ROMA – Un fantasmino giallo che non fa paura, anzi sorride: è uno
spauracchio, ce lo ha pure scritto addosso. È questo il simbolo della Campagna
nazionale contro il razzismo, l’indifferenza e la paura dell’altro "Non aver
paura, apriti agli altri, apri ai diritti", presentata questa mattina al Teatro
Ambra Jovinelli di Roma.
Disegnato da Viorel Samuel Cirpaciu, bambino rom di 11 anni, lo
‘spauracchio’ è il simbolo di una campagna organizzata da 26 organizzazioni, tra
cui l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, associazioni religiose e laiche e
Ong internazionali, oltre che i sindacati. "È una campagna che abbiamo voluto
lanciare oggi non a caso – ha spiegato Laura Boldrini, portavoce dell'Alto
Commissariato Onu per i rifugiati -, alla vigilia di una data importante che è
il 21 marzo, Giornata mondiale contro il razzismo. Una campagna che ha la
pretesa di essere un’iniziativa culturale, grazie al fatto che abbiamo
convogliato diverse organizzazioni diverse, un’ampia fetta della società civile
italiana".
Obiettivo della campagna, sensibilizzare la società civile al tema del razzismo
tramite l’impegno delle organizzazioni aderenti che saranno protagoniste di
quella che definiscono una vera e propria maratona di iniziative locali e
nazionali, e una raccolta di firme che sottoscrivano il manifesto
dell'iniziativa. L'invito alla riflessione è rivolto anche al mondo politico e
alle istituzioni, anch’esse invitate a firmare contro il razzismo." In questi
anni – ha spiegato Boldrini - una buona parte della politica ha coniugato
l’immigrazione con la sicurezza, trascurando tutti gli altri aspetti
dell’immigrazione, positivi che non hanno avuto il peso che meritavano".
Punta di diamante della campagna uno spot televisivo e radiofonico firmato da
Mimmo Calopresti, con l’interpretazione di Francesca Reggiani, Lello Arena,
Salvatore Marino e Cumbo Sall. "I media in questi anni - ha affermato Boldrini -
non ci hanno aiutato a capire l’importanza del fenomeno migratorio. Hanno dato
grande spazio alla cronaca nera legata all’immigrazione oscurando il resto,
oppure hanno usato termini allarmistici e questo ha generato paura. Questa paura
è basata sull’immagine dell’immigrazione resa, che non necessariamente
corrisponde alla realtà".
Nello spot, i diversi attori si ritrovano a riscoprire le loro piccole posizioni
razziste, nonostante si dichiarino non razzisti a vicenda. Bloccati da una
intricata rete di fili, Francesca Reggiani interpreta una persona del Nord
Italia che guarda con sospetto i meridionali. Il ‘sospettato’ è interpretato
proprio da Lello Arena, che nella parte diffida degli arabi. Marino, cittadino
italiano con madre eritrea scarica la colpa sugli africani ed infine Sall, anche
lei italiana di padre senegalese restituisce il colpo sui rom. Da questo
groviglio di parole e di fili, spunta proprio Viorel, l’autore del fantasmino
giallo, che a differenza degli altri protagonisti, riesce a venire fuori dalla
matassa.
La campagna giunge in un anno che gli organizzatori definiscono ‘nero’. "Ci
siamo chiesti se il razzismo fosse cresciuto – ha spiegato Boldrini -. Da marzo
2008 a marzo 2009, limitandoci alla semplice raccolta di eventi riportati dalle
agenzie di stampa, abbiamo raccolto 8 pagine di eventi di razzismo, centinaia di
eventi che hanno portato a definire quest’anno un anno da dimenticare".
L'iniziativa è promossa dalle Acli, l'Alto Commissariato dell'Onu per i
rifugiati, Amnesty, Antigone, Arci, Asgi, Cantieri sociali, Caritas italiana,
Centro Astalli, Cgil, Cir, Cisl, Cnca, Comunità di Sant'Egidio, Csvnet, Emmaus
Italia, Federazione Chiese evangeliche in Italia, Federazione Rom e Sinti,
FioPsd, Gruppo Abele, Libera, Rete G2, Save the Children, Sei - Ugl, Terra del
Fuoco e Uil.
La comunità mondiale da tempo non è più silente sull'apolidia. Negli anni
recenti, paesi come il Bangladesh, l'Estonia, la Mauritania, il Nepal, e lo Sri
Lanka hanno fatto passi significativi per proteggere i diritti delle persone
apolidi. E' migliorata la risposta delle Nazioni Unite. Le agenzie non
governative, gli esperti legali, gli interessati ed altri stanno unendo le forze
per condividere informazioni più accurate e ridurre l'incidenza di questo
fenomeno globale spesso sottovalutato. E' cresciuta l'attenzione dei media.
Circa 12 milioni di persone nel mondo sono ancora apolidi, ed il progresso verso
la fine del problema è lento e limitato. La campagna per i diritti di
nazionalità è lungi dal dirsi conclusa.
La nazionalità è un diritto umano fondamentale ed un fondamento di identità,
dignità, giustizia, pace e sicurezza. Ma l'apolidia, o la mancanza di
nazionalità effettiva, riguarda milioni di uomini, donne e bambini in tutto il
mondo. Essere apolidi significa non avere protezione legale o diritto di
partecipare ai processi politici, inadeguato accesso al sistema sanitario e
scolastico, scarse prospettive di lavoro e povertà, poche opportunità di
possedere proprietà, restrizioni di movimento, esclusione sociale, vulnerabilità
ai traffici, minacce e violenze. L'apolidia ha un impatto sproporzionato sulle
donne e bambini.
