Di Fabrizio (del 09/01/2013 @ 09:08:40, in sport, visitato 1327 volte)
Most, 3.1.2013 15:58, (ROMEA)
Tifosi cechi spargono voci su sussidi al calcio dei Rom - ryz,
Mostecky' deni'k, translated by Gwendolyn Albert
--ilustrachni' foto--
Il giornale Mostecky' deni'k riporta che diversi tifosi dell'Accademia
Calcistica di Most hanno lanciato accuse contro la locale associazione romanì,
che secondo loro beneficerebbe ingiustamente dei contributi comunali.
L'associazione civica Aver Roma (Jini' Romové - Altri Rom), che per il
secondo anno sta prendendosi cura dei giovani nella residenza di Cha'nov che
abbiano talento calcistico, respinge l'accusa che il municipio stia "buttando un
sacco di soldi" in questo lavoro.
"E' una sciocchezza. Non riceviamo questi importi mozzafiato. Come gli altri
club sportivi, non otteniamo una singola corona più di quanto non ci sia
dovuta," dice Petr Badzo di Aver Roma.
L'associazione ha ricevuto 27.500 corone (1.089 euro) nel 2011, anno in cui
iniziò a lavorare con 80 bambini, per finanziare le sue attività e comprare le
divise. Badzo dice che è stato il maggior contributo ricevuto, a cui sono seguiti
contributi del tutto ordinari per coprire le spese di trasporto.
Scrive il giornale che la squadra di Cha'nov ha terminato terza in classifica
lo scorso campionato. Gli è stata anche conferito il titolo di "squadra più
corretta". Ai bambini viene permesso di giocare a calcio purché siano
soddisfatti i loro obblighi scolastici.
DIRITTI GLOBALIFONTE: ANDREA TARQUINI - LA REPUBBLICA | 02 GENNAIO 2013
Sul podio il maestro Sahiti, profugo dal Kosovo
BERLINO. Sono tutti bravi, strappano sempre grandi applausi e standing ovation.
E sono tutti Rom. "Suoniamo soprattutto per mostrare che non è vero che se sei
un Rom sei un criminale", è il loro motto. Girano di continuo l'Europa in
tournée, sfidando anche pericoli in situazioni come quella ungherese, dove gli
ultrà di destra e le loro milizie tipo Magyar Garda hanno le violenze razziste
anti-Rom come attività quotidiana. Di orchestre sinfoniche ce ne sono tante ma
questa è la storia di un'orchestra unica al mondo. Si chiama Frankfurter
Philharmonische Verein der Sinti und Roma. Esiste da dieci anni, fondata dal
musicista rom nato in Kossovo Riccardo Sahiti, oggi cinquantunenne. A
Francoforte, nella metropoli finanziaria della democrazia tedesca, ha base
sicura ma viaggia di continuo per portare in musica il suo messaggio
antirazzista.
"L'idea mi venne perché all'inizio, io fuggito dal Kosovo in guerra e con una
robusta formazione musicale sulle spalle, avevo difficoltà a farmi accettare
nelle orchestre", ha spiegato Riccardo Sahiti alla Sueddeutsche Zeitung,
l'autorevole quotidiano liberal di Monaco che all'orchestra sinfonica rom ha
dedicato un reportage a tutta pagina. "Ho cercato e contattato colleghi ovunque,
sapevo che musicisti sinti o rom erano attivi in orchestre importanti, dalla
Wiener Staatsoper, all'Orchestra sinfonica della MDR (la tv pubblica dell'est
tedesco) a Lipsia, all'orchestra nazionale romena".
Così nacque il progetto, nel novembre 2002 a Francoforte. Adesso a Praga hanno
appena incassato il tutto esaurito suonando, tra l'altro, il Requiem per
Auschwitz, composto da Roger Moreno, sinto di origine svizzera. "Nel maggio
scorso", narra Moreno, "lo abbiamo eseguito ad Amsterdam e la regina Beatrice ci
ha poi invitati a un caffè a palazzo reale per dare l'esempio contro i
razzisti".
