Rom e Sinti da tutto il mondo

Ma che ci fa quell'orologio?
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La redazione
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Fabrizio (del 03/05/2013 @ 09:08:58, in Europa, visitato 2437 volte)

Venerdì 10 maggio, ore 20.45
Libreria Popolare - via Tadino 18, 20124 MILANO

Sarà... che le cose più interessanti ti accadono sempre per caso. Sarà... che molti ne hanno scritto, e solo qualcuno c'è tornato.

Una giovane famiglia italiana, con bimbo di due anni, in Macedonia per teatro. Entrano in contatto con la comunità dei Rom di Shuto Orizari (il primo comune che è stato amministrato dai Rom stessi), e piano piano ne scoprono la storia e le sue caratteristiche, ma soprattutto sviluppano un intenso rapporto con i suoi abitanti, di cui sono ospiti, alla ricerca comune dei valori, delle tradizioni e delle conflittualità che regolano la comunità.

Ne parlano con l'autore, Andrea Mochi Sismondi
Fabrizio Casavola, redazione di Mahalla
Anna Stefi, ricercatrice e collaboratrice di Doppiozero

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Di Barbara Breyhan (del 04/05/2013 @ 09:05:02, in Kumpanija, visitato 2205 volte)

philippe leroyer (CC)
il grande colibrì LUNEDI' 29 APRILE 2013

"Sono nato nel nord del Kosovo, nel 1983. Mia madre era una contadina, allevava mucche, pecore e galline, vendeva latte e formaggi. Mio padre, invece, aveva un negozio di alimentari". Una vita di sacrifici, ma tranquilla, almeno fino a metà degli anni '80. "Fu allora che iniziarono le manifestazioni razziste tra le diverse etnie jugoslave e il prezzo di un chilo di pane salì all'equivalente di 10mila lire [circa 12 euro attuali; NdR]". Enis, un ragazzo rom simpatico e solare, e la sua famiglia fuggirono in Romagna nel 1986. "Per vivere chiedevamo l'elemosina e abitavamo in una baracca fatta di cartone, sotto un ponte".

A sei anni Enis ha scoperto la scuola, "un mondo nuovo. Mi trovavo veramente bene, perché fino ad allora non avevo idea che esistesse una vita normale". Non ci sono stati problemi con nessuno: "Ti racconto una cosa. Facevo la terza elementare e un giorno, quando sono tornato al campo nomadi, ho trovato le nostre tre roulotte e la baracca bruciate, per colpa di un cortocircuito. Non c'era più niente, né i vestiti né i giochi né, soprattutto, il mio cane, un cucciolo di pastore tedesco. Sono stato malissimo". La scuola venne informata dell'accaduto. "Il giorno dopo ogni compagno, e anche le maestre e le bidelle, mi hanno regalato qualcosa, dei vestiti, dei giocattoli". Anche un cane, ma quello non lo ha accettato: "Non mi andava di affezionarmi ad un altro cane, lo vedevo come un tradimento per il mio".

Enis si è sposato molto giovane, a undici anni. Troppo pochi? "In generale sì, ma noi rom a quell'età siamo più che maturi di corpo, perché cresciamo molto prima. Quindi il matrimonio da giovani diventa una cosa bella: è come essere fidanzati, con la differenza che lei viene a fare parte della tua famiglia e si cresce insieme". Dopo circa un anno è nato il primo figlio.

Era giovane anche quando ha scoperto la sessualità con gli uomini. "Ero sulle rive di un fiume con dei parenti e, quando mi sono appartato per mettermi il costume, è arrivato un signore e mi ha proposto un'esperienza sessuale. Io ho accettato". Non è un ricordo bello e neppure brutto: "E' solo un ricordo. Un ricordo bello è la prima notte con mia moglie". Per anni Enis non si è fatto domande sul proprio orientamento sessuale. "Non conoscevo il mondo gay e non sapevo neppure che esistessero i bisessuali". Poi, da adolescente, ha conosciuto Matteo, un ragazzo più grande: "Ero alla ricerca di qualcosa, ma non avevo ancora capito quello che mi piaceva e lui mi ha aiutato a capire che sono bisessuale".

Grazie a Matteo, Enis ha iniziato ad interrogarsi sulla propria sessualità. Molte risposte sono arrivate frequentando gli attivisti gay: "Per un periodo sono andato all'Arcigay, quando ho scoperto la mia bisessualità, perché cercavo di capire chi fossi. Grazie anche a loro ora sono in pace con me stesso".

Enis, comunque, non si è limitato a frequentare l'associazione, ma ha iniziato ad andare anche in posti dove gli uomini si incontrano tra loro per fare sesso: "Saune, locali gay, parchi pubblici, parcheggi...". Lì, però, l'esperienza non è stata altrettanto positiva e quindi ora frequenta raramente questi posti: "Da una parte è difficile trovare delle persone disponibili per frequentarle, dall'altra c'è una sorta di razzismo. Non è molto forte, ma c'è". Un rom in un luogo di battuage viene subito etichettato come un rapinatore - o anche peggio. Per questo ha deciso di cercare amicizia e compagnia in altri modi: "Mi sono iscritto ad alcuni siti gay e ho iniziato a conoscere gli amici degli amici, grazie al passaparola".

All'inizio i sensi di colpa erano molti, anche perché Enis è credente, musulmano: "Gli imam dicono che è un grande peccato avere rapporti con persone del proprio sesso". Enis ha iniziato a fare ricerche: "Ho letto tante scritture sacre e non ho trovato niente, solo che il peccato più grave è ammazzare". Enis non è praticante: "Prego a modo mio e faccio fatica a pensare che bastino solo trenta giorni all'anno per farsi perdonare i propri peccati. Quando qualcuno mi convincerà che per essere musulmano bisogna per forza pregare cinque volte al giorno e digiunare nel mese di Ramadan, io diventerò ateo. Insomma, credo molto in Dio, ma non credo nelle persone che vogliono rappresentarlo, come gli imam o i preti, per questo non vado in moschea".

