ti danno lavoro se
sei zingaro.» Quando accettò di recitare in quel film, in una particina
minuscola, confusa in un gruppo di rom, Ramona non sospettava che la signora
avrebbe mai potuto saperlo. Lo scoprì, invece; forse qualcuno che aveva visto il
film le riferì che, tra gli zingari che recitavano la parte di allegri truffaldi,
c'era Ramona. Stanata, non poté più nascondersi: «Sai come stavo male quando
quella signora ha saputo che ero zingara? Prima mi dava i soldi della spesa, mi
faceva tenere le chiavi. Dopo il film, mi stava sempre vicino, mi controllava,
alla fine mi ha lasciato a casa.» Grazioso eufemismo per definire il
licenziamento di una presunta nomade. Don Massimo Mapelli mi dice che, per i
progetti che riguardavano più di duecento rom sgomberati negli anni dal 2005 al
2007, sono stati impiegati due milioni di euro. È meno della metà della cifra
che il Comune ha speso in sgomberi nei quattro anni dal 2006 al 2010. Ma gli
sgomberi producono solo altri sgomberi, in uno sfiancante inseguimento tra
guardie e zingari, mentre i progetti della Casa della Carità hanno trasformato i
minacciosi invasori in famiglie serene. Non tutti e non sempre, naturalmente. E
non senza frizioni, difficoltà, inciampi. Don Massimo sa bene che «dovendo
sopravvivere, i rom tendono a concepire la relazione con te secondo il modello
"devo succhiare tutto quello che posso".» Come se il manghél, l'elemosina, fosse
diventato uno stile di vita. «L'idea che ha guidato gli interventi sui rom è
sempre stato l'assistenzialismo. Farli passare all'autonomia è complicato. Noi
ce l'abbiamo fatta perché, detto brutalmente, eravamo a casa nostra, potevamo
mettere le cose in chiaro: se non ci stai, amici come prima, ma te ne vai. È
quello che nei campi non si può fare. Intendiamoci, non tutti accettano. Qualche
famiglia se ne è andata, ha preferito continuare a vivere in quel sottobosco
dove l'informale si lega all'illegale.» È in quel sottobosco che gli zingari,
spesso, incontrano gli italiani. Don Massimo fa un esempio: «Nei campi abusivi,
abbiamo scoperto che i rom lavoravano in nero a fabbricare bancali, perché gli
zingari non li vuole nessuno, ma i bancali in nero li vogliono tutti. Allora
abbiamo fondato una cooperativa per fabbricarli noi, mettendoci dentro sette rom
e due nordafricani. In un anno di crisi pesante come il 2009, abbiamo creato
posti di lavoro e regolarizzato un settore che era in nero.»
In nome di un'esperienza lunga cinque anni, don Massimo può dichiarare: «Il
problema rom è un problema che, finché resta tale, è utilizzabile.» Amara
sentenza che dà ragione della curiosa inefficienza milanese nell'inventare
soluzioni diverse dai brutali, costosi, inutili sgomberi e di altre storie
accadute qua e là in Italia. Come la cacciata dei prefetti di Roma e di Venezia,
rimossi d'autorità – e senza spiegazioni – nel pieno dell'"emergenza nomadi". Il
primo, nel novembre 2008, fu Carlo Mosca, prefetto di Roma che rifiutò di
prendere le impronte ai bambini rom e mai venne meno al motto «Si sgomberano le
macerie, non le persone.» Il secondo, nel dicembre 2009, è stato Michele Lepri Gallerano, prefetto di Venezia per quattro mesi: il tempo di gestire il trasloco
di 38 famiglie di sinti veneziani dalle baracche a un villaggio di casette
allestito dal Comune. Trasloco compiuto a mezzanotte, in trentotto minuti –
troppo pochi perché le torpide truppe antizigane potessero accorgersene e
impedirlo.
In Abruzzo nel mese di maggio 2011 è stato avviato il progetto Fattoria
sociale bravalipè per dare occupazione ai giovani, in particolare giovani rom.