Non è facile farsi avanti, neanche nell'arte, se appartieni a una minoranza mal
vista un po' ovunque. Sahiti è di buona famiglia, i genitori spesero tutto per
il suo talento musicale, gli regalarono un pianoforte, riuscirono a mandarlo a
studiare a Belgrado e poi a Mosca. Poi vennero le guerre volute dal dittatore
serbo Slobodan Milosevic, i massacri etnici e gli stupri etnici di massa della
sua soldataglia, asili e ospedali bombardati dai suoi Mig. Sahiti fuggì,
appunto. E nel 2002, appena costituita, l'orchestra sinfonica Rom tenne proprio
a Francoforte, gran pienone, il suo primo concerto.
"Aver creato l'orchestra vuol dire non perdersi di vista" spiega il violinista
Johann Spiegelberg. "Ognuno di noi o quasi ha nella memoria brutte esperienze.
Io una volta ero in una grossa città dell'est tedesco, alla fine d'un concerto,
ancora in frac, arrivai a una pompa di benzina per fare il pieno con la mia
vecchia Mercedes. Due giovinastri mi si sono avvicinati, mi hanno detto “eccolo
là, il kanak (termine razzista per straniero usato dai neonazisti ma anche da
gente comune nell'ex Ddr, dove tre generazioni vissero prima sotto Hitler poi
sotto lo stalinismo, senza cultura democratica e quasi senza ribellarsi fino
all'ultimo al contrario di polacchi o cecoslovacchi o ungheresi, ndr).
Ecco un altro kanak, bè kanak che ne dici, è sempre comodo per voi vivere bene
qui a spese nostre e a casa nostra, no?”. Io non mi lasciai provocare".
"Ogni tournée è come un'allegra gita scolastica, eppure ce la mettiamo tutta".
Musica sinfonica, classica, non folklore. E naturalmente anche musiche di opere
ispirate al mondo Rom, da Carmenal Gobbo di Notre-Dame.
"Quella per noi è una nostra eredità culturale da tramandare". Il rischio, dice Jitkà Jurkovà, attivista dei gruppi antirazzisti cèchi che li aiuta a
organizzare concerti, è che vengano visti come spettacolo esotico, e che il
messaggio politico non sia capito appieno. Ma è un rischio che per il maestro
Sahiti e i suoi orchestrali val la pena correre. Tanto da suonare il Requiem per
Auschwitz anche in Germania.
Di Fabrizio (del 07/01/2013 @ 09:08:55, in media, visitato 1628 volte)
APERTURA - ANNA CURCIO
Il libro collettivo "La lingua del colore tra Italia e Stati Uniti" Un'analisi
comparata su come cinema, fumetti e letteratura veicolano il razzismo in Italia
e negli Usa
Portare la razza al centro del dibattito italiano su razzismo e antirazzismo.
Questo il meritorio obiettivo di Parlare di razza. La lingua del colore tra
Italia e Stati Uniti a cura di Tatiana Petrovich Njegosh e Anna Scacchi (ombre
corte, pp. 318, euro 25), volume che si inserisce in un filone di studi,
ancora relativamente giovane in Italia, rivolto soprattutto a sfatare il tabù
della razza.
Dismessa dal dibattito politico e dal linguaggio di tutti i giorni da quello
che è stato definito "il paradigma antirazzista dell'Unesco" che negli anni
Cinquanta del Novecento reinterpretava il razzismo alla luce della violenza
nazifascista e riconduceva i conflitti razziali a nozioni scientificamente false
proliferate nell'ignoranza, la razza come categoria scientifica e analitica per
leggere il razzismo ha solo di recente trovato nuova legittimità in Italia e
nell'Europa continentale. In particolare grazie all'iniziativa di editori
sensibili - tra questi senz'altro ombre corte - e il contributo di studiosi e
studiose che, riprendendo gli insegnamenti di Frantz Fanon e delle correnti più
radicali del movimento per i diritti civili americano, hanno assunto nello
studio del razzismo una dimensione di attivismo volta al cambiamento.