Enis crede ancora meno nel futuro dell'Italia: "Qui sono tutti delinquenti. E poi l'Italia dovrebbe essere basata sul lavoro e sulla libertà, invece attualmente il lavoro non c'è e io non mi sento per niente libero...". Le politica nello Stivale gli fa schifo. "Ti racconto una cosa. Durante la guerra in Jugoslavia, tutti gli stati aiutavano l'Italia per i profughi, ai quali avrebbero dovuto dare 35mila lire al giorno. Sai quanti soldi abbiamo visto? Neanche una lira. E poi in Italia i rom vivono peggio che in qualsiasi altro paese europeo, in campi nomadi abbandonati in mezzo al nulla, senza documenti e senza alternative. Io me la sono cavata, ho comprato una casa di proprietà, ho cinque figli e vanno tutti a scuola. Pensi che mi hanno dato i documenti? No. E allora, anche se adesso mi offrissero la cittadinanza, io non la vorrei".

E poi in Italia "ci sono veramente tante persone razziste, che pensano che i rom sono tutti ladri, sono tutti sporchi, sono gente da evitare, perché pensano solo a fregarti. E i razzisti stanno diventando sempre di più. Secondo me la gente ormai non ha più niente per cui lottare, come negli anni '70 o '80, e quindi vuole dimostrare qualcosa, anche se non capisco cosa e a chi devono dimostrarlo". Il simbolo del pregiudizio sono le auto costose che qualche rom possiede: "Non ce l'abbiamo tutti. Alcuni hanno venduto tutto nel loro paese e quando sono venuti qua si sono comprati una bella macchina, che è l'unico bene in loro possesso. Altri se la sono presa delinquendo, ma non per questo siamo tutti delinquenti". Osservazione ovvia, eppure un'intera etnia è crocifissa a questi pesanti stereotipi.

Stereotipi come quelli recentemente rilanciati da Cristiana Alicata, l'ex dirigente lesbica del PD laziale secondo cui la partecipazione rom alle primarie romane sarebbe stata frutto solo di una compravendita di voti (Il grande colibrì): "Ho letto quello che ha scritto, ma sinceramente non mi meraviglio: la politica è fatta così e lei non è l'unica. Una pecora nera in più o in meno in mezzo ad un milione di pecore nere non fa differenza. Poi noi siamo una minoranza e non abbiamo nessuna voce; sono loro, i politici, ad averla".

Lesbiche, gay, trans e bisessuali sono forse più sensibili al tema della discriminazione, tuttavia non sono affatto immuni dal pregiudizio: "Sai, a volte, durante un rapporto sessuale, mi chiedono per quale motivo sono circonciso e io rispondo che sono rom e di religione islamica. Spesso mi mollano lì con una scusa e se ne vanno. Dicono che si è fatto tardi, è questa la scusa classica. Oppure all'improvviso dicono che non vogliono più fare sesso perché sono fidanzati...". Nessuno dice esplicitamente di non aver voglia di andare a letto con un rom, "perché secondo me la gente è molto ipocrita e fifona".

Dall'altra parte, Enis deve stare attento all'omofobia presente nella comunità rom: "Se mi dichiarassi, sarebbe uno scandalo, non solo perché ho dei figli, ma anche perché non giudichiamo bene l'omosessualità e il concetto di bisessualità non esiste neppure. Sono tutti argomenti tabù. Quando il discorso proprio viene fuori, tutti dicono: 'Quella è gente malata, non bisogna avere a che fare con loro, perché portano le malattie'. Poi però anche tra i rom ci sono tantissimi omosessuali". Enis ne conosce parecchi: "Ad esempio il mio amico più caro, che per me è come un fratello, è gay. Pensa, ci siamo incrociati in un parco dove si incontrano gli uomini e vivevamo nello stesso campo! Per scherzare io a volte lo chiamo 'frocio di merda' e lui mi risponde che il suo stivale è più etero di me!".

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Di Fabrizio (del 05/05/2013 @ 09:09:53, in Italia, visitato 1754 volte)

(immagine da GialloZafferano)

Quanto segue è uno dei miei soliti minestroni, messo per iscritto tentando di dar ordine a diverse idee senza un'orbita precisa. Ribollita, che è un minestrone da mangiarsi freddo, a qualche giorno dalla cronaca. Insomma, sfogo e (forse) ragionamento, dove ai classici ingredienti della ribollita aggiungerò quel tanto necessario di piccante, come si addice alla cucina della MAHALLA.

I prezzemolini

All'inizio erano le vallette, poi furono le veline, infine le prezzemoline. Trent'anni e passa di storia televisiva, di un paese dove la politica si è fatta televisione. Prezzemoline erano quelle star (tarde o acerbe) di cui nessuno ha mai capito bene la funzione, ma che spuntavano fuori ad ogni trasmissione, a volte per un balletto, talvolta solo per ridere o sorridere, altre (ahinoi!) per fornire il loro parere su qualsiasi cosa passasse in mente al conduttore. Parabola di persone assolutamente inutili e fuori contesto, che non si rassegnano a stare lontano dai riflettori. Ma si sa, se una cosa funziona per il mondo femminile, zitti zitti i maschi se ne appropriano.

L'ascaro

Avrebbe dovuto capirlo da tempo (quando passò da editorialista del Corriere a firma del Giornale) che i tempi stavano cambiando. Era convinto di aver trovato un suo ruolo, remunerato, nella nostra società: giornalista ben visto negli ambienti "giusti", parlamentare europeo, con una marea di confratelli immigrati da linciare (almeno virtualmente, visto l'impossibilità di farlo fisicamente). Il suo capolavoro: la conversione (fatto estremamente privato) al cattolicesimo, vissuta come un vero e proprio evento mediatico.

E poi, una triste china discendente verso l'oblio. Provò a far parlare nuovamente di sé, quando annunciò urbi et orbi che visto che non gli piaceva il nuovo papa, non giocava più a fare il convertito. La risposta altrettanto urbi et orbi, destre ecclesiali comprese, fu "Magdi chiiii?"

Lo sapevamo (non ditemi di no...) che alla nomina di un ministro all'integrazione, il nostro avrebbe rimesso fuori la testolina, per dare la sua opinione, sprezzante e credo non richiesta. Non richiesta, non decisiva (chi mai gli ha dato retta?), giusto per ricordarci della sua tutto sommato inutile esistenza.