Le persone apolidi si trovano in tutte le regioni del mondo. Tra i gruppi più
vulnerabili ci sono i Rohingya a Burma ed in Asia, i Bidun in Medio Oriente, i
Rom in Europa, i figli dei migranti haitiani nei Caraibi, individui dell'ex
blocco sovietico, Kurdi denazionalizzati, alcuni palestinesi ed alcuni gruppi in
Thailandia. La loro situazione di limbo legale dipende da molti fattori come i
cambiamenti politici, l'espulsione da un territorio, discriminazione,
nazionalità basata sulla sola discendenza e leggi che regolano il matrimonio e
la registrazione delle nascite.
Dato che gli stati hanno il diritto sovrano di determinare le procedure e le
condizioni per l'acquisizione e la perdita della cittadinanza, l'apolidia e le
nazionalità controverse vanno risolte per ultimo dai governi. Ma la decisioni
dello stato sulla cittadinanza devono conformarsi ai principi generali della
legge internazionale. Numerosi strumenti internazionali, inclusa la
Dichiarazione Universale sui Diritti Umani, affermano i diritti di nazionalità.
Esistono da tempo due convenzioni ONU sull'apolidia, ma non sono ratificate
estesamente. Ad oggi, 63 paesi sono diventati partecipi della Convenzione del
1954 riguardo lo Status delle Persone Apolidi, e 35 paesi hanno aderito alla
Convenzione del 1961 sulla Riduzione dell'Apolidia.
La Convenzione del 1954 identifica una persona apolide come qualcuno che non
ha un legame legale di nazionalità con alcuno stato. Quanti legittimamente
reclamano la cittadinanza, ma che non possono provarla, o a cui i governi
rifiutino di dare effetto alla loro nazionalità, sono pure considerati apolidi.
Il numero delle persone apolidi nel 2009 uguaglia circa quello di rifugiati in
tutto il mondo. Ma a differenza dei rifugiati, gli apolidi - particolarmente
quelli che non possono essere classificati come rifugiati - spesso non
beneficiano della protezione ed assistenza dei governi, agenzie di aiuto, o
dell'ONU, nonostante il mandato di quell'istituzione di assistere le persone
apolidi.
Dal 2004, Refugees International (RI) ha visitato oltre una dozzina di
paesi per valutare la situazione di chi è apolide o a rischio di esserlo. Nel
2005, RI pubblicò il suo primo studio globale sull'apolidia, Lives on Hold: The
Human Cost of Statelessness, per rinnovare l'attenzione sul problema,
asserendo che "doveva chiudersi il gap tra diritti e realtà".
Questo rapporto, Nationality Rights for All: A Progress Report and Global Survey on
Statelessness, fornisce uno studio globale ed aggiornato sull'apolidia in
oltre 80 paesi ed accerta i progressi dal 2005 nel proteggere i diritti umani
delle persone apolidi e nel prevenire e ridurre l'apolidia. In cambio sono
riflessi importanti sviluppi nella legge internazionale e nei passi intrapresi
da governi, organizzazioni internazionali ed OnG. E mentre l'Ufficio ONU
dell'Alto Commissario per i Rifugiati (UNHCR) sta pensando più strategicamente
di prima per mantenere fede ai suoi obblighi, le agenzie dell'apolidia rimangono
severamente sotto organico e mal finanziate rispetto le altre funzioni
organizzative. Deve migliorare il coordinamento tra le agenzie ONU che si
occupano di apolidia.
Tre casi di progresso - Bangladesh, Etiopia e Kenia - illustrano come possono
accadere i miglioramenti, ma anche quali sfide rimangono per completare e
rafforzare le soluzioni sull'apolidia. Questi tre casi dimostrano il ruolo
critico della volontà politica (o della sua mancanza), dei quadri legali di
riferimento internazionali e nazionali, degli sforzi di collegamento tra l'ONU e
le altre agenzie, come pure delle iniziative degli apolidi stessi.
In Bangladesh, a seguito di un precedente legale, la maggior parte della
minoranza di lingua urdu (chiamati anche "Bihari" o "Pakistani in
difficoltà") è stata riconosciuta come cittadini in un giudizio dell'Alta
Corte del maggio 2008. Dal 1971, almeno 200.000 ma probabilmente 500.000,
componenti di questa minoranza hanno vissuto in squallide baraccopoli, con
accesso limitato alla sanità, istruzione [...] Per 37 anni, né il Bangladesh
né il Pakistan li hanno riconosciuti come cittadini. Come primo passo verso
l'integrazione, l'Alta Corte ha ordinato la registrazione al voto degli
adulti consenzienti ed emesso le carte nazionali d'identificazione.
In Etiopia, almeno 120.000 ma forse 500.000 persone di origine eritrea
furono private della cittadinanza durante il conflitto di confine con
l'Eritrea del 1998-2000. Circa 75.000 furono deportati in Eritrea, dividendo
diverse famiglie. Chi non venne deportato apparentemente sembrava in grado
di riacquisire la cittadinanza con la Proclamazione Eritrea della
Nazionalità, ma è difficile ottenere numeri certi.
In Kenia, circa 100.000 Nubiani hanno avuto meno difficoltà
nell'ottenere le carte d'identità, particolarmente da quando fecero causa
nel 2003 e nel 2004 contro il governo, attraverso l'Alta Corte del Kenia e
la Commissione Africana sui Diritti Umani con base in Gambia.
Redatto alla luce di questi sviluppi, questo rapporto ha lo scopo di
espandere la comprensione del problema dell'apolidia, aumentare il
riconoscimento del diritto di nazionalità e promuovere soluzioni per la fine
del'apolidia. I tre casi mostrano che soluzioni fattive per l'apolidia si
estendono oltre l'individuazione delle determinazioni accurate dello status
giuridico. Comprendono processi di integrazione a lungo termine e la gestione
della diversità. I governi devono assicurare che le istituzioni pubbliche -
scuole, ospedali, comuni, tribunali - applichino pienamente la legge. La
direzione governativa è importante per instaurare un tono conciliatorio.