In questo senso la razza, finalmente dismessa la sua supposta connotazione
biologico-naturalista è stata assunta come costruzione sociale capace di
ridefinirsi al mutare delle congiunture storico-politiche. È una categoria
sociale "simbolica" ricorda Petrovich Njegosh, che mostra al contempo
indiscutibili ricadute materiali pesando sulla vita dei soggetti in termini di
opportunità, condizioni di vita e aspettative. Stabilisce cioè privilegi e forme
di subordinazione che investono l'intero corpo sociale. Sebbene, dunque,
socialmente costruita, la razza si presenta come concreto dato di realtà che
occorre "nominare" per svelarne il potenziale di violenza. Così facendo diventa
possibile rovesciare l'idea ancora oggi dominate del razzismo come vizio
ideologico o patologia sociale legata all'ignoranza, da "curare" attraverso
l'istruzione e l'educazione.
Il volume, all'interno di un approccio teorico eterogeneo complessivamente
riconducibile all'americanistica, riflette sulle significazioni del termine
razza tra Italia e Stati Uniti. Più precisamente, all'interno di una dimensione
comparata assume la traduzione tra sistemi linguistici e culturali differenti
come punto d'osservazione privilegiato per cogliere i punti di contatto tra un
paese storicamente attraversato dal razzismo come gli Stati Uniti e l'Italia che
dietro la vulgata di un "colonialismo minore" e degli "italiani brava gente" ha
per lungo tempo rimosso dalla narrazione nazionale il passato colonial-razzista.
I saggi - che si occupino di letteratura, fumetti, cinema, poesia, linguaggio
romanzesco o più complessivamente della cultura di massa - si concentrano sulla
funzione svolta dal linguaggio nella strutturazione delle relazioni sociali e
dell'identità razziale in Italia. In questo senso, mostrano la razza in
traduzione come strumento di mediazione culturale, come dispositivo di
addomesticamento che riporta personaggi, linguaggi e modi di fare all'interno di
stereotipi riconoscibili nel nostro paese (è il caso di alcune traduzioni di
poesia afroamericana, del doppiaggio cinematografico o della reazione italiana
al fenomeno Obama che ha dato origine al volume). Nello stesso tempo vengono
evidenziati esempi storici che testimoniano una continuità nella costruzione del
racial thinking tra Italia e Stati Uniti. Il Dictionary of Race or People che
per tutta la prima metà del Novecento ha orientato le scelte statunitensi in
materia di immigrazione e naturalizzazione, sulla base di una precisa
differenziazione razziale che insisteva sull'inferiorità degli europei
meridionali e orientali, trovava fondamento "scientifico" nella teoria delle
"due Italie" di Alfredo Niceforo e negli studi della scuola italiana di
antropologia positivista da Sergi a Lombroso.
L'intera storia italiana e la costruzione della sua identità nazionale, sin
dagli anni immediatamente successivi all'unificazione, è dunque opportunamente
reinterpretata in relazione alla categoria di razza, intesa precisamente come
supremazia "inalienabile" della bianchezza assunta quale principio dell'ordine
sociale. È "Il capitalismo razziale moderno", per riprendere l'efficace
definizione di Cedric Robinson che, dentro la più complessiva costituzione
coloniale della modernità capitalistica e della costruzione degli stati
nazionali, funziona, anche in Italia, come dispositivo strutturante della
narrazione nazionale.
Peccato che il volume trascuri quasi del tutto questo aspetto. La costruzione
dell'italianità e i connessi processi di "sbiancamento" non vengono infatti qui
legati al piano più complessivo dei rapporti sociali e produttivi, cosicchè la
razza è assunta esclusivamente "come rappresentazione culturale, linguistica e
identitaria". Viene cioè perso di vista il nesso inscindibile tra classe e razza
che connette il razzismo e i processi di razzializzazione con i rapporti di
produzione e le loro trasformazioni storiche. E non si tratta, in questo senso,
di assumere un punto di vista economicista, né di rimandare a un approccio
deterministico; al contrario tale sguardo permette di ripensare i rapporti di
produzione a partire dal processo di razzializzazione insistendo sulla loro
inevitabile "articolazione" o "surdeterminazione" nel contesto sociale
capitalistico. Si tratta, seguendo Marx, di analizzare il capitale come rapporto
sociale e fare della lotta al razzismo un progetto complessivo contro lo
sfruttamento e dunque di liberazione.