I crociati

Ma l'ascaro è il caso (estremo) di altoparlante, e la voce? La troviamo nelle persone di Salvini (il pragmatico) e Borghezio (il fattone) di un partito che in 20 e passa anni ha promesso e minacciato di tutto:

  • dalle carrozze riservate ai milanesi, al portare un maiale (suppongo leghista) ad urinare dove si potevano edificare le moschee. Un partito di massa e governo che tra una promessa e una minaccia, s'è quasi dissolto per un rapporto molto creativo con le finanze (altrui) e poi s'è risolidificato, ma i due punti fondanti, autonomia fiscale e politica, non ha mai cercato nemmeno di realizzarli.

Pragmatico e fattone a minacciare, come sempre, sfracelli, contro questo povero ministro: "i governatori del nord faranno argine..." Me li immagino, questi coraggiosi governatori, e mi sorge un dubbio, ma se non li ho visti, schierati a falange, neanche quando il governo era loro, cosa vogliono adesso? L'immigrazione, gli sbarchi dei "clandestini" è storia loro, adesso che ci sono (con tanti problemi che è inutile negare), ragionare sull'integrazione mi pare la cosa più logica.

Perché, come nel Medio Evo, i crociati in questi 20 (ricordo: 20) anni e passa, hanno fatto una figura da cioccolatai: la gente, i famosi migranti, arrivavano qualsiasi cosa, qualsiasi rito scaramantico si inventassero. Che gli si appioppasse l'etichetta di clandestini, che ci fossero CIE o CPT, che si affondassero le loro zattere o si perseguissero i pescatori che li soccorrevano (un respiro di umanità, infine), che ci fossero sgomberi e retate... Sono arrivati lo stesso, sono in mezzo a noi, e con noi lavorano, mangiano, figliano.

Che, la figura di cioccolataio, l'han fatta in tanti, mica solo a destra: Livia Turco e Giorgio Napolitano vi ricordano qualcosa? Eppure, entrambe lamentano che la loro stessa legge (che probabilmente non li sente ed è ancora lì) non la riproporrebbero. Man mano che tra destra e sinistra politiche crescevano gli steccati, si confondevano le acque tra destra e sinistra sociale, a partire dai sindacati, per arrivare alle galassie dei non-garantiti, degli incazzati, dei senza bandiera. E, mentre i buonisti rifluivano nel virtuale, il "cattivismo reale" di ogni declinazione politica prendeva le leve del potere.

Chi c'era e chi c'è

Vi risulta che qualcuno abbia valutato, anche minimamente, come serie le invettive (perché di proposte, credo non si possa parlare) di Salvini e Borghezio?

Lo sanno loro per primi, hanno fallito e si sono coperti di ridicolo tra i loro stessi sodali di un tempo, che fanno finta di non conoscerli. Così son passati dal "scendi il porco che lo piscio" al "pisciare loro come cani randagi per marcare il territorio", d'improvviso diventato estraneo e smemorato. Sindrome da prezzemolino di ritorno.

Ma, uscendo dalla metafora e dalla puzza, dopo la sinistra qualcosista, la destra populista, quella tecnica ed il papocchio attuale, siamo fermi a 20 anni fa. Le politiche "cattiviste" forse sono state messe in castigo, ma quella attuale non mi sembra una squadra di passisti da montagna capace di recuperare il ritardo.

C'è da rimediare con urgenza, e il nuovo ministro dell'integrazione potrebbe essere la persona giusta, soprattutto quando esordisce: CHIUSURA DEI CIE e RICONOSCIMENTO DELLA CITTADINANZA. E' il minimo, è il dovuto, ma ci vuole ancora coraggio per dirlo in Italia.

La casalinga

Borghezio, e non solo lui, probabilmente non se n'è reso conto, ma dare della "casalinga" ad una stimata professionista finita a fare il ministro, è un complimento. Abbiamo avuto nelle cronache, in Parlamento e al governo il fior fiore delle vallette, delle veline, delle prezzemoline e dei prezzemolini, attente/i ad alternare una commissione parlamentare con l'appuntamento dal parrucchiere... e i risultati li abbiamo visti!. Finalmente, la faccia della mia vicina, di una collega, di una persona che intravedi reale.

Che Cécile, reale e presente lo è veramente (e spero continui ad esserlo). Quasi tutti quanti in Italia da anni hanno operato sui temi del razzismo e dell'immigrazione possono dire di averla conosciuta, di aver scambiato una chiacchiera o un caffè assieme. Leggo una sua quasi-biografia di tempi non sospetti (pagg. 27-36) ed è la storia, dura, di studi all'università, rapporti col mondo cattolico, il lavoro, la politica, le radici. C'è poco di inquietante, c'è determinazione e volontà. Determinazione e volontà che sino a ieri ci facevano paura, le avremmo rinchiuse nei CIE o a pulire i cessi. Saperla ministro non è solo soddisfazione, è guardarsi allo specchio e vedere una parte bella di se stessi.

Una bella immagine, circondata da squali vecchi e nuovi.

Lo specchio non è (ancora) la realtà

Leggevo, sempre su Corriere Immigrazione, di una soddisfazione simile, e della consapevolezza di sapere chi è l'attuale ministro degli interni. Vallacapì chi ha più potere... Anzi no, forse lo sappiamo.

In questi giorni Cécile Kashetu Kyenge ha incassato apprezzamenti e solidarietà, dovuti certo, ma le belle parole non cambiano i 20 anni di ritardo, non accorciano la strada da fare. Purtroppo, i supereroi esistono solo nei fumetti, o nella realtà virtuale in cui a molti piace crogiolarsi. Cécile Kashetu Kyenge non ha alcuna possibilità di farcela da sola, visti i suoi compagni di cordata.

Però, CHIUSURA DEI CIE e RICONOSCIMENTO DELLA CITTADINANZA (e del resto, ne parliamo tra pochissimo), prima ancora che essere proposte giuste o sbagliate sono proposte, ripeto NECESSARIE. Necessarie a smontare l'impianto, razzista e classista insieme, degli ultimi 20 anni, che ci ha consegnato l'immagine dell'immigrato come una persona aliena, da isolare e rinchiudere. Alla base di quelle due proposte c'è quello che possiamo (dobbiamo) fare da subito: creare le condizioni per agire, per giocare, per discutere assieme, NOI E GLI ALTRI. Partendo dalle proprie realtà, di quartiere, comunali, magari riprendendo il senso di FEDERALISMO che è diventato una parolaccia di destra, ma è uno dei tanti patrimoni dispersi della sinistra che fu.

