Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
da
Stradanove
COLUM MCCANN È NATO A DUBLINO NEL 1965 MA VIVE DA ANNI A NEW York. E’
autore de “I figli del buio”. “La legge del fiume”, “La sua danza” (sul grande
ballerino Nureyev). Abbiamo parlato con lui del suo ultimo libro, “Zoli”, e
della vita e della cultura dei rom.
La prima riflessione che facciamo, dopo aver letto il suo libro, è che
l’ignoranza genera il pregiudizio- sappiamo molto poco del mondo dei rom. E
tuttavia che cosa c’è in comune tra il mondo che Lei rappresenta e gli zingari
che vediamo chiedere l’elemosina sui treni della metropolitana, che ci
infastidiscono finché non diamo loro dei soldi?
Osservazione fantastica - è vero, succede anche a me, sono stato nelle stazioni
della metropolitana, sui treni, e mi sono sentito innervosito da questi zingari
che ti assillano. Che rapporto c’è tra di loro e la storia di Zoli? C’è un salto
significativo da fare, ma dobbiamo capire che cosa c’è dietro quegli occhi, la
storia profonda che c’è dietro di loro. Ho iniziato a capire qualcosa di questo
dieci anni fa, quando sono sceso nelle gallerie della metropolitana di New York
per scrivere il romanzo “I figli del buio”. Pensavo che la gente senza tetto
fosse così per sempre. Pensavo che fossero nati senza casa, non mi ero mai fatto
tante domande. E invece non è vero, c’è una storia profonda dietro di loro.
Se vogliamo che il mondo sia un posto migliore in cui vivere, dobbiamo cercare
di capire la storia dei bambini che chiedono l’elemosina sul treno. La loro
storia è quella di Zoli. Anche io ero pieno di pregiudizi: quando sono andato a
fare ricerche in Slovacchia, ho nascosto passaporto e soldi, temevo di essere
derubato. Alla fin fine ero io che cercavo di derubarli, chiedendo loro della
loro storia. Certo, una sola vicenda, quella di Zoli, non rappresenta quella di
tutti. I rom sono dai 10 ai 12 milioni - ce ne sono 2 milioni in Romania,
300.000 in Francia. E’ un numero straordinario. Vengo da un paese, l’Irlanda,
dove ci sono 5 milioni di abitanti- gli zingari sono due volte tanto. Non ci
sono romanzi che rappresentino l’Irlanda nella sua interezza, forse l’”Ulisse”
ma, citando Stephen Dedalus, “me ne andrò da qui e foggerò nella fucina della
mia anima la consapevolezza non creata della mia gente.” Chiunque può pensare
che un romanzo rappresenti un paese, ma non è possibile. Dobbiamo essere aperti
a molte storie. Dobbiamo chiederci perché odiamo i rom. Io sono un romanziere,
il mio compito è quello di fare delle domande e forse con il mio romanzo i
lettori guarderanno i modo diverso gli accattoni sulla metropolitana. Almeno lo
spero.
Rom, zingari, gitani: qual è la parola giusta da usare? E sono divisi in
gruppi, hanno tradizioni diverse secondo il luogo di provenienza?
La parola giusta è “rom” e significa “una persona”, “roma” vuol dire “la
gente”, “romany” è l’aggettivo e indica anche la loro lingua. Sono le parole che
usano loro per riferirsi a se stessi. Le altre due parole, zingaro e gitano,
sono dei peggiorativi. Originariamente venivano tutti dall’India e hanno avuto
sorti diverse, alcuni sono diventati nomadi, altri no. I rom italiani risalgono
al secolo VI e non sono nomadi, vivono nelle case, sono italiani. All’interno
della comunità rom ci sono tante differenze quante ce ne sono negli altri
popoli, sono solo molto più poveri di altri. E sono moltissime le persone note
che avevano origini rom: Pablo Picasso e Charlie Chaplin, Yul Brynner e Rita
Hayworth.
Come ha iniziato ad interessarsi ai rom? E’ stato dapprima un interesse
generico e poi è venuto a sapere della poetessa polacca Papusza che è in parte
dietro il personaggio di Zoli?
No, non avevo alcun interesse per i rom, proprio nessuno. Ed ero ignorante per
quello che li riguardava. Avevo impiegato quattro anni a scrivere il romanzo su
Nureyev, avevo fatto molte ricerche, sulle guerre in Russia, sull’essere un
ballerino gay - per me era stato uno sforzo ginnico dell’immaginazione ed ero
stanco. Volevo andare a casa e scrivere un romanzo facile. Poi mi è venuta tra
le mani la foto della poetessa Papusza: era molto bella, la sua era una storia
interessante…Ero spaventato da quello che mi si prospettava eppure sentivo che
dovevo farlo. Solo dopo è diventata una faccenda di coscienza sociale.
Che cosa c’è di vero e che cosa c’è di fittizio nel personaggio di Zoli?
E’ vero l’essenziale, che fosse rom, che fosse una poetessa, che fosse
famosa e che fu esiliata dal suo popolo. Il resto naturalmente è fittizio.
A Zoli sembra inevitabile sia il donare la sua musica perché tutti la
conoscano, sia accettare la punizione della sua gente- perché?
Direi che si tratta dell’accettazione del destino, qualunque forma esso
prenda. I rom sono fatalisti. E lei fu bandita dalla sua gente perché era una
profetessa: aveva capito che la storia deve essere scritta.
E’ in parte Lei stesso il personaggio di Stephen Swann, metà irlandese e metà
slovacco, attratto dal mondo rom e innamorato di Zoli?
Sì, è in parte me stesso. Per quello è metà irlandese, volevo capirlo. Swann
non sa del tutto chi è- decisamente sì, Swann è in parte me stesso.
Che cosa c’era dietro la politica comunista di integrare gli zingari in una
società ordinata?
Dietro lo sforzo per l’integrazione c’è il profondo idealismo comunista.
Dimentichiamo spesso che, pur essendo un sistema che ha avuto un fallimento così
spettacolare, pur avendo la responsabilità di così tante morti, alle sue origini
aveva una spinta di forte idealismo. Così attraverso gli zingari, vittime da
sempre, volevano mostrare il valore del socialismo. E’ stato un po’ come il
movimento di rivalutazione orgogliosa “Nero è bello” negli anni ‘70 in America.
Gli zingari, a loro volta, si sentivano valorizzati- anche oggi sono molti
quelli che hanno nostalgia del comunismo: avevano un lavoro, assistenza medica,
c’era un grosso tentativo di integrazione. Purtroppo poi finirono per
distruggerli, come tutti gli altri sistemi. Ma all’inizio ai rom sembrava il
meglio che potesse loro capitare.
Quello che nel libro non è chiaro è di che cosa vivessero.
La comunità di Zoli era formata da musicisti ambulanti e vivevano di quello,
della loro musica. Gli altri facevano lavoretti qua e là, quello che capitava,
dove capitava. Vivevano di quello che la gente dava loro.
Li descrive come una comunità molto chiusa: come è riuscito a farsi accettare
e riuscire a parlare con loro?
Nella situazione moderna, in Slovacchia, sono abituati a parlare con
estranei, poliziotti, assistenti sociali, medici. Dapprima pensavano fossi uno
di loro. Ad un livello più semplice il fatto è che sono andato là e ho dormito
con loro, nelle baracche: sono rimasti molto sorpresi che qualcuno volesse
fermarsi a dormire con loro. Quanto tempo ho passato con loro? Un totale di
circa due mesi, in genere circa quattro giorni con ogni gruppo, in Slovacchia e
Ungheria.
E’ recente la notizia della sterilizzazione di donne rom che hanno dato
l’autorizzazione sotto gli effetti dell’anestesia: dopo gli sforzi per
l’integrazione come si considera questa violazione dei diritti umani?
Viviamo in un mondo complicato: in Svizzera portavano via i bambini ai genitori
rom, in Slovacchia li inserivano nelle scuole per ritardati. Il processo di
integrazione è fallito, per la loro ignoranza, per la nostra ignoranza, per
incapacità di fare e rispondere a delle domande, per inabilità ad essere
empatici. Accade in tutta l’Europa di oggi. La parola che i rom usano per
l’Olocausto è porraimos. Loro dicono che porraimos prosegue ancora oggi per
loro- ed è finito nel 1945!
Che cosa ha apprezzato di più nella comunità rom?
La loro socievolezza, la facilità con cui offrono amicizia, la loro
curiosità che li porta a fare tante domande. Quello che è necessario è che
imparino a dire la loro storia in una maniera che abbia rilievo.
Secondo Lei, qual è il futuro della lingua rom, delle loro tradizioni, della
loro musica?
Penso che la loro cultura diventerà più forte con le nuove iniziative, con
le università in cui si fanno ricerche e si insegna la lingua e la cultura rom:
ce n’è una a Trieste, una nel Texas…La lingua è difficile, sarà un lavoro lungo,
ma come si fa a dire? Negli anni ‘50 sembrava impossibile che si arrivasse ad
accettare i gay. Forse tra venti o trent’anni saranno in molti a vantarsi di
essere per tre quarti rom!
Di Fabrizio (del 01/12/2007 @ 08:41:00, in blog, visitato 1775 volte)
Da
Nazione Indiana
di Laura Nobili e Imma Tuccillo Castaldo
Pochi giorni fa, ai primi di novembre 2007, l’Alto Commissariato dell’Onu per
i Diritti Umani ha richiamato l’Italia per il mancato rispetto delle norme
internazionali in materia di
diritti delle popolazioni rom. In particolare, sono state messe sotto accusa
le azioni di sgombero forzato degli insediamenti ‘legali’, oltre che di quelli
abusivi, a Roma e in alcune altre città italiane. In questi insediamenti
vivevano comunità ‘storiche’ rom, insieme ad altre di più recente immigrazione.