È la costruzione di un comune terreno di lotta fra coloro che sono "razzialmente
neri" e la più ampia composizione del lavoro vivo contemporaneo. E fare,
riprendendo l'insegnamento delle lotte anticoloniali e di quelle antirazziste in
America, degli studi su razza e razzismo, non un progetto di educazione
universale, ma un terreno di militanza politica per la trasformazione radicale.
Un deputato di Alba Dorata guida il secondo assalto in pochi mesi contro un
quartiere abitato da rom nel comune di Etolikon. La polizia arresta quattro
nazisti e ne ricerca altri nove.
Continuano gli attacchi degli squadristi di Alba Dorata contro gli immigrati e
le minoranze presenti in Grecia. L'ultimo assalto risale a venerdì, nella
località di Etolikon, nell'ovest del paese. Una settantina di persone, tra cui
alcuni abitante del piccolo comune, con il volto coperto da passamontagna o
comunque incappucciati, hanno attaccato un quartiere abitato in prevalenza da
rom, ed hanno incendiato sei case e quattro automobili. Non si ha notizia di
feriti nell'attacco, anche perché all'arrivo della squadraccia neofascista la
maggior parte degli abitanti del quartiere aveva abbandonato le proprie case.
A fornire la scusa ai neonazisti per il pogrom una lite, avvenuta poco prima,
tra due abitanti del paese e due rom, durante la quale un 24enne era rimasto
ferito. Poco dopo la Polizia aveva arrestato e portato in commissariato i due
cittadini di origine rom. Ma il tam tam aveva portato decine di persone davanti
al commissariato, e presto il presidio si è trasformato in spedizione punitiva.
Molti abitanti di Etolikon tendono a sminuire la gravità di quanto accaduto,
definendola una questione locale, una resa dei conti interna al piccolo centro.
Ma molti testimoni affermano che all'aggressione hanno partecipato parecchi
militanti di Alba Dorata, tra questi anche un deputato della formazione
neonazista al Parlamento di Atene, Konstantinos Barbarusis, da tempo attivo
contro i rom. Il che fa pensare che il pogrom fosse stato organizzato in
precedenza, in attesa di qualche occasione per poterlo mettere in pratica. Nel
mese di agosto, nello stesso comune di Etolikon, si era già verificata
un'aggressione di massa contro il quartiere abitato dai rom, e quella volta a
parteciparvi furono addirittura 200 persone, furono usate anche armi da fuoco e
ci furono 5 feriti tra gli aggrediti. Al deputato squadrista Barbarusis il
parlamento aveva già deciso di ritirare l'immunità parlamentare dopo che
nell'autunno era stato riconosciuto mentre partecipava ad una delle tante
aggressioni contro i venditori ambulanti di cui Alba Dorata si è resa
protagonista negli ultimi mesi.
Ed oggi la polizia greca ha arrestato quattro dei responsabile del pogrom anti
rom di venerdì a Etolikon, e ha avvertito che altri nove potrebbero essere
fermati nelle prossime ore.
Leggevo a Capodanno un articolo su MicroMega di
Barbara Befani: Quel che non si dice della Montalcini, in cui la tesi
grossomodo era che sulla stampa e sugli onnipresenti social network non ci si
dimentica mai di indicare se l'autore di una malefatta sia (a torto o
ragione) di etnia-religione ebraica, ma se si tratta della morte di un premio
Nobel da tutti osannato e rispettato (se escludiamo Grillo, Storace e gente di
solito poco politically correct), nessuno ricorda che questa premio Nobel,
scienziata, senatrice a vita e altro ancora era non solo di origine ebraica (per
quanto atea), ma in più riprese aveva pagato il suo essere ebrea.
Noto dai commenti (i commenti sono sempre indispensabili, anche quando si
ha niente da dire) che da una parte c'è la rimozione del fatto che IN
QUESTO CASO la sua origine sia scomparsa, dall'altra (i commentatori non
sono tenuti a rispondere nel merito, sono un po' come il sale nella minestra,
basta non abbondare) non sapendo che dire, si ritorni al vecchio argomento
(ho detto vecchio, non che sia giusto o meno) dei crimini israeliani.