Dato che l'apolidia è spesso un problema nascosto, un soggetto sensibile e
talvolta ad un punto morto diplomatico, si sbiadisce sullo sfondo. Ma la perdita
della nazionalità e la sua negazione protratta spesso portano al diniego massivo
dei diritti umani. Le iniziative locali per risolvere l'apolidia devono essere
incoraggiate, ma l'impegno dell'UNHCR è essenziale per aumentare la forza e la
legalità degli standard internazionali legali sui diritti di nazionalità ed il
loro sviluppo nella pratica.
Verso queste mete, Refugees International raccomanda a tutti gli stati
di rispettare ed assicurare il diritto di ogni persona ad avere una nazionalità,
lavorare per l'acquisizione della nazionalità, e sostenere gli standard
internazionali per proteggere le persone apolidi, prevenire e ridurre
l'apolidia. Refugees International preme anche sull'UNHCR perché compia
passi concreti per tenere pienamente fede al suo mandato. Anche i gruppi
non-governativi hanno un importante ruolo da giocare. Sforzi concreti per
terminare l'apolidia sono in grave ritardo.
Di Fabrizio (del 01/04/2009 @ 09:24:39, in Kumpanija, visitato 1607 volte)
Ricevo da Agostino Rota Martir
Proprio così, vale la proprio la pena di pensarci un pochino sopra e...
diffonderlo.
Ciao Ago
"Non molesterai il forestiero né lo opprimerai perché voi siete stati
forestieri in terra di Egitto" (Esodo, 22,20)
Noi missionari/e sentiamo il dovere di reagire e protestare contro la strage in
atto nel Mediterraneo e le leggi razziste contro gli immigrati che arrivano
sulle nostre coste. È una tragedia questa, che non ci può lasciare indifferenti:
migliaia e migliaia di africani che tentano di attraversare il Mare nostrum per
arrivare nell’agognato "Eden". Un viaggio che spesso si conclude tragicamente.
Dal 2002 al 2008 sono morti, in maggioranza scomparsi in mare, 42 mila persone,
secondo la ricerca condotta a Lampedusa da Giampaolo Visetti, giornalista di
La Repubblica. Trecento persone al giorno! Il più grande massacro europeo
dopo la II Guerra Mondiale che si consuma sotto i nostri occhi.
E qual è la risposta del governo? Chiudere le frontiere e bloccare questa
"invasione". E per questo il "nostro" governo ha stipulato accordi con la
Libia e la Tunisia. Il 5 gennaio 2009 infatti il Senato ha approvato il Trattato
con il governo libico di Gheddafi per impedire che le cosiddette carrette del
mare arrivino a Lampedusa. Com’è possibile firmare un trattato con un paese come
la Libia che tratta in maniera così vergognosa gli immigrati in casa propria?
Il 27 gennaio 2009 il ministro Maroni si è incontrato con il ministro degli
Interni tunisino per la stessa ragione. Il regime di Ben Ali in Tunisia non è
meno dittatoriale di quello libico. Questi tentativi italiani per bloccare
l’immigrazione clandestina, sono sostenuti dal Frontex, l’Agenzia Europea per la
difesa dei confini, che ha ricevuto oltre 22 milioni di euro per tali
operazioni.
Ci dimentichiamo però che questa pressione migratoria è dovuta alla tormentata
situazione africana, in particolare dell’Africa Centrale e Orientale. Le
situazioni di miseria e oppressione, le guerre troppo spesso dimenticate
dell’Eritrea, Etiopia, Somalia, Sudan, Ciad sospingono migliaia di persone a
fuggire attraverso il deserto per arrivare in Tunisia e Libia dove sono trattate
come schiavi: lunghi anni di lavoro in nero per ottenere i soldi per la grande
traversata (soldi che andranno alle mafie). E se riusciranno (pagando 3-4000
euro) ad attraversare il Mediterraneo ed arrivare a Lampedusa, verranno
rinchiusi in un vero e proprio campo di concentramento, il Centro di
"accoglienza" trasformato il 24 gennaio in Cie (Centro di identificazione ed
espulsione): un vero lager che può ospitare 900 persone ed invece ne contiene
1900! Di qui le drammatiche rivolte di questi giorni con i tentati suicidi di
parecchi tunisini che non vogliono essere rimpatriati perché sanno quello che li
attende.
Tutto questo grazie alla solerzia del nostro ministro Maroni che ha detto che
bisogna essere "cattivi" con gli immigrati. E il suo Pacchetto Sicurezza è la
"cattiveria trasformata in legge", come afferma il settimanale Famiglia
Cristiana. Infatti nel Pacchetto Sicurezza il clandestino è dichiarato
criminale. Una legislazione questa che ha trovato un terreno fertile, preparato
da un crescente razzismo della società italiana (così ben espresso dalla Lega!)
e da una legislazione che va dalla Turco-Napolitano (l’idea dei Centri di
permanenza temporanea) all’immorale e non-costituzionale Bossi-Fini, che non
riconosce l’immigrato come soggetto di diritto, ma come forza lavoro pagata a
basso prezzo, da rispedire al mittente quando non ci serve più.
La legge infatti prevede, fra le altre cose, la possibilità che i medici
denuncino i clandestini ammalati, la tassa sul permesso di soggiorno (dagli 80
ai 200 euro!), le "ronde", il permesso di soggiorno a punti, norme restrittive
sui ricongiungimenti familiari e i matrimoni misti, il carcere fino a 4 anni per
gli irregolari che non rispettano l’ordine di espulsione. Maroni ha pure deciso
di costruire una decina di Centri di identificazione e di espulsione, ove
saranno rinchiusi fino a 6 mesi i clandestini. Questa è una legislazione da
apartheid: il risultato di un mondo politico di destra e di sinistra che ha
messo alla gogna lavavetri, ambulanti, Rom e mendicanti. È una cultura xenofoba
e razzista che ci sta portando nel baratro dell’esclusione e dell’apartheid.