Si tratta di una vera e propria ‘ripulitura del territorio’ ai fini del
decoro pubblico, come sembra sostenere il sindaco Walter Veltroni. La
condanna dell’Onu segue quella dell’aprile 2006, sancita dal Comitato Europeo
per i Diritti Sociali (CEDS): con questa l’Italia viene accusata di
sistematica violazione del diritto delle popolazioni rom ad un alloggio
adeguato, in riferimento all’art. 31 e art. E della
Carta Sociale Europea Revisionata .
Il progetto di ‘restauro’ del centro e delle periferie romane depresse è stato
inaugurato il 22 febbraio 2007. Le agenzie di stampa hanno battuto la notizia
del lancio delle operazioni di sgombero, distruzione indiscriminata e
‘delocalizzazione’ dei cittadini rom. Questa è la conseguenza dell’azione
pianificata dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza
pubblica di Roma, l’organo collegiale di consulenza dell’ex Prefetto
capitolino, Achille Serra.
Nel marzo 2007, per rafforzare le politiche di eugenetica urbana, il Ministero
dell’Interno e l’Associazionie Nazionale dei Comuni Italiani hanno siglato il
Patto per la Sicurezza, a cui sono seguiti, pochi mesi dopo, a
maggio, i Patti per Roma sicura e per Milano sicura,
imitati con poche varianti da altri capoluoghi di provincia.
Il Patto per Roma Sicura, che prevede notevoli contributi finanziari da parte di
Regione, Provincia e Comune, oltre che l’indispensabile collaborazione della
Prefettura, promuove «interventi risolutivi delle esigenze di contenimento delle
popolazioni senza territorio, nonché inclusione sociale, attraverso,
rispettivamente: la costruzione di quattro villaggi della solidarietà in aree
attrezzate in grado di ospitare circa 1000 persone – ciascuno da realizzare su
aree comunali o demaniali – disciplinati da specifici regolamenti di gestione;
programmi di abbattimento di insediamenti abusivi, con successiva
riqualificazione delle aree liberate».
Il primo risultato conseguito dal varo del Patto per Roma Sicura è stata la
legittimazione della sistematica distruzione dei beni materiali, già esigui, di
migliaia di persone, confermando la propensione del centro-sinistra veltroniano
a spacciare per umanitarismo e solidarietà il mero tentativo di cavalcare la
deriva populista dell’Italietta odierna, priva di nerbo e di idee politiche.
Si conferisca pure il beneficio del dubbio e si consideri come fine di questi
sgomberi forzati la creazione di una città ‘vivibile e disinfettata’ e un
migliore destino per gli sgomberati; ci si interroghi allora sul significato e
sull’efficacia dell’integrazione ‘modello Roma’.
Ora, se Veltroni & Co. dovessero spuntarla, I villaggi della solidarietà
potrebbe diventare un bellissimo titolo per un film di fantascienza a carattere
sociale, e, senza troppi sforzi di immaginazione, Quentin Tarantino potrebbe
metterlo in scena: da una parte, villaggi collassati di poveri umani da salvare
e, dall’altra, un collegio di saggi che sputa direttive e impartisce ordini
all’armata aliena degli operatori cosmici. Allora sì, il film sarebbe perfetto,
candidato al festival del cinema perbenista di veltroniana invenzione: una
sceneggiatura impeccabile in cui la Società dello Spettacolo e il Circo del
Sociale si confermano i più efficaci strumenti di visibilità politica per
associazioni, partiti e ominidi portaborse e portatessera. I villaggi della
solidarietà non sarebbero nient’altro che dei megacontenitori per merce umana,
ora sparpagliata su tutto il territorio romano: un concentrato di esseri umani
rigettato su qualche chilometro quadrato. Ecco che ‘Roma città aperta’ si
trasfigura in Rom città chiusa (è il titolo di un documentario
prodotto nel 2001 da Manfredi, Marchetti e Pasquini) e l’emarginazione sociale
si fa topica oltre il Raccordo Anulare, alla faccia della tanto agognata
integrazione.
I media non utilizzano tutti i dati che hanno a loro disposizione: per
esempio, sono in pochi a ricordare che dei circa 160.000 rom censiti in Italia,
il 60% sono in realtà cittadini italiani. La maggior parte dei giovani di terza
e quarta generazione sono nati e cresciuti in Italia; se si sono trasformati in
cittadini stranieri o in cittadini invisibili, apolidi de facto, è soltanto a
causa del bizzarro funzionamento di un preciso dispositivo di legge, quello cioè
sulla cittadinanza (Legge n. 91/92). Prima di riuscire a
garantire il diritto, questa legge crea infatti delle assurde quanto
inestricabili trame burocratiche, in cui restano impigliate le vite di migliaia
di persone.
Entrata in vigore nel 1992, con essa si stabiliscono le modalità di
naturalizzazione per le persone nate in Italia da cittadini stranieri.
Riassumiamo. Lo straniero nato in Italia acquisisce la cittadinanza italiana
solo nel caso in cui ‘vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino
al raggiungimento della maggiore età’ e dichiari di volerla acquisire entro
un anno a partire da questa data. Sembrerebbe, quindi, che ‘manifestare la
propria volontà’ possa bastare al soggetto richiedente per poter ottenere la
cittadinanza. Contrariamente a qualsiasi logica, però, il Decreto di Attuazione
(DPR 572 del 1993) relativo a quella disposizione dispone che il soggetto, oltre
a dover manifestare questa volontà, debba altresì dimostrare di aver risieduto
legalmente sul territorio; ma il soggetto potrà dimostrare di risiedere
legalmente sul territorio soltanto se i suoi genitori avranno a loro volta
potuto mantenere la propria posizione regolare, vale a dire: permesso di
soggiorno e residenza ininterrotta per l’intero periodo dei diciotto anni. Detto
in altre parole: se i genitori di un bambino nato in Italia non avevano il
permesso di soggiorno al momento della sua nascita, anche se il bambino viene
iscritto nel registro dell’ufficio anagrafico, di fatto questa
iscrizione non basta. Solo l’iscrizione del bambino nel permesso di soggiorno di
uno dei genitori garantisce, infatti, la ‘legalità’ della residenza. Migliaia di
quei bambini, oggi ormai adulti, pur avendo frequentato le scuole italiane e pur
avendo vissuto tutta la loro esistenza in Italia, sono diventati ‘irregolari’ o
apolidi al compimento del loro diciottesimo anno di età. È bastato semplicemente
che i genitori al momento della loro nascita non avessero un permesso di
soggiorno o che, pur avendolo, non avessero formalizzato l’iscrizione anagrafica
con l’inserimento del bambino nel permesso di soggiorno, perché il ‘gap’ legale
della residenza, di qualche mese o di un anno, fosse sufficiente al rigetto
delle domande di cittadinanza.
Per anni è mancata una legge organica sull’immigrazione che regolasse lo
status dei cittadini stranieri in Italia. Il progressivo inasprimento delle
procedure di regolarizzazione, legate per lo più al possesso di un lavoro, ha
molto rallentato il percorso di regolarizzazione per tutti i migranti stanziali
di prima generazione (nati tra la seconda metà degli anni ’70 e la seconda metà
degli ’80). Una situazione drammatica per chi avesse scelto di vivere in Italia,
ma altrettanto drammatica per quasi tutti bambini che sono nati in Italia alla
fine degli anni ’80, quindi prima del varo della legge sulla cittadinanza del
1992.
In uno Stato di diritto non dovrebbero vigere le buone intenzioni,
soprattutto quando si devono sanare oltre venti anni di segregazione forzata (in
tuguri) di quelli che, per comodità filosofica o politica, siamo soliti definire
nomadi.
Se si leggono le delibere e i piani di intervento per l’istituzione dei campi
approvati negli ultimi 6/7 anni dalle amministrazioni capitoline, si scopre che
lo Stato di diritto è stato praticamente sospeso e trionfano, purtroppo, le
buone intenzioni. L’enorme sforzo intellettuale di quelle amministrazioni ha
partorito, nei confronti di queste popolazioni, un progetto residenziale fondato
su tre livelli di ‘integrazione sociale’:
– i campi sosta, definiti aree di sosta temporanea;
– i villaggi attrezzati, cioè strutture fornite di moduli abitativi
prefabbricati;
– gli inserimenti abitativi, vale a dire l’assegnazione di case
popolari per tutti i cittadini rom italiani e per i cittadini rom stranieri
legalmente soggiornanti sul territorio italiano.
Il primo livello prevede i servizi di base e un tempo massimo di permanenza di
12 mesi. Il secondo prevede l’inserimento nei villaggi attrezzati per una durata
massima di 36 mesi, prorogabile, ma sempre in funzione della successiva
assegnazione di case.
Infine, l’inserimento e la permanenza nei campi sosta, così come nei villaggi
attrezzati, può avvenire soltanto sulla base della provata ‘buona condotta’ dei
rom. I rom, essendo nomadi nell’immaginario collettivo dei loro detrattori e di
molti untori dei diritti umani, dovrebbero comportarsi secondo norme che le
amministrazioni municipali redigono sotto forma di ‘Patti sociali’. In queste
strane scritture viene persino prescritta una sorta di codice di condotta della
vita privata, a cui le persone dovrebbero attenersi per essere degne di
integrazione: è come se il proprietario di casa ci facesse stipulare un
contratto d’affitto solo a condizione che i bambini vengano mandati a letto
presto, o che la presenza di qualsiasi ospite venga tempestivamente ‘denunciata’
al corpo di Polizia Municipale.
Di solito, nei Patti sociali sono anche accennati i doveri che
l’amministrazione assume nei confronti dell’assegnatario di un posto in un campo
sosta o di un prefabbricato nei villaggi attrezzati: si tratta di servizi minimi
e del rispetto delle più elementari garanzie di sicurezza sociale: acqua
potabile, sistemi antincendio, manutenzione straordinaria, ecc., come si addice
a luoghi destinati alla pubblica convivenza. Il fatto è che le amministrazioni
non assolvono quasi mai a tali espliciti doveri, oppure lo fanno in maniera
soltanto parziale, cavalcando e sfruttando la serie dei soliti pregiudizi
metropolitani (mascherati da discorsi d’opportunità politica) per giustificare
le loro stesse inadempienze.