Perché (vorrei terminare, prima che non ce la facciate più), c'è l'ultimo ingrediente di questa ribollita: resto ancora convinto che politica non è una cosa sporca, non è neanche un recinto dove rinchiudere stimati professionisti o poveri idealisti: è lavorare assieme, e soprattutto immaginare, costruire, difendere il mondo in cui agiremo.

Altrimenti, ancora una volta, avremo "sacrificato" chi avrebbe potuto, UNA FACCIA DA CASALINGA COME NOI.

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Di Sucar Drom (del 06/05/2013 @ 09:04:09, in scuola, visitato 1638 volte)

da Chiara di notte

Da piccola Anina viveva in clandestinita'. Oggi e' una giovane donna che e' riuscita, grazie a chi ha creduto in lei, ma soprattutto per il suo impegno, a cambiare la sua vita, trasformandola in un viaggio incredibile: da quando era mendicante per i marciapiedi di Lione ad essere finalmente ammessa alla prestigiosa Universita' della Sorbona.

All'eta' di sette anni, con la sua famiglia, Anina era arrivata in Francia dalla Romania e non parlava una parola di francese. Ha vissuto nei campi Rom, ha conosciuto l'esclusione, la discriminazione, il doversi nascondere e chiedere l'elemosina per le strade per riuscire a sopravvivere. Ma il suo destino e' cambiato quando un insegnante, vedendola accattonare nelle strade di Bourg-en-Bresse, le ha porto una mano, e le ha offerto la possibilita' di frequentare una scuola.

Rifiutata inizialmente dai suoi compagni di classe per le sue origini, ha reagito attaccandosi ancor piu' allo studio. Lo ha fatto per una questione di orgoglio, per non soccombere, per dimostrare di non essere inferiore a nessuno, per non deludere chi aveva creduto in lei. E' cosi' che si e' gettata anima e corpo sui libri, e questo l'ha portata a raggiungere traguardi che altri, meno motivati, a volte non riescono a raggiungere neppure durante i consueti anni di scuola, nonostante tutti gli impedimenti, culturali e linguistici che ha dovuto superare. Perche' in modo intelligente Anina ha subito capito che lo studio, piu' di qualsiasi altra cosa, l'avrebbe potuta aiutare a ritagliarsi uno spazio tutto suo, d'indipendenza e di dignita', dove non sarebbe stata piu' disprezzata per cio' che era. Ed e' quello che ha fatto.

Oggi, a 23 anni, la sua storia viene raccontata in un'autobiografia, “Je suis tzigane et je le reste”, scritta in collaborazione con il giornalista di RTL Frédéric Veille. Oggi, finalmente, da brillante studentessa Anina puo' riscattarsi, e mitigare la vergogna di essere Rom che i suoi genitori le avevano trasmesso. Oggi, tutto quello che ha fatto per riappropriarsi della dignita' che le era stata negata a causa della sua etnia, sta dando i suoi frutti. Nel mese di settembre, infatti, Anina e' stata ammessa alla Sorbona e studiera' per diventare magistrato: il suo sogno fin da quando era bambina. Perche' come afferma lei stessa nel libro: "Il giudice e' il portavoce del diritto, e della giustizia".

Questa storia di una persona semplice, povera, umile, partita svantaggiata in tutto, che non ha trovato l'aiuto dei soldi, o dei favori politici, o le strade preferenziali che vengono offerte solo a chi appartiene a una famiglia potente, e' ancor piu' emblematica e significativa di tante altre, perche' dimostra che solo noi stessi, con l'impegno, la volonta' e l'intelligenza, possiamo riscattare la nostra condizione, e migliorarla. Ed e' per questo che Anina dovrebbe essere indicata come un esempio per tutte le giovani ragazze Rom, e non solo.

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Di Fabrizio (del 07/05/2013 @ 09:05:38, in Europa, visitato 1678 volte)

Dall'hindi all'hargot, l'incredibile storia della lingua rom LesInROCKS - 02/04/2013 | 12h23 par Eva Bester (nella foto: Il tempo dei gitani di Emir Kusturica)

    Parlata da milioni di Rom in tutto il mondo, e dopo aver fornito nobiltà al francese gergale, la lingua romanì resta quantomeno sconosciuta

Parole come surin (coltello), bouillave (fornicare) e chourer (da chourave, rubare) fanno parte dei numerosi imprestiti dal rromanì al francese che vi permettono di dare a qualcuno del narvalo (sciocco), di insistere sul numero di berges (anni) di un antenato o ancora di minacciare un caro amico di poukave (denuncia) o di marave (colpire, uccidere).

Se i francesi si concentrano soprattutto sui termini canaglia, il rromanì resta una lingua poetica, musicale e millenaria, che non ha visto la sua ufficializzazione in forma scritta se non dopo il 1990.  Come i Rom (ortograficamente Rrom), è originaria della città di Kannauj, capitale dell'India oltre 1000 anni fa. Si è costituita sulla base di antiche parlate popolari indiane, nella forma conosciuta del sanscrito.

Un dialetto diventato lingua attraverso la Storia

All'inizio dell'XI secolo, popoli di lingua rromanì vennero deportati in Afghanistan dal sultano Mahmoud di Ghazni, per le loro ricercate competenze artistiche e artigianali. Il sultano desiderava così fare del suo borgo la capitale dell'universo. Ma in una società islamica rigorosamente sunnita, la loro cultura indù non si integrò. Il sultano li vendette nel nord del paese, dove si parlava persiano. Quindi, dopo gli apporti indiani, il rromanì si arricchì di elementi persiani, ed in seguito ai viaggi, di imprestiti greci a cui si aggiunsero quelli dei paesi locali dove la maggioranza de Rom ha vissuto sino ad oggi (Romania, Bulgaria, Serbia, ecc.)