L'iniziativa è stata promossa da una partership composta da associazione
RomSinti@ politica, Centro studi e ricerche CILICLO', Azienda agricola Ciattoni.
Obiettivo ambizioso dell'iniziativa è di avviare due fattoria sociali in
provincia di Chieti e di Pescara per dare occupazione a 15 giovani.
Dopo un periodo di preparazione dell'iniziativa dal 22 agosto 2011 sono iniziate
le assunzioni di giovani e dai primi di settembre QUATTRO giovani rom sono stati
regolarmente assunti e svolgono le attività agricole della fattoria.
Nelle prossime settimane saranno assunti altri giovani rom e non rom e nel mese
di Marzo 2012 le assunzioni di dovrebbero completare con 15 giovani che
lavorano.
I promotori dell'iniziativa in queste settimane stanno valutando la possibilità
di apertura di punti vendita dei prodotti della fattoria sociale in alcune
città, iniziativa che potrebbe dare occupazione ad alcune ragazze.
Portiamo a conoscenza che da ogni regione italiana è possibile acquistare i
prodotti della fattoria sociale, attualmente i prodotti disponibili per la
spedizione sono: miele ed olio extravergine di oliva biologico.
Nelle prossime settimane ci sarà una conferenza stampa dei promotori
dell'iniziativa e dei giovani che già lavorano nella fattoria per informare
l'opinione pubblica, i media, gli enti locali e le istituzioni dell'iniziativa,
per sfatare il pregiudizio che " i rom non vogliono lavorare" , ma anche per far
conoscere che i progetti destinati alla popolazione romanì devono essere
adeguati ai bisogni della persona rom coinvolta nell'ottica della "normalità" e
con il rifiuto di ogni forma di assistenzialismo.
Di Fabrizio (del 28/09/2011 @ 09:32:49, in conflitti, visitato 2920 volte)
Fonti varie
Su
Youtube da Euronews (20" in inglese ndr.)
QUI in italiano.
Da domenica scorsa sono in corso violenti scontri a carattere etnico in tutto
il paese.
Tutto è iniziato quando nel villaggio di Kanunitsa (160 Km. a sud di Sofia) un
uomo è stato investito (decedendo in seguito) da un furgone guidato da un
appartenente ad una famiglia rom molto ricca ed in vista nel paese.
Come succede spesso in casi simili, si dice che la fortuna della famiglia sia
collegata ad attività fuorilegge: in questo caso il commercio illegale di
alcool.
L'investitore è poi fuggito. Gli abitanti del villaggio hanno immediatamente
pensato che si fosse trattato di un'azione deliberata, a causa di minacce
precedenti subite dalla vittima, ed hanno assalito la villa della famiglia rom.
Durante questo assalto, ci sono stati 5 feriti, tra cui 3 poliziotti, ed un
giovane è caduto in coma, morendo durante il trasporto in ospedale. La polizia
ha operato 127 arresti ed è riuscita ad arrestare l'investitore, mentre cercava
di oltrepassare il confine con la Turchia.
Nonostante gli appello alla calma delle autorità, dello stesso primo ministro (e di converso, del capo dell'opposizione), di diverse organizzazioni,
tra cui quelli di esponenti della minoranza turca e di altre associazioni civili
e politiche, gli incidenti si sono subito propagati in tutto il paese, tanto nei
piccoli villaggi che nelle grandi città, vedendo tra gli assalitori diversi fan
ultrà delle squadre di calcio ed i soliti gruppi neonazisti; un dato significativo e preoccupante indicherebbe che un terzo di chi sta manifestando contro i Rom sia minorenne. Tra le città coinvolte Plovdiv (350.000 abitanti,
ospita il quartiere di Stolipinovo, dove abitano 40.000 Rom), la capitale
Sofia (con una manifestazione di migliaia di persone davanti al Parlamento),
la città marittima di Varna (corteo di 200 persone verso la mahala rom di
Maksuda), ed inoltre a Pleven e Burgas, con diversi incidenti che hanno
coinvolto membri della comunità rom, le loro macchine e negozi.