Tutto questo immemori di essere stati noi "forestieri in terra di Egitto"
quando così tanti italiani oltre al doloroso distacco dalla propria terra, hanno
sperimentato l’emarginazione, il disprezzo e l’oppressione.
Per questo noi chiediamo:
ai missionari/e, religiosi/e, laici/che impegnati con il Sud del mondo:
di schierarsi dalla parte degli immigrati contro una "politica miope
e xenofoba" e che fa "precipitare l’Italia, unico paese occidentale,
verso il baratro di leggi razziali", come afferma Famiglia Cristiana.
di organizzare una processione penitenziale, per chiedere perdono a Dio
e ai fratelli migranti per il razzismo, la xenofobia, la caccia al musulmano
che, come forza diabolica, sono entrate nel corpo politico di questa Italia.
alla Conferenza Episcopale Italiana:
di chiedere la disobbedienza civile a queste leggi razziste. È quanto ha
fatto nel 2006, in situazioni analoghe, il cardinale R. Mahoney di Los
Angeles, California, che ha chiesto nell’omelia del mercoledì delle Ceneri a
tutti i cattolici americani di servire tutti gli immigrati, anche quelli
clandestini.
alla Chiesa cattolica in Italia e alle altre Chiese:
di riprendere l’antica pratica biblica, accolta e praticata anche dalle
comunità cristiane di fare del tempio il luogo di rifugio per avere salva la
vita, come indicato nel libro dei Numeri 35,10-12. Su questa base biblica
negli anni ’80, negli USA, nacque il Sanctuary Movement che oggi viene
rilanciato.
Come missionari/e facciamo nostro l’appello degli antropologi italiani: "Quell’antropologia
impegnata dalla promessa di ampliare gli orizzonti di ciò che dobbiamo
considerare umano deve denunciare il ripiegamento autoritario, razzista,
irrazionale e liberticida che sta minando le basi della coesistenza civile nel
nostro paese, e che rischia di svuotare dall’interno le garanzie costituzionali
erette 60 anni fa, contro il ritorno di un fascismo che rivelò se stesso nelle
leggi razziali. Forse anche allora, in molti pensarono che no si sarebbe osato
tanto: oggi abbiamo il dovere di non ripetere quell’errore".
Viviamo un tempo difficile, ma carico di speranza nella misura in cui siamo
capaci di mettere in gioco la nostra vita per la Vita.
Napoli, 9 marzo 2009
Comunità Comboniana - Rione Sanita (Napoli)
Alex Zanotelli e Domenico Guarino
Missionari Comboniani-Castelvolturno (Caserta)
Casa Rut – Suore Orsoline, Caserta
Casa Zaccheo – Padri Sacramentini, Caserta
Missionarie Comboniane – Torre Annunziata (Napoli)
Di Sucar Drom (del 06/04/2009 @ 14:25:32, in Kumpanija, visitato 2702 volte)
Una regione in ginocchio. Morti e feriti. Il terremoto che stanotte ha
squassato l'Abruzzo lascia dietro di sé terrore e devastazione. Così a L'Aquila,
così nei centri più piccoli. "Un disastro, un disastro". Ripete la frase con
tono concitato il senatore abruzzese Filippo Piccone mentre sta raggiungendo i
piccoli centri in provincia dell'Aquila per "rendermi conto della situazione.
Sto vedendo case ridotte ad un cumulo di macerie, persone per strada. E' proprio
nella zona intorno al capoluogo abruzzese che stiamo cercando di capire l'entità
della tragedia".
"Ci sono problemi grossissimi nei piccoli centri della provincia- continua il
Senatore -, ci sono edifici sventrati, gente che ha perso tutto, un vero
disastro. Stiamo cercando di capire nel dettaglio l'entità dei danni ma da
quello che possiamo vedere la situazione è gravissima. A L'Aquila le vittime
sono tante e ci sono oltre centomila persone che non possono rientrare nelle
proprie abitazioni. Dappertutto c'è devastazione, una scena agghiacciante. In
questo momento stiamo compiendo una perlustrazione nelle zone intorno al
capoluogo abruzzese per conoscere la situazione e collaborare con la macchina
della Protezione civile e dei soccorsi, ma ripeto, la situazione è veramente
drammatica".
In queste ore molti si chiedono come poter aiutare le popolazioni
dell'Abruzzo colpite da questa drammatica tragedia.
Sucar Drom rilancia
l'appello fatto dalla Protezione civile che in queste ore sta coordinando tutte
le operazioni.
Invitiamo tutti i lettori ad andare nell'Ospedale più vicino o presso l'AVISlocale per donare il sangue.
In queste ore stanno arrivando negli Ospedali dell'Abruzzo, Lazio, Molise
tanti feriti e manca il sangue. Particolarmente drammatica la situazione
nell'Ospedale a L'Aquila.
La Protezione civile ha chiesto a tutti i cittadini di rapportarsi alle sedi
locali della Protezione civile per qualsiasi altra iniziativa di aiuto.
Comprensibilmente in queste ore c'è molta confusione e si vuole evitare che la
situazione sfugga di mano.
In ultimo invitiamo gli artisti sinti e rom ad organizzare per le prossime
settimane concerti, serate e iniziative benefiche per raccogliere fondi da
inviare alle popolazioni terremotate. L'Istituto di Cultura Sinta mette a
disposizione la propria struttura logistica.(in foto un'immagine del
terremoto in Irpinia del 1980)
Oggi, 19 marzo 2009, le donne rom che hanno partecipato all'incontro
"Iniziative donne Rom", hanno concordato sulla fondazione del Club Donne Rom di
Bucarest, avendo come obiettivo lo scambio di opinioni, informazioni,
esperienze e conoscenze, allo scopo di migliorare lo status sociale delle donne
rom a Bucarest ed in Romania.