È importante sottolineare come tutti i progetti di sgombero seguano sempre le
stesse modalità e rendano sempre conto degli stessi processi politici e sociali;
in essi, ricorrono le stesse tipologie progettuali di allestimento, di gestione
e di manutenzione dei campi ‘attrezzati’ per i rom. È tutto un copia e incolla
di delibere, regolamenti, piani di intervento, ordinanze, ecc. A cambiare sono
solo gli importi che vengono versati per gli appalti di messa in opera,
rinnovati continuamente ed aumentati esponenzialmente a fronte di proroghe e
autorizzazioni che altro non fanno che rendere di fatto ‘eccezionale’, e perciò
ancor più precaria, ogni soluzione prospettata per la ‘sistemazione’ dei rom:
una manna(ia) dall’alto.
Era il 2005 quando il campo di Vicolo Savini, dove da quasi trent’anni
abitavano 770 persone, viene sgomberato per ‘emergenza sanitaria’. Trent’anni di
emarginazione non possono che produrre emergenze sanitarie. Al km 24 della via
Pontina, nei pressi di via di Trigoria, fu allestita dalla Protezione Civile una
tendopoli: 200 tende, ognuna per gruppi di 4 o 5 persone, 100 gabinetti chimici,
3 serbatoi d’acqua, 2 tendoni per le cucine, e una trentina di docce. Il più
grande campo d’Europa fu distrutto e Walter Veltroni, in compagnia
dell’Assessore alle Politiche Sociali Raffaella Milano, illustrò alla stampa
progetti e prospettive cui sarebbero state destinate quelle vite, sradicate da
un terreno di proprietà dell’Università Roma Tre. Dopo due mesi di permanenza,
la comunità avrebbe dovuto essere spostata in sistemazioni più confortevoli,
composte da moduli abitativi prefabbricati, e presso aree che l’amministrazione
comunale avrebbe individuato, garantendo altresì il rimpatrio facilitato nei
paesi d’origine per alcuni o l’accesso ai fondi destinati all’emergenza
abitativa per altri. Il megacampo di Castel Romano, prototipo dei famosi
villaggi della solidarietà, nasce così da un un lancio di dadi sulla Pontina,
nell’area di Decima Malafede.
Decima Malafede è una Riserva Naturale, sottoposta a vincolo ambientale; una
serie di norme regionali ne garantiscono – o dovrebbero garantirne –
l’inviolabilità del territorio, del suolo, delle specie animali e vegetali e
delle falde acquifere. Un Ente Autonomo della Regione Lazio (Roma Natura) ha il
compito di renderle esecutive. I rom del campo non hanno acqua potabile, ma
l’amministrazione comunale, oltre ad aver davvero fornito ai rom dei moduli
abitativi prefabbricati installandoli in un’area sottoposta a vincolo
ambientale, ha provveduto immediatamente al riequilibrio del disagio idrico: le
autobotti riforniscono le persone di acqua nera e maleodorante, che deve bastare
a tutti per lavarsi, pulire, cucinare – e per bere. (*1)
Il divieto di utilizzare le acque della riserva naturale (DL n.152 del maggio
1999) ha come conseguenza almeno due altre fondamentali omissioni di gestione
che rendono inaccettabile la qualità della vita nel campo: l’impossibilità di
allestire un sistema fognario e l’impossibilità di rendere funzionante un
impianto antincendio. Le ditte appaltate per la messa in opera del campo hanno
provveduto alla fornitura delle attrezzature antincendio; il dubbio potrebbe
sorgere qualora si scoprisse che non vi sono schede tecniche di collaudo delle
stesse. E il dubbio si rigenererebe da sé se volessimo chiedere di verificare le
schede di manutenzione ordinaria che ogni sei mesi vanno compilate dalla ditta
che se ne occupa. Per capirci: ci sono le manichette per gli idranti, ma non
possono essere collegate alla rete idrica.
E i bambini, tanto cari alle amministrazioni comunali? Per i bambini sono
previsti progetti di scolarizzazione e innumerevoli altri progetti e progettini,
gestiti da varie associazioni sinistroidi o pseudoumanitarie che inghiottiscono,
disperdono e volatilizzano il denaro pubblico senza mai arrivare alla
realizzazione degli impegni assunti. Per esempio, i progetti di scolarizzazione
prevedono pulmini per portare a scuola i bambini. Ma a scuola i bambini ci
andrebbero molto più volentieri se, anziché fare un tragitto di circa un’ora e
mezza per raggiungere la scuola assegnata da un Protocollo di Intesa ormai
vecchio e non più adeguato alla realtà dei fatti, potessero accedere alla molto
più vicina scuola di Pomezia. (*2) Dove sta allora l’origine di quel grave
fenomeno che sociologicamente viene chiamato ‘dispersione scolastica’?
Per il campo attrezzato di via dei Gordiani, il Patto sociale firmato nel
2002 dall’ex presidente del VI municipio, il dott. Vincenzo Puro, e dai
capofamiglia assegnatari dei moduli abitativi prefabbricati, ribadiva il
carattere transitorio della sistemazione in containers per le persone che da
quasi 35 anni vivono in Italia. Le tragedie che hanno investito le famiglie
residenti in quel campo sono innumerevoli. L’ultima si consuma il 30 ottobre
2007. Appena il giorno prima, agenti della polizia municipale avevano consegnato
a cinque capofamiglia, assegnatari di altrettanti containers, un invito ad
allontanarsi dal campo. Poche ore dopo, alle 7.30 del mattino, una ruspa agli
ordini di Antonio Di Maggio, Comandante del Gruppo Sicurezza Urbana della
Polizia Municipale, ha fatto molto più che rendere esecutivo l’invito di
allontanamento. Accusati di varie malvivenze, tra le quali il possesso di
stupefacenti ai fini di spaccio, uomini, donne e bambini sono stati cacciati dal
campo, e i loro averi distrutti. Eppure, in uno Stato di diritto esiste ancora
un codice penale e uno civile; il dubbio si insinua: chi ha violato le leggi
italiane e chi quelle internazionali? Ad una giovane donna, per esempio, nemmeno
è stato notificato l’invito ad allontanarsi dal campo: era in ospedale, affetta
da broncopolmonite. Dimessa qualche giorno dopo, si è trovata improvvisamente
per strada; lo stesso è successo alla madre, malata di cancro. Suo nipote,
cittadino italiano, seguiva un corso di inserimento professionale dopo il
diploma di terza media: è costretto ora a ricominciare daccapo e a ricomprarsi i
libri, andati tutti distrutti assieme al resto, sotto i colpi di mandibole
d’acciaio obbedienti agli ordini impartiti.
Qualche ora dopo, in un altro tugurio della capitale italiana, si consumava
l’omicidio Reggiani: la violenza è aberrante, non ha connotazioni etniche. La
morte di qualcuno, la sua sofferenza, l’immaginarne il dolore non possono che
indurre pudore e rispetto. Le riflessioni sono sempre successive, il pensiero si
organizza sì, ma questo avviene sempre un attimo dopo. Invece la razionalità
utilitaristica degli uomini che ricoprono alte cariche istituzionali ha dato
prova del suo cinico opportunismo: un decreto ad hoc che scuote anche
quella minima, irrisoria percezione dell’uguaglianza formale di tutti i
cittadini europei davanti alla legge europea. La Sottosegretaria al Ministro
dell’Interno, Marcella Lucidi, nella puntata de L’Infedele del 7
novembre, spiega che il Ministero dell’Interno è contro ogni forma di
discriminazione e che pertanto è giusto non criminalizzare l’intera comunità
romena per l’omicidio Reggiani. Le sue parole, caute ed educate scatenano un
altro dubbio: è possibile che sia ignara dell’operazione di polizia e pulizia
etnica condotta con perizia e disciplina a Roma, nei campi rom? Il consenso
costruito sulle e contro le miserie che la nostra società genera è pericoloso.
Chissà se Walter Veltroni e gli uomini del suo gabinetto ricordano di aver
studiato la storia italiana, soprattutto quella che va dalla fine della prima
guerra mondiale ai giorni nostri. Ma certo, che stupidaggine è mai questa,
Veltroni ogni anno va in pellegrinaggio ad Auschwitz. Solo, a questo punto, non
è ben chiaro che cosa ci vada a fare.
Note
1. Il manifesto - Riccardo Iori, 4/11/ 2007.
2. Il Messaggero – Claudio Marincola, 7/11/2007.
Di Fabrizio (del 02/12/2007 @ 09:30:58, in Europa, visitato 1985 volte)
Da
Osservatorio sui Balcani
26.11.2007 scrive Rando Devole
Un fatto di cronaca che fa partire una dura campagna antirom(ena): indignazione
popolare, articoli, trasmissioni televisive, analisi sociologiche e
dichiarazioni dei politici. Paradigmi di paure, diversità, integrazione in
questo commento scritto per Osservatorio dal sociologo Rando Devole
Alla fine di ottobre un crimine efferato ha scosso l’Italia. Una donna è stata
seviziata e uccisa alla periferia di Roma. Il presunto omicida è stato catturato
dalle forze dell’ordine. Era romeno, e rom, abitante nelle baracche adiacenti il
luogo del delitto. I media hanno dato un enorme risalto alla notizia. È seguita
l’indignazione popolare, accompagnata da testimonianze, dichiarazioni, denunce,
accuse, articoli, commenti, servizi, sondaggi, trasmissioni televisive ed
analisi sociologiche. La politica ha risposto con un acceso dibattito senza
esclusione di colpi, per finire con un decreto urgente in materia di
espulsione di cittadini comunitari. Il quadro non sarebbe completo se non si
ricordassero alcuni atti di xenofobia a danno di cittadini romeni, ovviamente
seguiti da condanne unanimi e appelli alla calma; tutto corredato da contatti
febbrili bilaterali con la Romania e da battute a distanza con l’Unione Europea.