Attualmente a causa dei timori, molti bambini sono tenuti a casa da scuola ed i loro padri non si stanno presentando al lavoro.
Si vocifera di possibili manifestazioni della comunità rom, per
esprimere solidarietà e vicinanza alle famiglie dei morti e preoccupazioni per i
disordini che sono succeduti, ma ovviamente il clima molto teso invita anche
alla prudenza estrema prima di esporsi. Nel contempo, circolano anche voci (preoccupanti ma da verificare) che i Rom asserragliati nei loro ghetti, si stiano armando per resistere.
Sono in corso riunioni, tanto a livello
locale che nazionale, sia nella polizia, che nel governo e nelle amministrazioni
decentrate, che tra le associazioni della società civile, nel tentativo di porre
freno alla catena di violenze che attualmente non si sono ancora fermate.
Nel contempo, la
situazione rimane molto tesa anche in
Repubblica Ceca, soprattutto nelle regioni confinanti con Polonia e
Germania, nonostante l'azione repressiva della polizia.
Di Sucar Drom (del 27/09/2011 @ 09:59:25, in casa, visitato 1787 volte)
Sempre dalla newsletter di
Articolo 3, un
aggiornamento su una situazione segnalata
10 giorni fa. di Elena Borghi*
Apriva la guida alla rassegna stampa della
newsletter n.30 una riflessione sugli avvenimenti che da circa un mese
animano la vita di Torrazza Coste (PV).
Niente di speciale, all’apparenza: una trattativa in corso tra due privati, per
l’acquisto di un terreno parzialmente edificabile, sito in una delle vie più
"in" del paese dell’Oltrepò. Un banale episodio di compravendita come ne
accadono ogni giorno, senza mai finire sulle pagine dei giornali.
Ma questo caso è diverso. La notizia ha ottenuto l’attenzione del giornale
locale, la Provincia Pavese, è passata di bocca in bocca tra i millesettecento
abitanti di Torrazza – schieratisi a sostegno o contro il compaesano deciso a
vendere quel terreno –, ha fatto mettere in campo polizia locale ed avvocati, e
probabilmente sta guastando il sonno a più persone, coinvolte a vari livelli
nell’episodio.
A trasformare questa ordinaria vicenda in fatto di cronaca è un particolare
piccolo ma evidentemente insormontabile, l’appartenenza etnica degli acquirenti:
rom, una parola minuscola che desta preoccupazioni enormi.
Avevamo promesso di approfondire l’episodio, e così abbiamo cercato di fare,
recandoci a Torrazza Coste. Ma quel che possiamo raccontare è solo una serie di
impressioni.
Le persone con cui abbiamo parlato, infatti, sono state vaghe e sfuggenti: tanto
timide nell’azzardare commenti personali, quanto decise nell’affermare la
propria estraneità ai fatti, restie a fare i nomi dei compaesani più
direttamente coinvolti, caute nella scelta dei termini e barricate dietro una
facciata politically correct impenetrabile, come chi si stia muovendo su
un terreno pericoloso e cerchi di tenersi al riparo da possibili scivoloni.
Al Bar Sport siedono gli avventori più loquaci. Parlano della vicenda di via
Moro come di una cosa che non li riguarda granché, cercano di esporre i fatti in
ordine cronologico e di astenersi da notazioni personali. Punzecchiati sulla
questione della petizione – che qualcuno in paese avrebbe organizzato per
scongiurare l’arrivo dei rom, radunando oltre 350 firme [1] –
si lasciano scappare un commento: "Beh, nessuno li vuole…", con il tono di chi
sta dicendo la cosa più ovvia del mondo, una verità universale e condivisa.
Intanto, in via Moro scorre tranquillo il sabato pomeriggio, dietro i cancelli e
i muri di cinta alti e robusti, dietro le porte blindate di villette
pretenziose, troppo simili a miniature di castelli, dentro i Suv e sulla ghiaia
dei vialetti d’ingresso, che annunciano ospitali: "Attenti al cane". Non c’è
niente di così diverso, in fondo, in questa via e in questo paese, rispetto a
centinaia di altre piccole città italiane, familiari a tutti noi; eppure, il
sospetto che qui si stia consumando una silenziosa ingiustizia rende minacciosi
particolari che, altrimenti, ci parrebbero assolutamente normali, addirittura
rassicuranti.