Come obiettivi specifici, le componenti del club vogliono indirizzarsi alle
seguenti questioni:
Accesso ad istruzione di qualità
Accesso ai servizi sociali e sanitari
Accesso all'alloggio ed al mercato del lavoro
Il ruolo delle donne rom nella famiglia e nella società
Multipla identità delle donne
Riconciliazione vita privata-lavoro
Il club si incontrerà mensilmente ogni giorno 25 del mese, alle 17.00 presso
il Clubul Florarilor – pasaj Obor,
Sector 2, Bucharest .
Il Club Donne Rom di Bucarest è aperto a tutte le donne rom interessate nello
sviluppo degli obiettivi sopra menzionati.
Per ulteriori informazioni, prego contattare Mrs. Violeta Dumitru - Coordonator AFRR
dvioleta26@yahoo.com ; phone: 0722640591.
Le fondatrici:
Busuioc Florina
Petre Floarea
Bogatu Claudia
Dobre Violeta
Petre Ionela
Dumitru Ioana Camelia
Ioana Dorneanu
Stan Simona
Olteanu Catalina
Scripcaru Nicoleta
Dumitru Alexandra Alina
Caruta Bianca
Violeta Dumitru
Isabela Mihalache
Gergescu Maria
Porojan Mariana
La lista rimane aperta a tutte le persone interessate.
America.gov 7 Aprile 2009 I Rom in Americadi Carlos Aranaga Staff
Writer Diversi, una comunità di milioni valuta la sua identità culturale
John Nickels è un attivista rom di Wildwood, New Jersey,
che dice ciò che pensa sui pregiudizi contro gli Americani di origine rom
Washington - Nella Giornata Internazionale dei Rom, l'attenzione sarà
sull'Europa, dove il popolo rom è sopravvissuto a secoli di marginalizzazione e
persecuzione. Anche oggi i Rom europei chiedono parità sociale ed opportunità
economiche. Meno conosciuti sono i Rom USA, che l'Ufficio del Censimento
conta a poco più di un milione, dispersi negli USA, con gruppi presenti nel
Texas, in California e nel Midwest.
Il popolo rom traccia le sue origini nell'Europa orientale e centrale, ma è
stereotipato negativamente negli Stati Uniti ed in Europa, sempre più spesso dai
media popolari come "Zingari", con presunti comportamenti antisociali. I
preconcetti hanno portato al pregiudizio e alla profilatura etnica, incluso
leggi locali discriminatorie.
La Giornata Internazionale dei Rom celebra la cultura romanì ed aumenta la
consapevolezza delle tematiche affrontate dal popolo romanì. L'8 aprile è stato
scelto come ricorrenza annuale dal quarto Congresso Romani Mondiale, tenutosi in
Polonia nel 1990. Anche gli Stati Uniti in questo giorno chiamano al rispetto
dei diritti umani dei Rom.
Il professore Ian Hancock dell'Università del Texas ad Austin, preminente
studioso Rom americano, dice che nel nord America ci sono stati Rom dall'epoca
coloniale, quando piccoli numeri [di loro] vennero portati dalla Bretagna per
lavorare nelle piantagioni della Virginia, Barbados e Giamaica. Un numero più
grande di immigrati rom cominciò ad arrivare in America alla fine del XIX
secolo, spinti dalle guerre e dal tumulto sociale in Europa.
L'emigrazione continua a tutt'oggi, dice Hancock, lui stesso immigrato di
origine Romanichals, I Romanichals sono il ramo romanì che si trova nel Regno Unito.
Romanì è anche un termine usato per descrivere i dialetti usati da rami del
popolo rom. Il linguaggio è fortemente influenzato dalle lingue locali, cosa che
può rendere difficili per i Rom di differenti regioni comunicare tra di loro.
Per i Rom tradizionalisti, dice Hancock, preservare la propria distinta
identità culturale è una preoccupazione preminente, anche se forti correnti di
assimilazione spostano i giovani verso la più vasta corrente culturale, come per
altre minoranze etniche ed immigrati.
"C'è un conflitto di cultura, una paura di perdere la propria -Romani-tà- e di
cambiare, che non è bene," dice Hancock.
Nathan Mick è un Americano di discendenza rom, che ha lavorato a Capitol Hill,
ha rappresentato gli USA in sedute diplomatiche, ed ora è un funzionario di
sviluppo economico a Garrard County, Kentucky. Mick parla degli elementi comuni
della cultura rom condivisi dai Rom americani.
"C'è un senso di comunità nella cultura rom che ci spinge a stare assieme
vicini, all'interno di rapporti di famiglia strettamente tessuti, per cui non
c'è molta interazione tra le differenti comunità rom, che isolano gli
stranieri," dice Mick.
"Crescendo, non ero cosciente del tutto delle mie origini," dice Mick. "Mio
padre non è Rom, mia madre Romanichal. Sono cresciuto nel Nebraska e giravo con
loro d'estate. Solo nel periodo della scuola superiore ho imparato la
distinzione. Poi ho saputo dell'Europa, soprattutto l'Olocausto."
Durante la II guerra mondiale oltre 700.000 Rom perirono nel genocidio nazista.
Un gruppo USA attivamente impegnato nel cambiare le vite dei Rom è The Voice of
Roma, a Sebastopoli, California, gruppo non-profit con un collegamento speciale
ai Rom che vivono come persone disperse in Kosovo. The Voice of Roma ha un
ufficio in Kosovo per implementare lo sviluppo economico, progetti umanitari ed
educativi. Negli Stati Uniti, il gruppo presenta arti e tradizioni culturali
romanì in una maniera che contrasta tanto gli stereotipi romantici che quelli
negativi.