Per le persone attente si tratta di un episodio già visto. Un déjà vu
collettivo. Il caso degli albanesi è ancora fresco, per non dire attuale.
Qualche cittadino albanese commetteva un omicidio o altra violenza, seguivano
indignazioni e rabbie diffuse, interpretazioni strumentalizzanti, giustificanti
e/o asettiche, appelli accorati, dichiarazioni di circostanza, provvedimenti
immediati. Non mancavano i via vai di delegazioni ufficiali, le accuse
rincorrenti, le chiamate alle ronde, gli inviti al buonsenso; si scomodavano
perfino i personaggi dello spettacolo. Per concludere si interpellava, come
sempre, l’Europa. Quindi, niente di nuovo sotto il sole.
Per gli amanti dei retroscena e gli appassionati di dietrologie, si tratta di un
episodio da manuale. Si aspetta il momento propizio per trovare un caso
eclatante: tra tanti delitti c’è sempre uno che si distingue per emblematicità.
Dopo averlo scelto, lo si butta nel ciclone mediatico; ciò gli darà forza,
facendolo diventare il suo occhio ciclopico per parecchi giorni. Poi si gioca al
rialzo con proposte di misure emergenziali, mettendo sulla bilancia la rabbia
popolare. L’attenzione dell’opinione pubblica verrà monopolizzata, mentre altre
cose finiranno nel dimenticatoio, oppure passeranno in secondo piano. La formula
è suggestiva, ma piuttosto inverosimile.
Qualche volta i déjà vu sono pure e semplici illusioni, mentre le
interpretazioni cospirative facili fantasie. C’è una certezza sola. Il
pregiudizio regna sovrano. Per giunta, aiutato da ovvietà disarmanti, ai confini
delle banalità, le quali, spacciate per controargomentazioni efficaci, non
riescono a scalfirlo neanche in superficie: ad. es. “non sono tutti cattivi”,
“non facciamo di tutta l’erba un fascio”, “sono utili all’economia”, “i rom non
sono romeni”, “i romeni non sono tutti rom”, “i romeni sono comunitari”, e così
via. I rom passano sotto la radiografia dei media, che enciclopedicamente
forniscono dati tra tabelle e grafici colorati: quanti sono, dove sono, ceppi
etnici, quali origini, quale delinquenza. Alcuni dati fanno paura, altri meno.
Dipende da come li presentano.
I Balcani ed i paesi dell’Est c’entrano sempre; quando si parla di sicurezza e
immigrazione non mancano mai dalle pagine dei giornali. Non si comprende se
influisce la delinquenza comune dall’immancabile “accento slavo” (ceppo a cui i
romeni casualmente non appartengono), la provenienza di molti rom, oppure il
lato oscuro di quelle parti, dove regna l’ignoto, dalla cui oscurità emergono
vampiri per tormentarci l’immaginario. Se molti riconoscono nei Balcani la
polveriera d’Europa, oppure la regione più divisa del continente, pochi sanno
che i Paesi balcanici sono legati tra di loro con tanti fili, tra cui spicca
quello dei rom, che con l’arte della sopravvivenza, la libertà professata e,
soprattutto, la loro musica folcloristica, hanno sempre fatto da sfondo alle
storie della regione e alle sue memorabili narrazioni.
Seppur uguale ad altre nella sostanza, la recente campagna antirom(ena) ha
presentato elementi nuovi. Innanzi tutto la confusione totale tra rom, romeni e
rom romeni. Sarebbe offensivo per il lettore spiegare nuovamente le differenze
evidenti. Tuttavia, le assonanze hanno influito poco sul caos cognitivo, unico
complice è stata l’ignoranza. D’altronde senza l’humus dell’ignoranza, i
pregiudizi stentano a rimanere in vita. Infatti, parte dell’opinione pubblica
considera i romeni come extracomunitari, non come membri a pieno titolo dell’UE.
Non è un bel segnale per l’Europa allargata, specialmente per gli altri paesi
balcanici che sono in sala d’attesa da tempo. Dall’altro lato, per fortuna, la
religione non era in discussione questa volta. Del resto la diversità viene
ricostruita con i materiali a disposizione, che non sono mai scarsi.
Se le reazioni collettive sono generate da angosce ataviche, se le certezze
traballano di fronte alla diversità, se le paure aumentano nell’incontro con
l’Altro, se il pregiudizio coalizza e demonizza contemporaneamente, se la
propria aggressività non è più riconosciuta, se la sindrome del nemico interno
ci perseguita senza sosta, se la violenza viene proiettata sui diversi, se gli
stranieri sono percepiti come una minaccia, allora c’è una sola cosa da capire:
noi stessi. Perché l’immigrazione è uno specchio che riflette tutto: la paura e
il coraggio, la sfiducia e l’ottimismo, i difetti e i pregi. E non possiamo
colpevolizzare lo specchio se ciò che riflette non ci piace. Possiamo anche
romperlo volendo, ma non abbiamo risolto nulla.
Non solo il delitto di Roma, ma anche quello di Perugia e di Garlasco, con le
loro vittime femminili indicano che viviamo in una società culturalmente
febbricitante, in prenda alla paura, dove la violenza trova la sua ragion
d’essere, perché prevale il concetto della sopraffazione sui deboli. Poco
importa il passaporto del carnefice. Invece, risulta importante la cultura della
legalità, i doveri che vanno di pari passo con i diritti, la giustizia giusta,
il rispetto della persona. In un quadro di regole chiare, dove vige la certezza
della pena, ma anche quella del merito, è più facile misurarci sui valori
fondamentali inalienabili e non sulle divisioni artificiose tra noi e loro. Che
siamo tutti fragili e indifesi lo dimostrano perfino le divisioni acclamate
dalle stesse vittime della discriminazione, che vogliono distanziarsi dai soliti
rom, come se additare l’altro fosse un atto di purificazione.
Le baraccopoli costituiscono una grande metafora dell’emarginazione. Persone che
vivono ai margini della società, nell’isolamento, nella diffidenza verso gli
altri, senza integrarsi, nel degrado urbano. In una situazione di paura
reciproca, non cambierebbe molto se al posto delle lamiere ci fossero le mura.
Neanche un bagno con idromassaggio allontanerebbe lo spettro dell’esclusione
sociale. Tante isole non necessariamente fanno un arcipelago.
Lo straniero assoluto non esiste, ha scritto Tahar Ben Jelloun, perché siamo
sempre stranieri rispetto agli altri. La storia dei romani, romeni e rom, con la
loro somiglianza fonetica, ci insegna proprio questo: siamo uguali nella nostra
diversità. Ovviamente, le potenzialità non mancano neanche ai moderni, il cui
Dna culturale è fatto principalmente di diversità, forse il loro vero punto di
forza. Lo dimostra inoltre il vissuto di ogni giorno, con tanti begli esempi di
integrazione, di rispetto reciproco, che, purtroppo, non fanno mai notizia.
Certo è che stigmatizzare i diversi, criminalizzare intere comunità,
generalizzare il male, significa proiettare verso gli altri il proprio lato
oscuro, trasformare le vittime in carnefici e viceversa, ed infine, accumulare
macerie valoriali nella nostra anima. Ma ad un certo punto, non ci serviranno né
ruspe, né zingare chiromanti, per salvarci dal nostro futuro.
Di Fabrizio (del 03/12/2007 @ 09:06:36, in blog, visitato 1595 volte)
Da
Nazione Indiana
di
www.autistici.org/ojak
Questa è la prima versione di una contro-inchiesta su quanto è successo a
Torino. Un campo rom viene attaccato: alle 3 del mattino di domenica 14 ottobre,
alcune molotov vengono lanciate sopra il muro di cinta che delimita il campo.
Scoppia l’incendio e gli abitanti del campo riescono a fuggire prima che
qualcuno possa essere vittima dell’incendio.
Le premesse
6 Aprile 2007: “Emergenza Freddo” è il nome di un progetto assistenziale di
aiuto ai senzatetto torinesi nel periodo invernale. In particolare nella zona di
Basse di Stura da tre anni si ricoverano in roulottes della protezione civile
circa 30/40 famiglie rom che stanno affrontando un momento difficile,
parenti malati, bimbi molto piccoli, a rischio obiettivo con il sopraggiungere
dell’inverno [1]. Solitamente all’arrivo della primavera, e dell’esaurimento dei
fondi (centinaia di migliaia gli euro stanziati - circa 150 mila nel 2006), il
campo viene chiuso, le roulottes portate via ed i rom rispediti in Romania via
aerea, perché extracomunitari.
Questa primavera succede un fatto nuovo: diventati cittadini europei i
rom rumeni accolti in via Besse di Stura si opporranno a più riprese alla
chiusura del campo di “Emergenza Freddo” che li costringerebbe a trovarsi di
nuovo un’altra sistemazione in attesa dell’autunno. Di tornare in Romania non se
ne parla più: in quel paese un forte clima di discriminazione e di razzismo
diffuso sin ai livelli più alti delle istituzioni (il 19 maggio 2006 il
presidente romeno Basescu apostrofa una giornalista troppo curiosa con l’epiteto
“sporca zingara”) convincono i più a restare in Italia alla ricerca di migliori
condizioni di vita. Solo alcune famiglie accettano un contributo del Comune per
prendere il pullman e tornare in Romania: alcuni accettano e molti di loro si
rivedono a Torino dopo solo due settimane (raccontano di essere stati fatti
scendere dal bus appena passata la frontiera rumena, alcuni senza un soldo ed a
centinaia di chilometri da casa). Due giorni di presidio sotto il Comune di
Torino, (mercoledì e giovedì 28-29 marzo), un presidio nella notte l’11 aprile
non smuovono di un unghia la decisione del Comune di chiudere.