Ancora oggi, la lingua del nord dell'India ha novecento parole in comune col rromanì. L'impronta indiana è tale che padroneggiando il rromanì si può decifrare un film in  hindi. Al momento della sua uscita in Albania, il film indiano Il vagabondo di Raj Kapoor ha suscitato entusiasmi sino al delirio tra il pubblico rom, che pensava che lo fossero anche tutti gli attori del film.

Un movimento letterario rromanì molto recente

Non tutti i Rom (tra i 12 e i 15 milioni nel mondo) parlano il rromanì. Alcuni gruppi sono stati obbligati a dimenticarlo (in Spagna, Inghilterra, Finlandia...), ed altri l'hanno dimenticato date le condizioni del mondo attuale. Le memorie più vive si trovano nei Balcani, dove è parato dal 95% dei Rom. In Francia, su mezzo milione di Rom, si contano circa 160.000 che lo parlano (poco meno del 30%). La prima menzione di una possibile standardizzazione del rromanì risale al XIX secolo. quando il polacco Antoine Kalina notò l'omogeneità profonda della lingua nei diversi paesi dove veniva praticata. Otto anni dopo, un Rom ungherese, Ferenc Sztojka, pubblicava un dizionario ungherese-rromanì, contenente circa 13.000 voci e una trentina di poesie in rromanì. L'autore ambiva a fornire una lingua moderna, con nuove parole ed espressioni.

Malgrado questi tentativi per accordare al rromanì uno status equivalente alle altre lingua, occorrerà aspettare gli anni '20-'30 in Russia, perché veda la luce un movimento letterario rromanì. In quel periodo Lenin insisteva sull'importanza di dotare di un alfabeto le lingue che non l'avevano. Dall'Unione Sovietica della fine degli anni '30, molte scuole e sezioni universitarie offrirono corsi di rromanì. Da allora sono stati tradotti in lingua quattrocento libri, ed infine si c'è stato l'accesso di grandi autori come Puskin o Mérimée. Nel 1969 in Jugoslavia esce il primo libro scritto in rromanì: Il Rrom cerca un posto al sole di Rajko Djurić.

Si traducono Prévert e Barbara in rromani!

Emerge allora un movimento poetico rromanì: lustrascarpe, operai, studenti dattilografano sulle macchine da scrivere dei loro datori di lavoro poesie in un rromanì approssimativo, se le scambiano e le leggono durante le sere. Traducano anche Prévert e Barbara, s'intensifica il desiderio di una scrittura comune. Il primo congresso rom ha luogo nel 1971 a Londra, e da alla luce la commissione linguistica dell'Unione Rromani Internazionale, che ufficializzerà l'alfabeto nel 1990, sotto il patrocinio dell'UNESCO.

Riconosciuto infine come una lingua propria a tutti gli effetti, il rromanì oggi è insegnato ufficialmente solo in due paesi dell'Unione Europea: in Romania e in Francia (all'INALCO). Ma come di ce il proverbio: "O gav p-e dromesqo agor si jekh lachipe, o drom so lingrel tut othe si deś!" (Non è la destinazione che conta, ma la strada per arrivarci!).

Grazie a Marcel Courthiade, commissario alla lingua ed ai diritti linguistici per l'Unione Rromani Internazionale e professore di lingua e civiltà rromanì presso l'INALCO, per la sua conoscenza e gli illuminanti aneddoti.


Ndr: vedi anche

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Di Fabrizio (del 08/05/2013 @ 09:05:53, in lavoro, visitato 1562 volte)

CorriereImmigrazione - di Stefano Galieni - 6 maggio 2013

Sono numerosi i cittadini di origine rom che vogliono una diversa identità non per sfuggire alla giustizia, ma al pregiudizio. Un pregiudizio che mette a repentaglio tanti diritti, compreso quello al lavoro.

"Può sembrare assurdo, ma cambiare cognome è l'unica soluzione. Solo che ci vuole troppo tempo e io debbo lavorare". Sandro (necessario omettere il cognome) è un cittadino italiano di origine rom: "Cittadino da tre generazioni - ci tiene a precisare - Mio nonno è nato a Fiume, (l'attuale Rijeka, ndr) quando era una città italiana. Mio padre, emigrato, è nato a Brindisi e io a Napoli, e ho dei figli qui che rischiano di finire come me". Sandro, dopo una lunga e tormentata esperienza romana, vive con gran parte della sua famiglia allargata nel padovano. Da generazioni si tramandano un mestiere tanto difficile quanto delicato: il restauro degli arredi sacri, soprattutto oggetti in metallo. A Roma non faticavano a trovare commissioni. Ma adesso è tutto diverso. "Un lavoro con cui sono nato e che mi piacerebbe tanto continuar a fare - racconta - ma in cui attualmente sono in difficoltà per due ragioni: la crisi e la diffidenza". In tempi di magra, anche gli investimenti in opere di questo tipo diminuiscono. Ma Sandro e tanti suoi parenti non trovano lavoro anche per via di quelle "c" e quelle "h" con cui termina il loro cognome. "Capiscono subito che sei "zingaro" - dice - e trovano le scuse per non prenderti, anche se magari sei il solo che può fare bene un lavoro del genere, che ha le competenze giuste, che conosce i segreti dei metalli e di come li si pulisce. Ormai pensano che se ti porti "lo zingaro" in casa, qualcosa ti ruba. Ma che colpa abbiamo noi per reati commessi da altri?". Allora si affaccia l'idea di cambiare cognome. Togliendo quelle lettere finali o prendendo magari il cognome italiano della propria madre o della propria nonna.