Il terreno incriminato, ora deserto perché da giorni i futuri acquirenti non si
fanno più vedere a Torrazza, sorge in mezzo a questo idillio borghese a tinte
pastello: c’è una parte di verde ed alberi (per quelli che la famiglia rom ha
abbattuto è già intervenuta la Forestale, con una multa al proprietario), una
parte di semplice terreno, una piccola costruzione in pietra fatiscente – forse
un ex capanno per gli attrezzi. Niente altro. Episodi spiacevoli, nei giorni in
cui la famiglia è stata con i camper sul terreno? Pare di no. Arrivavano al
mattino, ripartivano al tramonto. Segni di incuria, immondizie, rottami? No.
Sono stati fatti intervenire (a scopo preventivo, si direbbe) Carabinieri e
Polizia locale; si sono ipotizzati sgomberi, scritte e firmate petizioni,
allertate le autorità locali. Eppure i residenti di via Moro con cui abbiamo
parlato dicono di non sapere nulla – più criptici della Sibilla, omertosi come
neanche in terra di mafia.
Gli abitanti della prima casa in cui ci rechiamo ci danno un’indicazione nemmeno
troppo velata. Loro naturalmente non sanno nulla, ma: "Chiedete ai signori di
fronte, che sono i più aggiornati sulla questione", riferendosi ai proprietari
della villa confinante con il terreno incriminato. Ma no, nemmeno loro sanno
essere precisi. "Non voglio dire cose di cui non sono certa" – ripete la
signora, assicurando che ora è l’amministrazione comunale a occuparsi
dell’intera faccenda. Sì, forse una raccolta firme c’è stata, ma lei non ne sa
granché. Stessi occhi sospettosi, stesse mezze parole anche nelle due case
successive. Questi trecentocinquanta nomi paiono essersi volatilizzati. Pare che il rogito ancora non sia stato stipulato, sembra che sia
circolata una petizione e si siano raccolte delle firme, corre voce che
la petizione sia stata recapitata in Comune, si dice che l’amministrazione si
stia facendo direttamente carico della faccenda, forse alla ricerca di quella
"soluzione pacifica che soddisfi i residenti" di cui parla la Provincia Pavese,
e che consisterebbe nel "convincere i proprietari a trovare nuovi acquirenti".
Ripartiamo con i taccuini vuoti e nessuna vera informazione in più.
Ci rimane addosso solo un’impressione generale di disagio, l’inquietudine che
inducono i luoghi apparentemente inattaccabili, perfetti, nel giusto – facciate
dietro le quali spesso si consumano pesanti ingiustizie e prevaricazioni. E’
questo, il messaggio sotteso ai silenzi e alle parole vaghe delle persone che
abbiamo intervistato?
E’, questa, una vicenda in cui qualcuno – elettori e cittadini benestanti,
affidabili, "pacifici e forti" – sta non solo accettando di avere il coltello
dalla parte del manico, ma decidendo di far valere questa condizione contro
qualcun altro, persone che del coltello vedono sempre e solo la punta acuminata?
Non possiamo ancora dirlo. Ripartiamo con il dubbio ben vivo in mente, in attesa
che lo sviluppo degli eventi decida il carattere di questa piccola grande
storia.
Poco fuori il paese, sul ciglio della strada si erge una chiesetta bianca, di
cui qualcuno ha imbrattato la facciata, stampandovi un Sole delle Alpi leghista,
bello grande, in verde d’ordinanza.
* Titolo da: Ascanio Celestini, I miei racconti "in
fila indiana" contro il razzismo (Corriere
Sera, 30/5)
[1] Firme contro l’area nomadi. Residenti di via
Moro in rivolta (Provincia
Pavese, 1/9)
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