Appena dopo Pasqua inizia lo smantellamento. Alcune famiglie torneranno ad
insediarsi sulle rive dello Stura, altre tentano la strada dell’insediamento in
un campo in via Druento, al confine di Torino, zona Stadio delle Alpi. Tentativo
sfortunato perché saranno ripetutamente vittime di sgomberi fino a sparpagliarsi
negli altri campi abusivi cittadini. Nel mentre che i vigili terrorizzano le
famiglie di via Druento, scoppia un altro bubbone: è la volta di Lungo Stura
Lazio, dove un campo assurge agli onori della cronaca per via di un incendio
particolarmente sostanzioso di cavi di rame che provoca un nuvolone nero che
investe l’Iveco, i cui stabilimenti sono dall’altro lato della strada rispetto
all’insediamento. È l’occasione d’oro, anche sotto la spinta di un abortito
presidio leghista sotto al Comune (Carossa presenta interrogazione al Consiglio
Comunale il 23 aprile 2007), per tentare lo sgombero di tutta la zona, altamente
popolata (300/400 persone). Sgombero che si svolge nervosamente ed in maniera
confusa per tutta l’estate. Le roulottes vengono fatte spostare altrove, ogni
tanto di buon mattino qualche ruspa mandata dal Comune si presenta e distrugge
un paio di baracchine, puro stile Palestina. Lo stesso accade in Strada dell’Arrivore,
dalla sponda opposta del fiume [2].
Nascita di un campo
Il campo di via Vistrorio nasce così, nei primi giorni di maggio del 2007, da
questo turbine di ripetuti sgomberi e girovagare di baracche e roulottes per la
città. Ci abitano circa una ventina di famiglie, meno di dieci roulottes ed il
resto baracche di fortuna. Il campo è in una posizione particolare, quasi sulle
rive dello Stura, al fondo di un parco di periferia con poca frequentazione, sia
diurna che notturna, al fondo di un quartiere popolare, tra Corso Giulio Cesare
e Corso Vercelli. Le palazzine più vicine al campo distano centinaia di metri.
E’ completamente cinto da mura, vi si entra solo da un cancello arrugginito che
viene chiuso dagli abitanti del campo all’imbrunire. Dentro non c’è luce né
acqua, la fontanella da cui tutti si approvvigionano è poco distante, nell’area
mercatale che incrocia via Vistrorio. E’ una ex officina di riparazioni,
completamente invasa dalla vegetazione. All’interno c’è una costruzione abusiva
che anni prima aveva ospitato altri stranieri e, forse, al momento dell’ingresso
delle famiglie questo spazio è abitato [3].Il quartiere si accorge della
presenza delle famiglie rom dall’andirivieni di persone che riempiono le taniche
d’acqua alla fontanella, dall’uscita al mattino presto e rientro di quelli che
sono usciti a lavorare, dalle immancabili biciclette con le cassette di plastica
legate con cui molti fanno il giro della città a recuperare metallo. In quasi
tutte le famiglie c’è una persona che lavora, alcuni in progetti di inserimento
lavorativo, gli altri in nero. Qualche donna esce per lavori di pulizia. Nella
zona non si registrano casi eclatanti di insofferenza, ed anche i media lasciano
in pace questo piccolo campo. Si dimenticano di citarlo sulle mappe realizzate
per i lettori impauriti, e pochi articoli su questo insediamento escono sui
giornali, anche quelli più accesi nell’indicare i rom come causa di tutto il
disagio sociale.
Le ronde a Tossic Park
Rispetto al campo, Parco Stura si trova dalla parte opposta di Corso Giulio
Cesare. Un altro luogo salito agli onori della cronaca perché ribattezzato
Tossic Park, e indicato dai media tutti come luogo di spaccio massiccio di
sostante stupefacenti e forte presenza di stranieri, naturalmente tutti
spacciatori secondi i giornali. L’intensità mediatica della vicenda illumina i
riflettori sui neo-costituiti Comitati Spontanei che iniziano campagne di
protesta e raccolte firme per “restituire il parco ai cittadini”. Anche Azione
Giovani ed Alleanza Nazionale scendono in strada [4].La prima conseguenza di
questa mobilitazione è l’episodio incredibile di una retata che si conclude con
l’annegamento di due ragazzi dentro il fiume (ottobre 2006), dove si erano
gettati per sfuggire ai controlli incrociati delle pattuglie di polizia e
carabinieri che avevano completamente circondato il parco. Queste due morti
scateneranno una protesta proseguita per più giorni da parte di un folto gruppo
di stranieri, che chiedono che vengano fatte le ricerche per il recupero dei
corpi altrimenti dimenticati nel fiume.
Parallelamente alle retate delle forze dell’ordine i Comitati non esitano
pubblicamente a proclamare l’utilizzo di “ronde” che dovrebbero colpire i
clienti degli spacciatori, i “tossici” che raggiungono il parco sulla linea del
4, metropolitana leggera. La dinamica con cui le ronde agiscono è semplice: ci
si prepara alla fermata del 4 più vicina al parco, si aspetta che esca uno che
si individua come “un tossico” e lo si prende a bastonate. Di episodi simili se
ne registrano parecchi, alcuni tossicodipendenti decidono non certo di diradare
le escursioni nel parco ma cominciano a muoversi in orari più favorevoli, anche
tardi nella notte. (Il giornale di strada Polvere, uscito nell’Ottobre 2007,
ospita una lunga intervista ad alcuni tossicodipendenti su quanto succede nel
parco, una cinquantina le aggressioni denunciate nell’articolo). Alcune di
queste azioni delle ronde vengono persino riportate, con tanto di fotografie del
“tossico” pestato e sanguinante sui giornali cittadini, segno evidente che le
ronde agiscono alla presenza di fotografi e giornalisti, in pieno sole.
Dopo un periodo di alta esposizione mediatica si spengono le luci su Tossic
Park, le notizie diventano stantie, il pubblico vuole emozioni nuove. Si fanno
alcuni lavori di pulizia del parco davanti al Novotel, un albergo di lusso,
viene approvato il progetto di costruzione di un campo da golf (i cittadini del
quartiere sono tutti appassionati di questo popolare sport…), nel parco viene
installato un “punto verde” (uno dei pochi nell’estate 2007: il Comune ha pochi
soldi da spendere per via dei debiti post olimpiadi) e ci sarà la festa
dell’Unità in settembre. Le ronde sembrano ritornate a posare i bastoni, o
semplicemente nessuno ne parla più.
Tossic Park resta comunque un pozzo senza fondo da cui attingere ogni tanto
articoli sensazionali ed emozionanti quando i giornali stentano a riempire le
cronache: il terribile luogo tornerà in auge per tutta l’estate ed oltre [5].
Le premesse dell’incendio
In autunno la situazione dei rom al campo sembra farsi più difficile. Il
proprietario ha deciso di rifare la denuncia per occupazione abusiva che aveva
giàsporto tre anni prima, ma che non era mai stata eseguita ed era decaduta. Ci
sono anche alcuni contatti tra proprietario e rom, alla presenza di mediatori,
tentativi di rinviare la denuncia e quindi lo sgombero in attesa di un deciso
miglioramento delle condizioni di vita delle famiglie: alcuni aspettano che
un’assunzione possa fornire loro l’occasione per trovare una casa in affitto,
altri sperano di passare lì l’inverno, magari riuscendo a trovare il sistema di
collegarsi alle utenze, anche pagando. Nessuno è pronto per essere nuovamente
sgomberato, nessuno ha un altro luogo verso cui dirigersi. Gli altri campi
cittadini scoppiano di gente, ed è molto difficile che altre due decine di
famiglie possano ancora trovare spazio. Sebbene il proprietario rifiuti
qualunque possibilità di accordo, non risulta neppure che si attivi per portare
avanti la denuncia. Gli episodiMartedì 18 settembre, verso le 23, mentre i rom
sono già chiusi all’interno del campo, con il cancello chiuso, due uomini
entrano all’improvviso, bussano a tutte le roulottes e le baracche svegliando
tutti ed urlando. Sono molto agitati e nervosi, raccontano le testimonianze,
riescono ad impressionare ed a zittire con il loro tono, gli urli e le minacce,
anche gli uomini più robusti del campo, che si limitano spaventati a chiedere a
questi di uscire. Potevano essere armati, potevano non essere soli ma attesi da
qualcuno all’esterno, nessuno del campo reagisce. Dopo un po’ i due se ne vanno
con una minaccia chiara: o se ne andranno o lì brucerà tutto. Alcuni solidali
con i rom fanno avere al campo un paio di estintori per un pronto intervento.Nei
giorni seguenti un ragazzo del campo si reca in caserma per denunciare
l’accaduto alle forze dell’ordine, gli viene risposto che se venisse accolta la
denuncia automaticamente il campo verrebbe sgomberato, trovandosi in situazione
di evidente illegalità. Il ragazzo desiste e decide di non sporgere più
denuncia. Di questo episodio, naturalmente, i giornalisti che provano a chiedere
ai commissariati di zona non ricevono che risposte negative.
Nello stesso periodo avviene un altro fatto: i rom vanno con taniche e fusti
a prendere l’acqua alla fontanella: si è però sparsa la voce nel campo che
qualcuno aspetti là a bella posta per aggredire chi si avvicina dei rom. Alcuni
uomini robusti vanno a verificare, riempiono le taniche e ritornano senza
problemi. Invece un ragazzo che non è di quel campo ma in visita, una volta
giunto alla fontanella viene aggredito a pugni. Le testimonianze dicono che il
picchiatore fosse un ragazzo con alcuni vistosi tatuaggi, già visto in zona.
Verso la fine di settembre c’è un altro raid, questa volta il gruppo è più
numeroso, ma si limita ad urlare fuori dal campo e da distante, non
avvicinandosi. Gente giovane, una decina.