Il cambiamento di cognome deve essere autorizzato dal Prefetto e la richiesta può essere presentata ed esentata dal pagamento del bollo laddove quello che appare sui documenti sia "ridicolo, vergognoso o rilevante l'origine naturale". E il terzo caso è certamente quello più appropriato. Ma c'è un iter per compiere questa procedura, già di per sé lungo e reso ancora più complesso dal fatto che, dal 9 luglio del 2012, la decisione finale in merito a tale richiesta è di competenza esclusiva del Prefetto del luogo di residenza o di quello in cui è registrato l'atto di nascita. L'interessato deve sottoscrivere la domanda in presenza del dipendente della Prefettura-U.T.G. addetto a riceverla, ovvero altra persona munita di delega e di fotocopia di un documento di riconoscimento dell'interessato. La domanda deve essere presentata in Prefettura-U.T.G. e sottoscritta dal richiedente in presenza del dipendente addetto a riceverla o, inviata per raccomandata A/R, allegando fotocopia di un documento di riconoscimento. Qualora la richiesta appaia "meritevole di essere presa in considerazione", il richiedente sarà autorizzato, con Decreto del Prefetto, a far affiggere per trenta giorni consecutivi, all'albo pretorio del Comune di nascita e del Comune di residenza, un avviso contenente il sunto della domanda. Lo stesso Decreto può prescrivere la notifica del sunto della domanda, da parte del richiedente, a determinate persone controinteressate. Se entro trenta giorni dalla data dell'ultima affissione o notificazione nessuno si oppone, il richiedente deve presentare alla Prefettura copia dell'avviso con la relazione che attesti l'eseguita affissione e la sua durata. Il Prefetto, accertata la regolarità delle affissioni e vagliate le eventuali opposizioni, provvederà ad emanare il Decreto di autorizzazione o di rigetto al cambio del nome e/o del cognome. Tempi insomma poco compatibili con situazioni di estrema urgenza con quelli delle circa 50 persone appartenenti alla famiglia di Sandro. Da quanto poi risulta, anche in assenza di dati verificabili, questo tipo di problematica è diffuso in maniera estremamente persistente in gran parte del territorio nazionale.

Tra i rom sono in molti a voler cambiare cognome, rinunciando in parte anche alla propria identità, non solo per problemi occupazionali. Molti hanno figli che vanno a scuola e non vorrebbero evitar loro di sentire, sin da piccoli, il peso della discriminazione, altri vogliono poter trovare una casa in affitto o accendere un mutuo in banca senza dover temere elementi di pregiudizio. Oltre ai tempi, esiste poi un elemento di discrezionalità nella decisione che va considerato totalmente fuori luogo. Difficile giustificare uno Stato che da una parte non solo non riconosce neanche formalmente i rom come minoranza linguistica, ma che è stato più volte sanzionato per l'assenza di politiche di inclusione sociale e per la persistenza di pratiche discriminatorie e che contemporaneamente si arroga il diritto di decidere se un cognome può essere cambiato o meno. E comunque la stessa costrizione a dover chiedere di cambiar cognome, per i motivi raccontati da Sandro, rappresenta una sconfitta culturale e politica enorme per l'intera società italiana. Se si deve ricorrere ad un sotterfugio burocratico per veder rispettato il diritto a poter lavorare onestamente, significa che qualcosa di profondo non è stato affatto rimosso. Ma Sandro non ha tempo per queste disquisizioni: "Ho una moglie e tre figli da mantenere e voglio vederli crescere felici - conclude pragmatico. - Forse un giorno in Italia non ci saranno più questi problemi di cognome e di origini, ma io oggi ho 41 anni e devo guardare al nostro presente e al futuro dei miei figli. Quindi che ci vorrebbe a rendere più snelle queste pratiche? Io non ho nulla da nascondere, mi chiedano quello che serve, ma che si sbrighino per favore. Altrimenti non so come andare avanti".

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Di Sucar Drom (del 09/05/2013 @ 09:10:29, in blog, visitato 1576 volte)

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Di Fabrizio (del 10/05/2013 @ 09:03:46, in Europa, visitato 1614 volte)

Emil Schuka con Vaclav Havel. (Photo: Romano vod'i 4/2013)
Emil Schuka: Manchiamo di un concetto unificante - Prague, 3.5.2013 19:13, (Romano vod'i) Adéla Galova, translated by Gwendolyn Albert

Dal teatro ai diritti

Emil Schuka è uno dei politici romanì più famosi nella Repubblica Ceca. Si è laureato in legge ed è stato pubblico ministero, ma il suo sogno era di fare carriera con qualcosa di totalmente differente. Nel 2001 la rivista Reflex citava queste sue parole:

    "Sin dall'inizio ho avuto un'enorme passione per il teatro, che semplicemente mi incanta. Per tre volte ho frequentato il Dipartimento di Regia Teatrale al DAMU (l'Accademia di Arti di Scena) a Praga. Da ragazzo mi esibivo nel teatro della scuola e durante le superiori ho diretto due gruppi teatrali, uno a scuola e l'altro nella vicina casa della Gioventù. Pensavo che il teatro fosse lo scopo e l'ispirazione della mia vita."

Dato che non era stato ammesso all'Accademia, iniziò a cercare qualche altro campo dove potesse evitare la matematica, che non gli piaceva per niente. Questo lo portò alla Facoltà di Legge, ed a lavorare come pubblico ministero dopo la laurea. Tuttavia, Schuka non dimenticò il teatro, e mentre risiedeva nella città di Sokolov vi fondò il famoso complesso teatrale "Romen".

Euforia della rivoluzione

L'attivismo e il carisma di Schuka diedero frutto in particolare durante gli anni della rivoluzione e del post-rivoluzione. Assieme a Ladislav Rusenko, rappresentò il popolo rom durante quei giorni ferventi. In una memorabile manifestazione a Piana Letna (Praga) il 26 novembre 1989, parlò sul palco assieme a Rusenko, dichiarando il proprio appoggio al Forum Civico (Obchanské forum - OF) e a Vaclav Havel.