Petra Gelbart, nata nell'odierna Repubblica Ceca, etnomusicologa ad Harvard e
volontaria presso Voice of Roma, che si focalizza sulle questioni femminili, ha
radici nei gruppi rom tedeschi, slovacchi, e ceco-moravi.
"Intendiamo aiutarli ad ottenere più voce e intervento riguardo l'attività
economica, istruzione e condizioni migliori nella comunità," dice Gelbart.
Il progetto del gruppo "Fili che Ci Connettono" aiuta i Rom a creare tessuti per
renderli più autosufficienti.
The Voice of Roma organizza tutto l'anno eventi culturali. "Canto e suono la
fisarmonica," dice Gelbart, che si esibirà a maggio. Per la Giornata
Internazionale dei Rom 2009, sono in programma concerti, laboratori di danza,
discussioni e festival del cibo rom, nelle sedi di Los Angeles, San Francisco ed
Arcata, in California settentrionale.
Secondo Sani Rifati, presidente di Voice of Roma, l'impatto della loro azione
culturale è stato "incredibile".
"Uscire nelle scuole di ogni grado e nei college vale realmente la pena. Gli
stereotipi culturali che sono lì di fuori stanno davvero paralizzandoci. Tutto
ciò aiuta."
Di Fabrizio (del 18/04/2009 @ 09:47:32, in Kumpanija, visitato 1824 volte)
Anche se alcune affermazioni possono non piacere (o sono di difficile
condivisione), l'articolo ha diversi spunti interessanti, nel tratteggiare
quella che può essere definita la "memoria nomade" collettiva. Che è anche il
limite dello scritto, date che ogni popolazione ha avuto un passato nomade e col
tempo si è evoluta con differenze notevoli.
Renato Rosso ama comunicare e condividere le sue esperienze, e, partendo
da esse, riflettere sul nostro quotidiano. Questa volta lo fa con "storie
parallele" di popoli zingari, quelli che abitano Paesi lontani, terre di antica
origine, e quelli insediati in Europa, in Italia.
Renato Rosso: 36 anni di missione itinerante (Bangladesh, India, Filippine,
Brasile, Italia…) al servizio di comunità diverse dell’universo zingaro. Un
inconsueto tipo di presenza, non sempre stabile, ma che ha costruito, con tempo
e fatica, una Chiesa in realtà che senza di lui forse non sarebbero mai state
raggiunte. Presenza di crescita umana e spirituale in comunità non cristiane;
soprattutto animando scuole - sovente itineranti su barche, o nei pascoli… -
disegnate sul modello di vita degli alunni. Suscitando energie, formando persone
che finora hanno assicurato non solo continuità ma anche crescita delle
iniziative, grazie alla loro testimonianza.
Ha senso guardare in parallelo le civiltà nomadi che tu incontri in Asia e
quelle dei Balcani, dell’Italia e di altri Paesi? Io parlerei di nomadi nel mondo. Inclusi i nostri, qui in Italia, tutti
partono dall’India nord occidentale, 700-800 anni fa. In Grecia li troviamo già
nel 1300 e nel 1400-1420 in Italia; pochi anni dopo in Francia, in Spagna e in
breve in tutta Europa.
Ancora prima, nel 1700 a.c., nasceva la cultura nomade beduina in Arabia,
allargandosi poi nel Nord Africa e fino all’Afghanistan, all’India.
La sedentarizzazione inizia più o meno 12.000 anni fa, ma nell’Asia poco tempo
fa. Alcune frange sono rimaste nomadi, e sono quelle che noi incontriamo oggi.
Personalmente, ho elencato 440 di questi gruppi, nomadi o seminomadi, nel
subcontinente indiano.
Esistono similitudini tra zingari europei e zingari del subcontinente indiano? Sono molto simili. È il tipo di vita che crea il loro modo di essere: il vivere
sotto il cielo, il contatto con la natura. Cambiano il modo di vestire, le
lingue. Però il modo di pensare, di fare politica all’interno del gruppo, di
relazionarsi con gli altri sostanzialmente è simile.
Per esempio il gruppo - una quindicina di famiglie - si difende con un capo,
eletto e che ha l’ultima parola; hanno un tribunale loro, con avvocati e giudici
eletti. Non fanno riferimento alle autorità locali. È interessante il fatto che
nel loro vivere la politica presentano una democrazia diversa, non riferita ad
un’ideologia. Il segreto è considerare ogni membro del gruppo come uno della mia
famiglia.
Di questa cultura, conosciuta solo attraverso pregiudizi, quali sono secondo
te i valori importanti? Il valore centrale è la famiglia, la loro ricchezza sono i figli. Non hanno
altro. In Europa come in Bangladesh, quando uno ha sbagliato viene giudicato ed
eventualmente punito, sempre però tenendo conto che potrebbe essere mio figlio,
mio fratello. Ci si relaziona con una persona e la sua storia, non con un
numero. Pensa quale rivoluzione!
Ci sono altri aspetti interessanti, come la possibilità di fare scelte meno
dipendenti da norme formali. Ovviamente l’istinto è anche un limite: promuovere
la scuola per loro è proprio lavorare su questo. Anche la religiosità è un
valore cui danno grande importanza. Con la nostra presenza cerchiamo proprio di
arricchire tutti questi elementi.
Che tipo di rapporto vive il nomade con la società che lo circonda? Rimangono minoranze. Uno zingaro in Italia è visibilmente diverso da chi vive in
una casa.