Nella notte tra sabato 13 e domenica 14 ottobre, alle 3.30 del mattino
iniziano a partire le telefonate di allarme. Alle 5 finalmente la voce che c’è
stato un incendio al campo si sparge. Chi arriva sul posto trova i vigili urbani
e qualche auto dei carabinieri, i vigili del fuoco se ne sono già andati. Sono
arrivati dopo 30 minuti dalla chiamata, un tempo troppo lungo per salvare
qualcosa in un campo di baracche e roulottes.
Le testimonianze raccolte
I primi racconti sono confusi di mille sfaccettature che però nella sostanza
concordano: una donna ha sentito un rumore ed è quindi stata pronta a verificare
di cosa si trattasse e lanciare l’allarme. Non si sa il numero delle bottiglie
lanciate, sembra 3, ma tutti al campo concordano che si trattasse di benzina dal
forte odore, anche gli estintori messi in funzione non hanno potuto salvare il
campo dalle fiamme. Nella fretta di uscire, di mettere in salvo i bambini molte
famiglie hanno perso nell’incendio tutto ciò che possedevano, non solo quindi i
documenti, ma anche le cartelle mediche, i soldi, i vestiti e le scarpe, i
telefonini, i quaderni ed i libri dei bambini, ottenuti da pochi giorni grazie
allo sforzo di maestre delle scuole di zona e altri solidali, i generatori, le
cucine ed il pentolame etc. Qualcuno ha provato ad uscire ed inseguire il/i
responsabili, che sono stati visti scappare e montare su un auto che si è
allontanata veloce. Chi è uscito ha raccontato di aver seguito chi fuggiva ma di
essersi fermato dopo poco per paura.Nei giorni seguenti le versioni più
gettonate su giornali e TV spaziavano dalla vendetta tra gruppi rivali, per
esempio con i sinti del campo poco distante di via Lega (in realtà una certa
insofferenza verso i nuovi arrivati i sinti l’hanno espressa, ma non
apertamente, e i rom pur poco distanti non hanno di fatto mai dichiarato di
conoscere i vicini né di aver avuto a che fare con loro), all’autocombustione,
ovvero che fossero stati loro stessi a darsi fuoco per profittare della prossima
apertura invernale del campo di “Emergenza Freddo” che li avrebbe di certo
accolti. Quest’ultima ipotesi sfiora il grottesco: appare su La Stampa di lunedì
16 settembre a firma Angelo Conti (che la mattina dell’incendio si presenta
verso le 9 e chiacchiera per circa 20 minuti con donne e uomini del campo), a
riprova della veridicità dell’ipotesi il giornalista afferma che gli pare strano
che nessuno si sia fatto male, e che la perdita dei documenti sia stata più una
fortuna che un guaio per molti dei rom. Queste versioni totalmente campate in
aria vengono avallate dalle dichiarazioni dei carabinieri che sostengono che i
rom avessero sentore di uno sgombero imminente e che quindi avessero astutamente
deciso di giocare d’anticipo.
Vengono spontanee alcune domande: Che ragioni avrebbe un cittadino
neo-comunitario di bruciarsi i documenti che invece gli danno accesso al lavoro,
ad affittare una casa, ad usufruire dei servizi? Per giunta rifare i documenti,
per un rumeno significa dover ritornare in Romania ed aspettare almeno un mese
per le pratiche, non si possono fare dall’Italia. Un grande sbattimento insomma.
Perché alcuni non avrebbero salvato il telefonino, strumento che permette loro
di prendere eventuali chiamate di lavoro? E bruciarsi i soldi che idea balzana
sarebbe (H. F. ha perso bruciati 600 euro guadagnati in un mese di lavoro in
fabbrica)? Chi ha mai garantito a questi rom la sicurezza che in caso di
incendio sarebbero finiti ricoverati nel campo di Emergenza Freddo? Come
potevano immaginarsi un trattamento “di riguardo” persone che si erano subite
nei 6 mesi precedenti almeno altri due sgomberi? Perché vittime di un incendio?
Anche la tesi dei Carabinieri che i rom avessero sentito di uno sgombero
imminente è fasulla e non sta in piedi. Per tutto il 2007, e in tutti gli
sgomberi eseguiti nell’area, carabinieri e vigili sono passati ad avvisare molto
prima dell’imminenza dello sgombero, operatori e volontari hanno sempre saputo
prima quali fossero le intenzioni di Comune e Questura, che di fatto hanno
delegato in molti casi proprio agli operatori l’aiuto ed il sostegno a chi
veniva mandato via (nel caso dello sgombero di via Druento per tutta la giornata
un camion prestato ad alcuni operatori da un privato ed un carro attrezzi pagato
con soldi della Caritas sono stati gli unici mezzi a consentire ai rom di
recuperare baracche e roulottes e a spostarsi in un altro campo).
Quello che tutti i giornali non hanno data come ipotesi, se non riportando
con forti dubbi le parole dei rom, è quella che l’incendio del campo di via
Vistrorio sia da attribuire ad un attentato, lucidamente compiuto per risolvere
drasticamente una questione che tardava a venir affrontata dalle istituzioni. Un
gruppo di fascisti, o giustizieri di zona o venuti da fuori, che hanno agito in
un clima mediatico e politico arroventato, dove la sola parola rom già manda in
fibrillazione i cantori della sicurezza e legalità. Clima mediatico che arma la
mano di chi poi decide di passare a vie di fatto contando sull’approvazione
sussurrata da parte degli abitanti del quartiere (La domenica dell’incendio un
gruppo di abitanti della zona ha dichiarato apertamente che, pur disapprovando
l’incendio, questo aveva sortito l’effetto voluto: che se ne andassero).
Chi ha colpito ha scelto un bersaglio a caso, un campo piccolo, in cui ci
abitano poche persone, una sessantina in tutto, di cui solo una ha precedenti
penali, in cui la maggior parte delle persone ha un impiego, ed in cui la
totalità delle famiglie ha iscritto e manda i figli a scuola, ciò a riprova che
dietro questo gesto non si può nemmeno cercare la reazione di qualche vicino
danneggiato in qualche modo dalla presenza di questi rom, ma piuttosto lo sfogo
di un desiderio di annichilimento dello straniero, del diverso, del rom, cieco
ed ingiustificato. Chi ha colpito ha vigliaccamente trovato un campo comodo da
attaccare perché ben nascosto ed isolato, lontano da possibili testimoni, con
rischio inesistente di subire qualche reazione.
Che giornali e TV abbiano spudoratamente tentato di offuscare quanto è
successo dietro cortine di falsità si può spiegare col fatto che in città,
politici, istituzioni, informazione cittadina stanno giocando un gioco
pericoloso attivando campagne mediatiche continue ed incessanti di odio contro i
rom, assurti a male del secolo, e promuovendo campagne securitarie che
presentano ai cittadini i rom come nemico pubblico numero uno, primi
responsabili della difficoltà di tirare avanti, del disagio sociale,
“dell’insicurezza”. Un gioco pericoloso che provoca lo scatenarsi di ronde e
campi bruciati, pericoloso ma desiderato, provocato e perseguito fino in fondo
per basse esigenze di consenso e per vendere qualche notizia forte. Gioco
pericoloso di cui non si ha il coraggio di sostenere la paternità quando si
intuisce possa esplodere tra le mani.
Meglio venirci a raccontare che si sono bruciati il campo da soli, piuttosto
che ammettere che, a furia di invocare l’odio, finalmente in città circolano
impunite bande di giustizieri pronti ad aggredire i più deboli, i più poveri, i
più indifesi in nome della legalità e sicurezza.
Chi sarà la prossima vittima? Il prossimo ad essere bastonato o bruciato
vivo? Un barbone? Un tossico, un clandestino, uno straniero?
Dedichiamo questo scritto a Bogdan Mihalcea, “clandestino”, morto a 24
anni, risucchiato nel tombino di una fogna da un’onda di piena mentre lavorava,
in nero, senza protezioni, neanche una corda di sicurezza, per conto della SMAT,
le acque potabili torinesi. Era il 6 luglio 2006, la città era ancora pavesata
dei festoni delle Olimpiadi Invernali appena trascorse.NOTE[1] Vedi la delibera
comunale del 2006:
www.comune.torino.it/giunta_comune/intracom/htdocs/2006/2006_10277.html[2]
Vedi piccolo video girato col telefonino:
www.autistici.org/ojak//wordpress/?p=25
[3] Potete vedere il campo, dopo l’incendio, in due video su youtube al link:
it.youtube.com/watch?v=dQ4Lwqrw30g
[4] “Per il funerale soldi dai pusher”, La Stampa, 13/10/2006
[5] “Travestiti da agricoltori a Tossic Park – Nuovo stratagemma dei
carabinieri per prendere in flagrante gli spacciatori“, La Stampa,
11/10/2007
Di Sucar Drom (del 04/12/2007 @ 09:26:25, in blog, visitato 1492 volte)
Libertà di stampa, esprimi la tua opinione
La libertà di stampa è un diritto prezioso, ottenuto attraverso secoli di
sacrifici, battaglie, lotte. Perché abusarne? Spiego. Oggi su un quotidiano a
tiratura nazionale (chiamiamolo X) è apparso un articolo su un fatto di cronaca
violenta (chiamiamolo ALFA). Fin qui, tutto normale. Notizia triste è che X,
oltre a descrivere ALFA...
Un Alto Commissariato per i Rom e i Sinti?
Il 22 novembre le ruspe hanno abbattuto le povere capanne dei rom di Tor di
Quinto a Roma con tutto il loro contenuto nel massimo disprezzo dei diritto
degli abitanti che dovevano quanto meno essere avvertiti per salvare le loro
cose, i loro ricordi, oggetti necessari alla loro vita raminga. Rai tre mostrava
una bambina che al ritorno della scuola non trova più la sua casa. Non sa
neppure dove and...