In un'intervista a Jarmila Balazhova del 2004, Schuka ricordava così l'atmosfera e lo sviluppo degli eventi durante quei giorni rivoluzionari:

    "Ero proprio in viale Narodní il 17 novembre, per coincidenza ero con l'etnografa Eva Davidova e Honza Cherveňak,, e fummo testimoni degli eventi. Non avevamo buone ensazioni. La sera stessa ci incontrammo con Lad'a Rusenko e il 18 novembre mettemmo assieme un gruppo di Rom di Praga, perché allora erano i più vicini a noi. Il 19 novembre scrivemmo un memorandum, che fu firmato da circa 30 perone, inclusa la dottoressa Milena Huebschmannova. Essenzialmente, ci era immediatamente chiaro che non potevamo rimenare ai margini, anche se qualcuno diceva: -Non dovremmo farci coinvolgere, lasciamo che i gagé se la sbrighino tra loro, aspettiamo di vedere chi vince e gli diremo che siamo stati dalla loro parte sin dall'inizio. Non mischiamoci con loro, è la loro guerra.- Naturalmente, non eravamo d'accordo. Quella gente non si unì a noi, e neanche li volevamo. Non tutti hanno avuto la fortuna di passare per eventi rivoluzionari ed esserne direttamente al centro. Sono davvero grato di aver ricevuto questa opportunità. Allora le persone cantavano non solo a Letna, ma anche in altri raduni sulla piazza Città Vecchia e in piazza Venceslao, persino fuori Praga. Tutti erano contenti di essersi liberati delle corde che ci avevano trattenuti. In quella situazione, quando la gente iniziò a respirare più liberamente, eravamo semplicemente puri, senza secondi fini e noi, i Rom, ne eravamo parte. Volevamo respirare liberamente e assorbivamo quell'atmosfera assieme a tutti. Volevamo respirare liberamente e abbiamo assorbito quell'atmosfera assieme a tutti gli altri. In quei giorni nessuno ho incontrato attacchi, o pregiudizi, o riserve da parte degli altri."

Se si chiedono a Emil Schuka i suoi personali ricordi su allora, dopo oltre 20 anni, è ovvio che una certa sensazione di disillusione si è accumulata nell'ultima decade. per raggiungere il culmine. Il suo entusiasmo è andato perso, e ciò che rimane è il senso di qualcosa di molto tempo fa ed irreale:

    "E' stato tantissimo tempo fa, oltre 20 anni, che nel corso di una vita umana è moltissimo. Su scala storica, naturalmente, è come se fosse ieri. Non mi piace rimpiangere il passato, come dicono. La prossima generazione sta crescendo qui. Allora non mi rendevo conto che stavo prendendo parte a qualcosa di speciale, vi fummo buttati dentro, a piedi uniti. Allora avevo la sensazione che quello su cui stavamo lavorando potesse avere un futuro. Alcune cose poi sono successe, altre no. Altre sono cambiate completamente."

L'Iniziativa Civica Romani (Romska obchanska iniciativa- ROI) ed il collasso degli ideali

Poco dopo la rivoluzione, a marzo 1990, Emil Schuka divenne co-fondatore del primo partito politico romanì, il ROI, che guidò per diversi anni. L'assemblea costituente del ROI lo elesse presidente il 10 marzo 1990. Alle elezioni del giugno 1990 il ROI, che contava 20.000 iscritti in Repubblica Ceca, si unì alla piattaforma dell'OF e ottenne otto seggi in parlamento. Ovviamente, alle elezioni municipali di novembre 21990, quando la coalizione dell'OF non li contemplava, il ROI ottenne solo lo 0,11% dei voti e tre seggi. Il partito divenne un simbolo, anche se molti dei suoi ideali originali in varie maniere non trovavano applicazione. Tuttavia, fu Schuka ad insistere sulla proposta di ancorare la nazionalità romanì nella nuova costituzione, a rendere i Rom cechi e slovacchi parte dell'Unione Romanì Internazionale e creare il primo partito unificato romanì.

Nel 2000 Schuka diventò presidente dopo un mandato dell'Unione Romanì Internazionale. Oltre all'attività politica, fu alla base della creazione del programma televisivo "Romale" e del primo settimanale romanì "Romano kurko". Grazie soprattutto a lui, venne istituita la Fondazione Rajko Djuric e avviata la famosa scuola socio-legale romanì a Kolin. Si iniziò a produrre professionalmente il programma televisivo "Romale". Schuka creò anche il festival di folklore internazionale Romfest, la cui edizione inaugurale a Brno-Lishegn (1991) vide la presenza del presidente Vaclav Havel. Sfortunatamente il Romfest, che3 era quasi inestricabilmente legatoad una famosa fessta folkloristica locale, Strazhnicí ("I Guardiani"), terminò nel 1996. Venne trasformato nelo festival Romska pisenh (Canzone Romanì), che si tiene nella cittadina di Rozhnov pod Radhoshtehm.

Emil Schuka non può evitare di essere critico o quantomeno scettico quando si parla sui risultati dello sviluppo della situazione romanì in Repubblica Ceca, dal periodo post-rivoluzionario sino ai giorni nostri:

    La nostra generazione, la generazione dei Romanì di ROI, non lavorava per il denaro, eravamo pieni di ideali. Il problema più grande che intravedo è che quando è finito il ROI, non c'è stato più nessuno a continuare, a proporsi. Non intendo a continuare direttamente nel partito, ma avevamo la possibilità di iniziare qualcosa e mentre vincevamo una battaglia, non abbiamo vinto la guerra in toto. Non si è trovato nessuno per continuare il nostro lavoro, e in politica, dove è assolutamente necessario combattere per ogni singola cosa, questo è un problema piuttosto grande. Da allora, molti romanì si sono diplomati e laureati, ma tra loro non abbiamo trovato nessuno che lavorasse concettualmente. Il settore no profit si concentra su questioni a livello locale e regionale, quando ciò di cui abbiamo bisogno sono soluzioni concettuali. Questo è evidente in organismi come la Commissione Interministeriale sugli Affari Comunitari Rom, dove sembra che ogni ministro debba partire da zero con i propri concetti, invece di portare avanti il lavoro dei predecessori. La mia critica, ovviamente, è rivolta anche ai nostri stessi ranghi. Se rimaniamo chiusi in un simile approccio, allora cosa possiamo aspettarci?
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Di Sucar Drom (del 11/05/2013 @ 09:07:14, in Regole, visitato 2185 volte)

Da Sinti Italiani in viaggio per il Diritto e la Cultura

Energia elettrica: tornano i contratti a forfait, l'Autorità per l'energia

In queste ore abbiamo verificato che molti gestori, a partire dall'ENEL, non si sono ancora adeguati alle nuove disposizioni e per questo li invitiamo al rispetto della Delibera 38/2012. Sinti Italiani ha attivato uno sportello segnalazioni. Mobile: 334-25.11.887

Ci preme ringraziare il Presidente dell'Autorità e tutto lo Staff della Direzione Tariffe, a partire dal Direttore, per la serietà con cui hanno affrontato la materia e per la loro la capacità di ascolto dimostrata in questi mesi.