Non prendete la mia chiusa come irriverenza verso un morto, ma mi
torna in mente un fatto di cronaca di un paio di mesi fa:
Audace colpo dei soliti ignoti - cioè quando c'è un furto spesso e sovente
appare la nota "si sospetta che il furto sia stato commesso da un gruppo di
zingari..." In quel caso dove forse i ladri sarebbero potuti risultare
simpatici, quella nota STRANAMENTE mancava.
Di Fabrizio (del 05/01/2013 @ 09:01:24, in sport, visitato 1344 volte)
... ma soprattutto un BRAVO al Milan. Per due ragioni (le stesse che mi
hanno spinto a scrivere COCCI):
il razzismo non è un problema che riguarda solo chi ha una
pelle, una religione, diversa. Coinvolge tutti: neri e bianchi,
zingari e gagé;
una squadra, un collettivo, una società, non sono tali solo
quando c'è da dividere soldi e gloria, ma soprattutto nei
momenti difficili. Lo sono anche e soprattutto per difendere lo
stare assieme, che il bersaglio sia il fuoriclasse o un
raccattapalle. E si deve reagire ASSIEME.
E dato che non siamo ancora in par condicio, trovo che Renzo Ulivieri,
presidente dell'Assoallenatori,
centri perfettamente il punto: "E' stata una cosa importante, credo che
vada fatta anche nelle partite ufficiali. Credo che al di là della politica si
debba cercare di riappropriarsi del nostro 'mestiere' di cittadini. Purtroppo lo
abbiamo dimenticato, c'è una deriva ma tutti dovremmo chiederci: 'e io cosa ho
fatto per evitarla?'".
Basterà questo soprassalto di civiltà a contrastare secoli di malcostume?
Leggo:
Abbiamo ricevuto numerose mail di persone che confondono il sito del Pro
Patria Club con quello della società. L'oggetto delle mail è per tutti lo
stesso: come avere il rimborso per la gara interrotta.
In queste mail si coglie occasione per esprimere giudizi su quanto accaduto e
spesso ci si lascia un po' andare. Chiudiamo gli occhi, ma non su tutto, e
pubblichiamo quanto scritto da Milena T..... che scrive testuali parole:
[...]
La sottolineatura è mia. Le "testuali parole" le trovate sul sito del
Pro Patria Club.
Enerida Isufi, 24 anni, vive Coriza. Una volta completati gli studi a Tirana in
due facoltà ha avviato la ricerca di un lavoro. Ha bussato a tante porte per
cercare lavoro nel suo profilo. E' laureata in relazioni pubbliche e
comunicazione, così come in diritto.
Enerida si è sacrificata molto per proseguire gli studi nelle due facoltà, ha
dovuto affrontare i pregiudizi e ha scavalcare muri, ma è riuscita. Però, a 24
anni, nessuno lo accetta. Io so perché: "Sono stati stabiliti stereotipi e pregiudizi in relazione a questa minoranza. Questa è una forma di discriminazione
dei casi più realistici, non capita solo a me, ma che è subita dalla maggior parte dei giovani
rom laureati", dice. Enerida è orgogliosa di appartenere alla
comunità rom. Mostra i casi specifici in cui si sono verificati rifiuti. La
ragazza si è assunta una grande responsabilità. Sta rompendo tabù e
stereotipi razziali creati per la comunità rom in Albania. Enerida ora vede la
vita come una doppia sfida di fronte ad un mercato del lavoro altamente
competitivo, ma anche per la sua origine. Non intende nascondersi o soprassedere,
vuole che essere rom sia per lei uno scudo e non una barriera.
Mentre si cammina sulla strada che è la stessa di tutti, ricorda che
tutti ignorano, e nemmeno prendono la briga di conoscere. Enerida è in realtà
una ragazza da ammirare. E 'orgogliosa della comunità di cui fa parte, vuole che
cadano i pregiudizi e non chi vi è sottoposto.