Decreto “sicurezza”, la votazione martedì in Senato
Martedì al Senato è in programma la votazione del decreto sulla sicurezza. È
soltanto un'altra tappa della corsa ad handicap alla quale il Governo è
costretto: dai numeri, come si sa, rimasti sempre precari, ma anche dal quadro
politico, che proprio dal Senato Lamberto Dini ha definit...
Verona, Tosi prima balla e poi li caccia
A Verona, mentre il Sindaco Tosi si appresta a cacciare le famiglie sinte
italiane, questa sera alle ore 21.00 presso il Teatro Nuovo di Verona (P.zza
Viviani 10) avrà luogo il secondo appuntamento del Festival Atlantide.
Protagonista della serata sarà il Flam...
Sicurezza, una percezione sbagliata
«Percezione»: secondo il vocabolario italiano dovrebbe essere l’atto della
coscienza con cui si acquista consapevolezza di un oggetto esterno. Da qualche
tempo nel nostro Paese non la sicurezza, ma una «percezione dell’insicurezza»
che non corrisponde alla realtà è diventata il parametro al quale fare
riferimento per adottare determina...
Reggio Calabria, i Rom gestiranno l'isola ecologica confiscata alla ‘ndrangheta
La raccolta differenziata a Reggio Calabria fa un ulteriore passo avanti.
L’isola ecologica, ubicata all’interno di uno stabile confiscato alla
‘ndrangheta, e’ da oggi operativa. Alla conferenza stampa di presentazione della
nuova struttura comunale hanno preso parte il sindaco...
I webmaster rom e sinti
Alcuni giorni fa su il Riformista è stato pubblicato un articolo di Piero
Babudro che ha visitato i webmaster sinti e rom in Europa e in Italia. Scrive il
giornalista Internet è di tutti, sostengono gli irriducibili. Forse non è vero,
qualche padrone la Rete ce l'ha....
Storia di Lili e Sasa, giovani rom morti bruciati
Domenica due dicembre 2007 sarà passato un anno dalla morte di Lili e Sasa. Due
ragazzi come tanti altri, bruciati in un container situato a ridosso del centro
di Roma, nel "campo attrezzato" di via dei Gordiani. Fino al 2002, via dei
Gordiani era un "campo abusivo" su un terreno comunale dove circa
duecentocinquanta donne, uomini e ba...
Da
Macedonian_Roma
Contributed by: WMC_News_Dept. - Interview by Ivana D'Alessandro
Esma Redzepova, la cosiddetta "Regina degli Zingari" è unaincredibile
artista che coopera con la campagna
Dosta! che promuove un miglior riconoscimento della cultura rom e del loro
essere cittadini europei. Nominata per il Premio Nobel per la Pace nel 2003,
Esma è stata anche la prima artista yugoslava a calcare le scene dell'Olympia di
Parigi. Orgogliosa delle proprie origini, Esma ha cominciato a cantare dall'età
di 13 anni. Il suo matrimonio con un "gagio", Stevo Teodosievski, fu uno
scandalo prima di diventare il simbolo del dialogo tra la comunità rom e la
società maggioritaria. L'abbiamo incontrata a Friburgo, nel quadro di
un'attività che è tuttora una sorpresa ma che verrà annunciata su
www.dosta.org.
Signora Redzepova, lei è una cantante conosciuta a livello
internazionale, è stata nominata al Premio Nobel per la Pace, è sposata con
un non-Rom... Molti direbbero che lei non corrisponde all'immagine dei Rom
che comunemente ha la gente, Si considera un'eccezione?
E'una domanda molto importante: se sono un'eccezione per il popolo Rom e per
essere stata nominata al Nobel per la Pace. Sento dii aver fatto molto per la
popolazione Rom. Sono stata la prima cantante che ha cantato in romanes nel
mondo, sono la Regina ufficiale della musica rom, incoronata a Chandigarh, in
India nel 1976. D'altra parte, sono speciale nel mondo musicale, non
un'eccezione per essere Rom. E' vero che ho fatto molto per dare visibilità alla
cultura Rom e per tenere insieme Rom e non-Rom, ma questo è normale, niente di
eccezionale.
I Rom sono tuttora la minoranza più discriminata in Europa. Secondo
lei quali sono le ragioni di ciò e come l'esempio di personalità come lei
può invertire la situazione?
Posso dire che la discriminazione contro i Rom è sempre esistita, ma il
popolo Rom l'ha sempre affrontata con dignità e l'ha sempre combattuta. Posso
dire che i Rom sono un popolo duro, che vive in tutto il mondo, ed è l'unico
popolo che non ha mai dichiarato guerre, l'unico popolo che non ha assimilato
degli altri.
L'attitudine Rom dovrebbe essere emulata e la loro cultura riconosciuta.
Anch'io, quando ero giovane, ho sofferto la discriminazione. Per esempio, alla
scuola elementare nessuna bambina voleva sedersi accanto a me, per la mia pelle
scura, perché ero differente dagli altri. Devo dire che ho avuto dei momenti
difficili nella mia vita di cantante rom, ma ho sempre provato a dimenticare
quei brutti momenti e cercato di ricordare le cose piacevoli che mi sono
successe come Esma Redzepova Teodosievska.
Come spiegheresti a un non-Rom chi sono i Rom e cosa significhi
esserlo nella società odierna?
Per me essere Rom significa felicità. Può sembrare strano a qualcuno che si
sia felici di essere Rom. Ma sono orgogliosa della mia origine etnica perché
sono orgogliosa della storia del mio popolo, della ricchezza della mia cultura e
dell'attitudine pacifica e cosmopolita del mio popolo che è sempre stato di una
grande apertura mentale. Il popolo Rom dovrebbe avere il diritto di scegliere il
posto dove vivere, perché non hanno un paese proprio.
Come vede la condizione delle donne Rom nella nostra società, e quale
il loro contributo alla Romanipen, l'identità e cultura Rom?
Devo dire che in Macedonia c'è un gran numero di donne Rom che giocano un
ruolo attivo non solo nella vita familiare, ma anche nella vita sociale: Molte
donne Rom lavorano sulle tematiche rom, difendono i diritti dei Rom e lottano
per il riconoscimento della cultura rom. La presenza delle donne Rom nella
società è anche dimostrata dal numero di donne Rom scolarizzate, che è in
costante aumento. In Macedonia ci sono ragazze e giovani donne che hanno
educazione superiore e grande conoscenza delle tematiche rom. Io sono tra quante
lavorano sulle tematiche rom e fanno un lavoro positivo per la comunità Rom.
Quali messaggi vorresti indirizzare ai non-Rom che leggono questa
intervista?
Il mio messaggio a tutti sarebbe di smettere di combatterci, di insegnare la
tolleranza, il rispetto e la mutua comprensione per garantire un miglior futuro
ai nostri figli ed un mondo migliore dove vivere.
This interview was made for the Council of Europe's Dosta! - Basta! campaign.
"Dosta" is a Romani word meaning "enough." Dosta is also an awareness raising
campaign which aims at bringing non-Roma closer to Roma citizens. For more
information about Dosta, go to www.dosta.org.
Di Fabrizio (del 06/12/2007 @ 09:07:19, in Italia, visitato 2019 volte)
Marco Brazzoduro segnala questo articolo da
Comincialitalia.net
di Donatella Papi
Una montante polemica nelle scorse settimane ha riguardato i rom e i campi
dove vivono comunità di nomadi. Si è sollevato il coperchio e pareva che tutto
il male fosse nel numero elevatissimo di romeni che vivono in condizioni
precarie nel nostro Paese. Sono tornata sui luoghi dove sono stati eseguiti gli
sgomberi. Ecco cosa è il degrado.
LA CANZONE
Il governo cade qui, nei campi rom del lungo argine del Tevere. Dove è stata
uccisa Giovanna Reggiani, dove Giovanna ha alzato gli occhi al cielo nella sua
ultima ora. Il Parlamento della XV legislatura si conclude tra quello che
resta di uno sgombero eseguito nel chiasso delle accuse. La Seconda Repubblica
finisce sotto il sudiciume e i resti di un'umanità incompresa, e non amata.
Li hanno mandati via. Come è stato chiesto coi rimpatri. Li hanno trasferiti
come previsto dalle ordinanza delle autorità prefettizie, del sindaco Veltroni e
come stabilito dal decreto del Ministero dell'Interno. Pensavano che fossero
loro, i rom, il volto sporco delle nostre città. Via loro puliti noi, come fosse
una rimozione. Così sono partiti: i bambini cresciuti sotto i cieli, le donne
con le grazie da gitane, i ragazzini e gli uomini dalla faccia dura. Sono
partiti, sotto l'eco roboante dei media. Via dagli argini, via dal fiume, via
dalle baracche.
Via anime. Via vita. Però il degrado è là. Sempre là. Non lo ha tolto nessuno.
E' fatto di argini incolti e dimenticati dal susseguirsi delle amministrazioni,
di un verde piegato dall'incuria, di canne intrecciate coi rifiuti. Poi fango,
melma, avanzi sedimentati in una poltiglia maleodorante e scivolosa. Una colata
di indecenza e cartacce, lattine, bottiglie. Rifiuti. Di gente che passa e getta
nella grande pattumiera cittadina.
Sono tornata dove li avevo conosciuti, i rom. Sotto il ponte bianco che porta
allo stadio Olimpico. Si erano mimetizzati, nascosti, ma in quegli anfratti
erano riusciti a creare sapori di minestre e dare una dimensione esistenziale a
luoghi di fantasmi. Pensavo di trovare il vuoto della loro presenza e quegli
spazi tornati alla proprietà capitolina. Invece d'un tratto davanti ai miei
occhi si è presentato lo scenario di una devastazione: mucchi di oggetti,
materassi logori, vecchie pentole, stracci, cuscini, ferri vecchi. Dai rom alla
vera discarica. Rifiuti e animali. Nessuno ha pulito, nessuno ha tolto nulla.
Tutto è lì. Abbiamo solo gettato via corpi di bimbi, di famiglie e di genti
rassegnate al freddo e alle difficoltà di patrie che avrebbero bisogno di
collaborazione. Li abbiamo buttati come sagome sui carri della peste di Milano.