Anche se, in tutto il mondo, la casa non è la roulotte, la carovana o la tenda:
la casa è l’accampamento. Dove tutti vivono e i bambini sono educati al ritmo
del gruppo, dal gruppo intero. La famiglia nucleare esiste, però è nel gruppo
che si decide, per esempio, di mandare i bambini a scuola; papà e mamma
potrebbero arrivarci un po’ prima, ma dovranno aspettare il gruppo. È sempre il
gruppo che deve essere motivato e non un singolo.
Sia qui che in India poi - benché in India la gente comune dei villaggi possa
essere più povera degli zingari - lo zingaro è una persona di cui si ha paura.
Perché è nomade, e non sai da dove viene e dove va.
Solo timore, non fascino? Anche, le due cose si mescolano. Per esempio, gli zingari la sera si riuniscono
e cantano, danzano; questo crea un certo fascino, ma il timore e il disprezzo
restano.
Molte volte anche da parte di chi, zingaro, si è sedentarizzato. Uno dei motivi
è l’assenza del concetto di proprietà privata, che rende liberi nel rubare. Cosa
che in Asia è rarissima: c’è poco da rubare, i ricchi sono pochi e si difendono
molto bene; e normalmente i nomadi lavorano tutti. Qui in Europa la situazione è
diversa. In passato procurarsi il sostentamento non era difficile, incluso
razziare qualche gallina… Poi la società è cambiata, le esigenze anche e le
piccole delinquenze sono diventate organizzate; oggi abbiamo anche in mezzo a
loro una criminalità pesante.
Non c’è più uno spazio economico per un’attività tradizionale. Occorre avere
altre capacità… Certo. È già accaduto in Asia, ma in Europa è stato appunto diverso. Nel
polverone riguardo al mondo zingaro in Italia, parte del problema è però
aggravato da una corruzione che ci riguarda. Ci sono avvocati che lucrano su di
loro. Se qualche anno fa con 5 milioni di lire si faceva un processo, oggi si
chiedono 100 o 150mila euro. In qualche modo si è detto loro: non è importante
essere onesti o disonesti, rubare o non rubare, ma avere tanti soldi per
risolvere i problemi. Se rubi poco, rimani in prigione.
Il rischio è che il resto della società pensi che gli zingari sono i nemici, e
che loro pensino che il resto della società è il nemico. È un cane che si morde
la coda. Gli zingari arrivano da noi con una certa ingenuità, con una
fisarmonica, un bicchiere di plastica, girando sotto le finestre, suonando. Però
poi lentamente sono assorbiti dalla criminalità organizzata, per la quale più
sono meglio è. A volte sento dire: "Io non voglio, ma cosa faccio? Mi
obbligano".
Moltissimi Sinti e Rom per fortuna lavorano: da trent’anni a questa parte sono
entrati nei Luna Park e nei circhi. Un lavoro pesante ma dignitoso. Ultimamente
hanno anche altre attività, come paninoteche ambulanti, bar… una Sinta era
entrata giovane al mattatoio di Torino: ora avrà trent’anni ed è capo reparto,
per la sua intelligenza, per la sua onestà, per la sua capacità.
Chi lavora si sedentarizza? Vivono nel campo, nella roulotte con gli altri, ovviamente una vita sedentaria
perché chi ha un lavoro fisso non può spostarsi. Intanto i loro parenti e gli
altri svolgono altre attività, qualcuno non ne fa nessuna… c’è di tutto.
Uno dei problemi, oggi, é l’arrivo di nuovi gruppi dall’est. Secondo me l’unica
via d’uscita è che anche noi italiani decidiamo di diventare una nazione più
onesta. Una nazione davvero fondata sul lavoro, dove chi non lavora non mangia.
Dove chiunque, se ruba o delinque, è punito, in proporzione alla gravità del
fatto, senza scappatoie.
Tanti di noi sono consapevoli di vivere in una società dove esiste una cultura
mafiosa, ma scelgono la legalità. Penso sia più alta nel mondo degli zingari la parte delle persone che dicono:
comincio io. Solo in Piemonte, sono alcune centinaia, negli ultimi due anni,
quelli che sono entrati nel mondo del lavoro, dopo le migliaia già assorbite dal
mondo dei luna park. Persone che si sono rifiutate di entrare nella criminalità.
Ricordo un papà con due figli a Milano, coinvolto nella criminalità, che ha
fatto di tutto perché i figli non facessero la sua stessa vita. Ha cercato di
dare un lavoro a entrambi. Con un figlio è riuscito, con il secondo no. A
Torino, due anni fa, c’è stata una catechesi all’interno dell’accampamento,
tenuta da una catechista Sinta: questo papà tutte le settimane veniva con un
figlio. Voleva salvarne almeno uno e ha cercato di offrirgli anche una fede che
lo potesse aiutare, dei valori. Persone così non sono una minoranza.
Che prospettive vedi per lo stile di vita nomade? Non ho mai chiesto a uno zingaro nomade di sedentarizzarsi, né a uno che vuole
sedentarizzarsi di continuare ad essere nomade. Penso che il compito di un
operatore responsabile sia stare accanto a questi fratelli. Noi da tempo
forniamo la scuola come elemento aggiuntivo: saranno poi loro a decidere come
utilizzarlo. Ci sono bambini che quattordici anni fa hanno iniziato in
Bangladesh, in India con le nostre scuole mobili, nell’accampamento, sotto le
tende, sotto gli alberi, in maniera del tutto informale. Dopo un paio d’anni
sono andati da parenti, per continuare alla scuola pubblica. Sono diventati
insegnanti e adesso sono tornati nell’accampamento e fanno scuola agli altri
bambini, continuando ad essere nomadi.
Arricchiscono la comunità… Certo, una grande ricchezza. Altri invece sono andati a scuola e non sono
tornati alla vita nomade. La scelta è loro. Noi offriamo mezzi di sviluppo per
poter fare qualche passo in più, se lo desiderano. Io penso che abbia un senso
la vita nomade, come ha un senso la vita sedentaria, salvo che si voglia fare
violenza su questa umanità e creare una cultura unica.