Di Fabrizio (del 03/01/2013 @ 09:09:34, in lavoro, visitato 1898 volte)
di Daniel Reichel e Giulio Taurisano
"Per trent'anni non ho mai lavorato. Niente. Ora che ho avuto la possibilità di
farlo, devo ammettere che mi manca. Molto". Giovanni (lo chiameremo così perché
ha chiesto di non mettere il suo nome vero) è un rom napoletano, con alle spalle
una vita in roulotte tra Napoli, Milano, Genova e Torino. Parla piano, con
lunghe e pensierose pause e l'inconfondibile accento partenopeo. La sua vita
nell'ultimo anno è cambiata radicalmente: ha trovato un lavoro, una casa e
guarda con velata fiducia al futuro.
Ma andiamo con ordine. Giovanni è arrivato a Torino con la moglie e le due
bambine piccole da oltre un anno. Vivono in camper e la situazione economica è,
usando un eufemismo, precaria. C'è la crisi e i soldi languono. "Vendevamo rose
in via Garibaldi ma poca roba. Oramai si fa attenzione ad ogni singolo euro".
Un aiuto, nella difficoltà, arriva dall'associazione Idea Rom Onlus. Costituita
nel 2009 da donne Rom delle comunità presenti nel torinese, Idea Rom lavora con
le diverse realtà per promuovere l'integrazione sociale. Tra le tante
iniziative, l'organizzazione ha dato il via nell'ottobre 2011 a "We Can", un
progetto realizzato per favorire l'inserimento nel mondo del lavoro per Rom
privi di occupazione (finanziato dalla Fondazione Compagnia di San Paolo).
Diciotto sono state le borse di lavoro attivate e quattro persone sono state
inserite in modo stabile nelle rispettive aziende o realtà lavorative. Un
successo vista anche la situazione italiana dove il precariato sembra quasi un
privilegio.
"Uno degli scogli da superare - mi spiegano le attiviste di Idea Rom - è la
diffidenza di uomini e donne verso un mondo che li ha abituati a non sentirsi
all'altezza. Talvolta la segregazione ha portato molte di queste persone a
immedesimarsi nella condizione di subumani, una condizione imposta dall'esterno,
dalla società". Questa svalutazione di sé nasce sia dalla crescente intolleranza
(si veda il pogrom della Continassa del dicembre 2011) sia, purtroppo, da un
atteggiamento eccessivamente paternalistico di alcune istituzioni. Per dare una
svolta a una situazione decisamente oltre il sostenibile, sembrerebbe
preferibile adottare un approccio che responsabilizzi i Rom di fronte ai loro
diritti e doveri. Dunque non offrire dei servizi emergenziali ad hoc ma spiegare
alle diverse comunità come usufruire dei servizi accessibili ad ogni cittadino,
senza differenziazioni.
Prigioniero di una sensazione di inadeguatezza, Giovanni in prima battuta
rifiuta la proposta di Idea Rom di lavorare come apprendista per una cooperativa
che lavora nei cimiteri. "Non avevo mai lavorato e non credevo di essere in
grado di alzarmi tutti i giorni e farmi otto ore consecutive. In un cimitero
poi!". Non sarebbe la prima volta che Giovanni rifiuta un lavoro. "Quando ero
ragazzino mi avevano offerto un lavoro da portinaio a Napoli ma non mi sembrava
una vita adatta a me". Vendere penne, raccogliere ferro, fare l'elemosina e
qualche furtarello sono le occupazioni principali di Giovanni. "Ora mi rendo
conto che quella non era vita. Tanti sacrifici pericolosi, torni a casa con la
paura degli sgomberi. Sei sempre in movimento". Nelle sue parole si legge il
rammarico per aver perso anni della sua vita, rincorrendo situazioni che oggi
gli sembrano insostenibili. Non c'è condanna né autocommiserazione, piuttosto la
consapevolezza di aver lasciato per strada delle possibilità che oggi invece
vuole cogliere. "Per fortuna ho cambiato idea sul lavoro al cimitero e ho
accettato. Mi sono detto, posso anche fallire ma almeno ci devo provare".
Non so quanti di noi non si farebbero remore nel decidere di lavorare in un
cimitero. O come direbbe il ministro Fornero, sarebbero choosy nel dover
affrontare un'esumazione. "Non volevo toccare i defunti all'inizio e ammetto che
stare al cimitero quando scendeva il buoi mi faceva paura", ricorda Giovanni.