L'Autorità per l'energia e per il gas con Delibera 38/2012 ha sospeso la Delibera 67/2010 che abrogava la possibilità di stipulare contratti a forfait a favore delle famiglie sinte, rom, giostraie e circensi.

Per informazioni! sportello segnalazioni. Mobile: 334-25.11.887 Davide Casadio.

Piazza Cavour, 5
20121 Milano
info@autorita.energia.it
tel. 02655651
fax 0265565266

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Di Fabrizio (del 12/05/2013 @ 09:09:45, in blog, visitato 1942 volte)

Leggevo un articolo di Valeriu Nicolae (interessante come sempre, purtroppo non ho tempo per tradurlo). Tra la situazione rumena e quella italiana ci sono naturalmente grosse differenze, ma anche similitudini, che vale la pena di approfondire. Il pezzo inizia così:

    "Ritengo che l'effetto più perverso del razzismo non sia la disumanizzazione né la violenza (entrambe sono difatti punite dalle leggi di molti paesi), ma l'abbandono collettivo, a volte parziale e altre completo, delle nostre auto-percepite (superiori alla media) moralità ed etica in favore del pregiudizio"...

Pezzo interessante, dicevo, e da qua vorrei partire per ulteriori ragionamenti. Quello che noi "gagé antirazzisti" abbiamo sempre denunciato è il razzismo che percepiamo nel nostro intorno, il motivo della denuncia può essere morale, solidale, politico... fa parte comunque dei nostri codici.

L'esperienza mi ha insegnato, e possiamo trovarlo anche in molti casi descritti, è che il razzismo influisce sulla vittima (che non sempre condivide i nostri codici e la nostra cultura), non solo con la violenza diretta e indiretta, ma spesso (non sempre) anche nell'auto-percezione che la vittima ha di sé come persona e come parte di una comunità.

La persona volonterosa quindi, che faccia parte di una maggioranza o di una minoranza, quando intende operare in senso antirazzista, non può limitarsi a contrastare i razzisti, ma finisce per confrontarsi con gruppi discriminati, che finiscono per ritenere la discriminazione verso di loro come una cosa normale e perpetuabile. Così da parte di questi gruppi si mettono in moto meccanismi di difesa che per "la nostra cultura" sono deleteri o inaccettabili: dal giustificare il furto come una forma di rivalsa sociale, all'accettare di vivere di assistenza e carità.

C'è chi tra di noi accetta questo tipo di atteggiamenti, che non hanno niente di culturale o di immutabile, e chi li contrasta. In tutti e due i casi, il problema rimane quello del SUPERARLI, come precondizione perché la minoranza venga percepita come composta da cittadini come tutti gli altri, con PARI DIRITTI e DOVERI.

    (Mi rendo conto che sono ragionamenti "tagliati con l'accetta"... e pure teorici, cioè tutti da approfondire)

Il superamento non è mai facile ma, checché se ne dica, è altrettanto inevitabile. Sempre sulla base della mia esperienza, non ci sono casi immutabili. La questione, come in ogni ambito politico, è verso dove andrà questo superamento, e quale potrà essere la sintesi di voci e obiettivi che quasi mai concordano in partenza, nonostante tutte le dichiarazioni di buona volontà. Ad esempio: obiettivo di una maggioranza è l'INTEGRAZIONE della minoranza, che a sua volta cercherà di mantenere spazi di autonomia, che talvolta servono a ripetere i meccanismi di gestione e potere già propri della maggioranza. Il fatto è che il concetto stesso di INTEGRAZIONE presuppone un modello precedente a cui conformarsi (si presume, da parte dei più deboli), mentre lo scopo dovrebbe essere che le due parti lavorino, oltre che per l'ovvio loro interesse economico, per creare un equilibrio più avanzato rispetto ai modelli precedenti.

Per ottenere questo risultato, il lavoro comune i tutte le parti è INDISPENSABILE, altrimenti il massimo a cui si può aspirare è un'INTEGRAZIONE IMPOSTA. Ma, cosa significa operare ASSIEME, soprattutto quali meccanismi di delega e decisionali competono alla parte minoritaria, che non sempre è coesa o immune da meccanismi di sfruttamento tra gruppi? Basta coinvolgere alcuni settori, quelli probabilmente più disposti a collaborare e a cogliere gli effetti della collaborazione?

Si da il caso che questi settori siano anche quelli che hanno maggior istruzione, maggiore autonomia sociale ed economica, siano quindi già INTEGRATI o quasi. Ma che riconoscimento potranno avere nelle fasce più deprivate di quanti pretendono di rappresentare?

    (Notate come partendo dal razzismo, si arrivi a ragionare sui meccanismi che governano le maggioranze stesse?)

Allora: "... rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando, di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese.", cioè, nient'altro che la nostra storia e le nostre migliori tradizioni. Ma, a chi si riferisce quel testo glorioso? A noi, a un popolo singolo, o dobbiamo considerarlo come una MISSIONE universale? E, se così fosse, siamo missionari?

E qua, si torna al punto iniziale. C'è un filo che unisce il razzismo violento o disumanizzante, alla perdita dell'auto-percezione. Se il razzismo crea quel legame, l'antirazzista può brancolare nei miei confusi ragionamenti, oppure può scoprire che il razzismo crea le condizioni ottimali per fare dell'antirazzismo un'impresa: cioè limitarsi a fornire aiuto, assistenza, mantenendo comunque le cause e le condizioni dell'attuale disparità. Ovviamente, sarà più facile impostare un rapporto tra padrone-illuminato e sfruttato-senza storia, la comunicazione non potrà che essere unidirezionale. Il soggetto dell'aiuto potrà migliorare, ma non potrà mai trovarsi ad un livello paritario. Dal punto di vista economico: una specie di COLONIANISMO BUONO, con la controindicazione di avere (percentualmente) gli stessi costi, ma rendite assolutamente inferiori a quei tempi di schiavismi e cannoniere. Per cui, la MISSIONE si perde, rimane la giustificazione economica: chiedere soldi in nome di una carità che serve a pagare dipendenti, progetti, specialisti di ogni genere, affitti, spese di gestione... o al limite qualche comparsata sui media.

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