Cent’anni fa Francesco Predari, autore del primo testo italiano interamente
dedicato al tema, diceva: "Se qualcheduno volesse conoscere un poco la cultura
zingara, cerchi di farlo in fretta, perché entro pochi anni spariranno e fra
cento anni non ci sarà nemmeno più il ricordo di questo gruppo etnico". Cento
anni sono trascorsi, e gli zingari sono molti più di allora: in Italia si parla
di 80.000, oltre all’ultima ondata di rumeni. A Torino soltanto in questi ultimi
due anni ne sono arrivati 2.500.
Cos’è la speranza per il futuro di uno zingaro? Il mondo zingaro non ha prospettive di lungo periodo, pensa a sistemare i suoi
figli oggi, adesso. Non c’è una percezione vera e propria del senso della
storia. È una scelta di vita che porta con sè una percezione completamente
diversa di molte cose.
Di Fabrizio (del 14/05/2009 @ 09:07:40, in Kumpanija, visitato 1470 volte)
E' di queste settimane una polemica tra Canada e Repubblica Ceca, a proposito dei Rom che chiedono rifugio in Canada, a causa delle discriminazioni che subiscono in patria. Il fatto a cui si riferisce la notizia qua sotto è questo
I Rom in Canada raccolgono quasi 20.000 corone per aiutare la piccola Natálka Toronto/Hamilton, 11.5.2009 (ROMEA)
I Rom che vivono in Canada e hanno firmato per l'iniziativa Dosta! (Ne abbiamo Abbastanza!) ed hanno anche tenuto dimostrazioni, come parte di ciò hanno contribuito con 1.140 dollari canadesi per aiutare la famigli di Vítkov. La somma totale raccolta nelle dimostrazioni mondiali raggiunge ora la somma di quasi 67.000 corone ceche.
I Rom in Canada hanno fatto due raccolte, una in una festa ad Hamilton il 2 maggio, dove sono stati raccolti 700 dollari canadesi, ed una alla manifestazione del 3 maggio a Toronto.
"Auguriamo alla famiglia ed alla piccola Natálka un veloce ricovero, e forza ed unità a tutti i Rom nella Repubblica Ceca nel lavorare per i loro obiettivi comuni per le prossime elezioni, che sono molto importanti per noi Rom. Rom, unitevi!!!!"
Grazie al lavoro dell'UNICEF in Uzbekistan, i membri della comunità
rom conoscono ora i pericoli dell'HIV e chiedono attivamente il parere medico -
By Matthew Taylor
TASHKENT, Uzbekistan, 20 maggio 2009 – Yurunatuz è una comunità rom a
Margilan, Uzbekistan. L'uso di droghe per endovena è comune, come la mancanza di
conoscenza sull'HIV. Su una popolazione di 810, 10 sono morti recentemente di
AIDS.
Halida, che lavora con l'UNICEF, sta aiutando attivamente la comunità nella
prevenzione dell'HIV/AIDS. Sogna che un giorno i residenti di Yurunatuz
affrontino apertamente la questione dell'HIV e pongano fine all'uso di droghe
per endovena. Lavora per la Clinica Numero Quattro e recentemente ha ricevuto
formazione per la campagna sponsorizzata dall'UNICEF. I Rom una volta andavano
dai guaritori tradizionali per curare le loro malattie. Ora vanno da lei.
"Sono un gruppo molto unito ed ora credono in me, singolarmente e come
gruppo," dice.
Partner nella qualità di vita
Yurunatuz è una comunità tra le tante in cinque regioni che stanno ricevendo
appoggio dall'OnG "Hayot Sifati Hamrohi" (che significa Partner nella qualità di
vita) assistita dall'UNICEF. L'OnG aiuta persone come Halida ad aumentare la
consapevolezza sull'HIV e cambiare gli atteggiamenti per fermare la sua
diffusione.
L'UNICEF sta anche lavorando in tutto il paese per combattere i recenti
scoppi di HIV che si ritiene siano il risultato di pratiche mediche insalubri.
Ha spedito equipaggiamento medico nella provincia orientale del Namangan.
L'equipaggiamento è anche sulla strada per la vicina provincia di Andijian.
Risposta immediata
Il nuovo equipaggiamento- inclusi kit medici monouso che riducono il rischio
di trasmissione accidentale dell'HIV - è parte della risposta immediata
dell'UNICEF in appoggio agli sforzi del governo per combattere l'HIV/AIDS in
queste regioni, migliorando la sicurezza dei pazienti nelle istallazioni
sanitarie.
"Il kit monouso è il primo passo vitale nel rendere più sicura la sanità e
combattere l'HIV/AIDS nell'est. La nostra risposta comune è stata rapida.
Naturalmente siamo qui per aiutare in tutte le aree per fermare la diffusione
dell'HIV in Uzbekistan," ha detto Mahboob Shareef, rappresentante locale
dell'UNICEF.
Una serie di misure più ampie sono state concordate per affrontare l'HIV e le
tematiche relative nelle regioni. Includono un piano d'azione con le autorità
regionale per la prevenzione dell'HIV tra le donne, bambini ed adolescenti, come
pure per un miglior trattamento e cura delle donne e dei bambini affetti da HIV.
Fiducia stimolante
Nel frattempo, la fiducia che Halida ha stimolato nella comunità rom, ha
portato a diagnosticare e trattare nuovi casi.
"Una madre era preoccupata perché suo figlio aveva l'HIV, dato che si drogava
parecchio," dice. "Mi ha chiesto di aiutare suo figlio a fare un test HIV, ed il
ragazzo è risultato positivo. Da allora è stato seguito e curato."
Disclaimer - agg. 17/8/04 Potete
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