Poi, gradualmente, tutto entra nella routine quotidiana, ci si abitua e anche un
luogo apparentemente poco ospitale per i vivi, diventa un normale posto di
lavoro. I datori di lavoro apprezzano la dedizione e l'impegno di Giovanni tanto
da nominarlo capo di una squadra. Gli affidano le chiavi del cimitero e si
fidano di lui. "La prima busta paga l'ho incorniciata - racconta sorridente
-
certo quando ho visto quanto trattengono di tasse, ho cominciato a capire perché
la gente si lamenta del fisco".
Non è solo il primo impiego a cambiare la quotidianità di Giovanni. Con l'aiuto
dell'associazione Idea Rom, con la moglie e le bambine riesce a sistemarsi in
una casa. Un'altra prima volta per lui. "I miei parenti hanno delle case giù a
Napoli ma io ho sempre vissuto in roulotte, con tutta la famiglia". All'inizio
le mura dell'appartamento, lo soffocano. "I primi giorni non riuscivo a dormire.
Mi mancava l'aria. Sapevo però che era la cosa migliore per la mia famiglia e
piano piano mi sono abituato". Quando gli chiedo cosa gli manca del suo passato,
risponde la famiglia. "Ero abituato ad avere attorno a me tutti i parenti e mi
piaceva questa sensazione di vivere tutti sempre a contatto. Comunque non
tornerei indietro. Questo è il futuro che voglio per le mie figlie".
Il suo contratto è finito a settembre e a dicembre dovrebbe rinnovarglielo.
Giovanni ha trovato una sua dimensione. "Sento sempre i miei colleghi, il mio
capo. Siamo rimasti in contatto e mi chiedono sempre quand'è che torno a
lavorare con loro". Lui aspetta fiducioso con la volontà di andare avanti sulla
nuova strada che si è costruito.
Di Fabrizio (del 02/01/2013 @ 09:07:00, in Kumpanija, visitato 1488 volte)
Da ateo vorrei fare una domanda a chi ne capisce
più di me: esiste una differenza tra religione e credo? (i fondamentalisti
possono astenersi dal rispondere)
Ho un ricordo confuso di un missionario, una foto
che ritrae un giovane Gasparri (sì, proprio lui!) in un campo nomadi della
capitale. I missionari che ho conosciuto, credo fossero di una chiesa
concorrente, all'inizio in giacca e cravatta, poi hanno capito che l'abito da
lavoro andava cambiato. La testa no, quella era più difficile da cambiare.
Era difficile, perché c'è chi si avvicina ai Rom e
Sinti (o meglio, a quelli di loro che stanno oggettivamente male) pensando di:
avere di fronte una massa di
bambini troppo cresciuti da rieducare (esiste anche la versione
"missionario da combattimento": quello che vuole insegnare loro
come si deve comportare uno zingaro);
avere comunque a che fare con
gente che vuole assomigliare a loro, pensare come loro, parlare
come loro.
Senza calcolare che:
Zingaro non è sinonimo di
deficiente. Se qualcuno vuole assomigliare, pensare, parlare
come un missionario, è in grado di impararlo anche da solo;
ma si sa che al missionario piace
credersi indispensabile.
I Rom e i Sinti che stanno oggettivamente male,
chiedono una risposta IMMEDIATA ai loro bisogni. Il missionario offre per forza
soluzioni a lungo termine; e ce n'è bisogno, PER DIAMINE, ma occorre per forza
instaurare un DIALOGO, o un codice condiviso, altrimenti non si va da
nessuna parte.
Allarghiamo un momento il discorso: sento sempre
di più parlare di disaffezione alla politica: ecco... diciamo che io mi
fiderei poco di qualcuno che vedo una volta ogni uno-sei mesi, ma è talmente
innamorato della mia causa e della mia miseria da voler parlare e progettare
(progettare significa pensare) al posto mio. Un po' come essere soci: a
me la miseria e a lui i discorsi.
Ieri notte mentre in via Idro festeggiavamo
assieme un ennesimo san Silvestro, erano questi i pensieri che mi guastavano la
festa. Esattamente
un anno fa avevo scritto una cronaca piena di speranze ma, a parte abbracci,
bevute e scherzi, quest'anno si sentiva la differenza. Nessuna delle promesse
fatte si è realizzata in questo anno e la gente è stufa sino alla disperazione.
E' stufa e vede complotti e nemici ovunque. Non ci si fida dei vicini con cui si
è trascorsa una vita, ci sono genitori che di certe cose non parlano neanche coi
loro figli. Difatti quest'anno ognuno ha festeggiato per conto suo, mancava il
solito corteo di visite. Se questa è la situazione interna, che fiducia può
esserci verso chi è esterno?
Tutta la fatica di anni nel progettare ASSIEME è a
rischio, non tanto per il valore di quello che è stato raggiunto, ma perché le
due mentalità che non si sono incontrate potrebbero portare ad un risultato del
tipo:
i missionari insisteranno (fuori
campo) su quello che ora potrebbe diventare il LORO progetto;
e se pure questo si realizzasse
(in tempi biblici, suppongo) non ci sarà più nessuno degli
abitanti;
perché quello che attualmente è un
mantra (IL SUPERAMENTO DEI CAMPI) senza fondi a disposizione, si
sta realizzando gratuitamente rendendo i campi superstiti ancora
più invivibili del passato.
Poi, come in ogni credo, ci saranno (anzi, ci sono
già) guerre di religione: i Rom sfiduciati che tornano ai vecchi atteggiamenti,
associazioni che se la prendono col comune, comune che se la prende con qualcuno
dei due. Ecco, questo sì mi ricorda i bambini, quando in Idro facevo l'animatore
e non fare picchiare tra di loro le diverse fazioni era già un successo.
Ma sono passati vent'anni buoni, e nel mio doposbornia sto pensando di essere ancora allo stesso punto di allora. Non è neanche l'alcool: è da ottobre che ho cominciato a mandare affanculo a destra e sinistra. Adesso non saprei dove voltarmi, colpa dei vaffanculo, ma soprattutto di aver contribuito a mettere in moto tutto 'sto casino, senza sapere risolverlo. Servirebbero amici, dentro e fuori campo, ma amici veri. O che si mantenesse, ogni tanto, qualche impegno.
Di Fabrizio (del 01/01/2013 @ 09:01:35, in Italia, visitato 1577 volte)
Visto i tanti discorsi che si rincorrono, saprete cosa intendo per AGENDA.
Se non fosse così, intendo una serie di obiettivi su cui focalizzare lavoro
ed attenzione, scelti tra i tanti problemi che sono da affrontare.
Intendiamoci, la lista non è esaustiva (e può anche non essere condivisibile),
ma da un lato credo che vadano trovate delle priorità, e dall'altro soluzioni
che siano praticabili, possibilmente non vedano sprechi di fondi pubblici e
vadano in direzione della partecipazione degli interessati (che attualmente è
del tutto marginale). Che altro? Individuerei soluzioni che non siano
settoriali, o ghettizzanti, ma che possano essere condivisibili (e vedano il
contributo) anche della cosiddetta società maggioritaria, quei gagé con cui
bisognerà trovare un modo di convivere.
La parte piccante, in ogni ricetta, va servita a fine cottura: LA
PARTECIPAZIONE. In queste settimane c'è stato un rincorrersi di liste e
cartelli elettorali, candidati che fanno e disfano alleanze, programmi che
sembrano stati scritti 20 anni fa', e tutto ciò sta persino facendomi perdere la
voglia di votare. Più si adopera la retorica di sentire la GGENTE, più si dice
che siamo sull'orlo del burrone ed occorre lo sforzo di tutti, e più le
decisioni vengono prese in club ristretti ed inaccessibili per chi non ha in
tasca la tessera o la carta di credito giuste.
Non vorrei dire (ma lo dico lo stesso, perché a natale siamo tutti più
buoni, e natale è passato), ma... credo di aver già vissuto momenti simili:
i Rom e la loro situazione sempre più disastrosa, che diventano un trampolino di
lancio per le solite consorterie, chiuse nella loro inaccessibilità e vogliose
di rappresentare tutta la popolazione.
Da MAHALLA auguri di uno splendido 2013 (o che almeno sia meglio del
2012)!
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