Siamo noi la coscienza sporca collettiva.
I rom sono partiti, una notte. Dopo le urla e il sacrificio di Giovanna
Reggiani. Mi avevano telefonato terrorizzati, li avevano minacciati di dar fuoco
alle baracche. "Via - avevo detto loro -, via. A casa, qui non siete più sicuri.
Poi vedremo dalla Romania come aiutarvi". Avevano preparato i bagagli in fretta,
le poche cose che erano riusciti a portare con loro. Il resto chi doveva
togliere e pulire se non che noi, gli italiani che hanno chiesto di restituire
Roma al decoro e alla pulizia? Andate a vedere. Roma non è più pulita senza i
rom, perché non sono loro la causa del male. Il male è l'immoralità elevata a
politica che ricade sulle nostre vita come barbarie violenta e assassina. La
vergogna è che sulle disgrazie delle umanità meno fortunate i nostri onorevoli
fanno il loro spot promozionale, la puntata di un Porta a Porta, il picco di un
consenso, la loro farsa quotidiana. Nessuno poi amministra, organizza, lavora.
L'azienda romana addetta alla pulizia e ai rifiuti urbani fa commesse
all'estero, pensate che vince gare per insegnare agli altri come si tengono le
città pulite. Affari, sempre un giro di denaro nelle mani delle dirigenze. Fini,
che ha posto il problema dell' assunzione di responsabilità, gli hanno dato del
'fascista' e lo hanno infilato in un gossip. La sinistra radicale sostiene che è
nazismo chiedere gli sgomberi, ma il sudiciume non lo tocca e la gente la lascia
nelle baracche senza assistenza. Poi ci sono i ministri, i prefetti, le
autorità, gli esperti, i convegnisti, le società di appalto, le dirigenze, i
manager, ma chi pulisce Roma e l'Italia? E di che segno è il sudiciume?
Il sudiciume non è solo rifiuti e cartacce. E' qualcosa di peggio. E' l'assenza
di amore, di bene, di dignità, di correttezza. Di fede. E sì! E' assenza di
valori, di uguaglianza, di fraternità, di rispetto per l'altro, di solidarietà
verso il prossimo, di comprensione per i sofferenti, di civiltà nel cuore e
mente volta verso l'alto. E dove non c'è anima, abituatevi, ci sono topi e
ratti, poi insetti e poi e poi...
Ecco i rom ci vivono in quella terra di confine, dove il male vuole prevaricare
il bene. Ma essi vestono il lato oscuro e maligno delle cose coi loro mantelli
di canti, di cose, di amori, di figli, di espedienti. Ogni tanto, seppiatelo,
qualcuno cede. Ecco spiegati i rom. Li abbiamo mandati via, anche giustamente,
ma per la loro sicurezza e la troppa indigenza, per l'insopportabile condizione
di abbandono. Loro non ci sono più, resta solo il degrado. Di cui siamo
responsabili.
Di Fabrizio (del 07/12/2007 @ 11:15:20, in Europa, visitato 1762 volte)
Da
Roma_Italia
Al Primo Ministro Mr. Romano Prodi
Spettabile Signore!
L'ultima volta abbiamo ricevuto diverse informazioni sui Rom e le loro
difficoltà. I Rom Bielorussi esprimono la loro profonda preoccupazione sulle
recenti violenze contro i Rom Rumeni in Italia. Siamo anche preoccupati sulla
mancanza di azioni effettive delle autorità Italiane per prevenire le
aggressioni ai Rom Rumeni.
Vogliamo protestare contro la campagna di minaccia razziale in Italia contro
i Rom.
Il governo Italiano ha emesso un decreto che facilita le espulsioni dei
Rumeni ed i Rom in particolare. Questo decreto viola leggi fondamentali,
come la libertà di movimento ed altri diritti umani basici. Inoltre il governo
italiano deve considerare che la Romania è un membro dell'UE. Come membro della
UE tutti i cittadini Rumeni, senza distinzione di etnia e nazionalità, hanno
libero accesso a tutti glli stati membri UE. Così i Rom Rumeni possono restare
in Italia quanto lo desiderano. Non hanno bisogno di alcun tipo di permesso,
precetto, visto o altro. Sono Europei. Inoltre voglio sottolineare che le
espulsioni non sono una soluzione universale a tutti i problemi. Il Popolo Rom è
la parte più vulnerabile della società in tutti i paesi.
L'espulsione dei Rom dall'Italia è una violazione dei Diritti Umani, degli
accordi di base tra gli stati e una violazione della Costituzione Italiana.
I Rom Bielorussi chiedono al governo Italiano di cancellare urgentemente il
decreto d'emergenza sull'espulsione dei Rom.
Speriamo che soltanto cooperando possiamo raggiungere il successo e la
prosperità.
Spero che questi incidenti non possano influenzare su tutte le relazioni
interetniche in Italia. Spero che l'Italia, come paese democratico, possa
trovare il coraggio e la saggezza di sedersi ad un tavolo e trovare la
soluzione.
Con i migliori saluti
Kalinin Nicolas
Delegato Bielorusso al Forum dei Rom e Viaggianti Europei (ERTF)
3.12.2007
Minsk
Di Fabrizio (del 08/12/2007 @ 14:19:39, in casa, visitato 1827 volte)
Da Roma_ex_Yugoslavia
By Kristina Lozo and Bozidar Jovanovic in Belgrade 07 12 2007 Le autorità di Belgrado affermano che il progetto di spostare centinaia di Rom dalle loro baracche proseguirà, nonostante l'opposizione degli altri abitanti della città che non vogliono i Rom come vicini.
A solo pochi metri da uno dei principali ponti di Belgrado, 237 famiglie Rom sono accampate in mezzo ai ratti e a mucchi di immondizia.
Per molti queste baracche sono la loro unica casa. Ora è prevista la loro demolizione per una ristrutturazione del ponte Gazela in previsione per l'anno prossimo.
"Questa non è vita, non abbiamo niente per vivere" dice Cakan Sabanovic, in sei in famiglia.
Gli abitanti di questa baraccopoli stanno attendendo con ansia notizie su dove saranno spostati dopo che le loro dimore saranno demolite. Il 24 settembre le autorità serbe hanno bandito un'asta per la ricostruzione del ponte Gazela, e sei compagnie straniere hanno sottoposto le loro offerte. L'importo è di 77 milioni di €.
La Banca d'Investimento Europea fornirà metà dei fondi, ed il resto sarà a carico della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo con base a Londra. Il comune di Belgrado si è impegnato ad allocare fondi per sistemare le 237 famiglie che saranno sgomberate dalla baraccopoli.
Il ponte Gazela fu costruito 30 anni fa, ed ha bisogno di una sistemazione dopo decenni di incuria e traffico pesante. I lavori, che originariamente dovevano partire questo mese, sono stati dilazionati a primavera 2008, a causa dell'inverno incombente.
Lo spostamento di quanti vivono sotto il ponte avverrà d'accordo con le decisioni del municipio di Belgrado, che si è assunto la responsabilità di trovare una casa a queste famiglie," dice Tamara Motrenko, della compagnia statale Putevi Srbije che ha vinto il bando di ricostruzione.
"Penso che le famiglie Rom saranno spostate prima che inizi la revisione del ponte," dice Zivojin Mitrovic, incaricato governativo che si occupa delle aree di vita malsane.
Motrenko, d'altra parte, dice che lo spostamento dei Rom non influirà sull'inizio dei lavori.
La baraccopoli ha una fognatura ed un servizio idrico dilapidati e le famiglie si sono collegate alla rete elettrica con sistemi "fai da te".
Le condizioni di vita sono terribili. Quando piove c'è fango dappertutto con cavi dappertutto," dice Branko Kalanjos, che vive lì con i quattro figli.
Tutti i suoi figli vanno a scuola e il più grande ha iniziato la scuola secondaria.
"Immaginate, i miei bambini trottano tre miglia nel fango per andare a scuola," aggiunge Branko.
Le autorità cittadine avevano già provato a spostare queste famiglie in un blocco d'appartamenti a Nuova Belgrado.
Il tentativo è fallito a causa delle proteste di quanti non volevano i Rom come vicini di casa. Anche quanti il cui lavoro è di eliminare gli slum anti igienici, hanno qualche simpatie per questa attitudine. "Se qualcuno mi chiedesse se voglio i Rom del ponte Gazela come vicini, probabilmente direi no," dice Mitrovic. Altri paesi europei hanno problemi simili. Secondo la televisione belgradese B92, le autorità slovacche hanno ricevuto minacce anonime dopo aver costruito appartamenti per i Rom che vivevano nelle baraccopoli, mentre alcune famiglie Rom della capitale slovena Lubiana sono state allontanate per motivi ecologici ed igienici dicendo loro di non fare più ritorno.
Mitrovic dice che sono stati predisposti 100 siti per il rialloggio dei Rom di ponte Gazela, ma che c'è il rifiuto di identificarli per la possibilità di proteste di massa di quanti sono riluttanti a vivere accanto a questo gruppo etnico.
Gli stessi Rom sono incerti sui benefici del loro spostamento e, come dice uno di loro, vogliono rimanere uniti.
Il segretariato governativo per il welfare sociale ed infantile è tra i coordinatori del progetto.
"L'idea è di integrare i Rom nella società civile in termine di assistenza sociale ed infantile, scolarizzazione ed impiego per quanti vivono sotto il ponte Gazela che abbiano i fogli di residenza," dice Ljiljana Jovcic, capo del segretariato.
Il segretariato ha raccolto i nomi di tutti i Rom che vivono sotto il ponte e disegnato una mappa sulla base di dove saranno rilocati. Molti di loro non sono registrati come residenti a Belgrado, essendo arrivati nella capitale serba per cercare migliori condizioni di vita. Il segretariato dice che a tutti verrà data sistemazione, aggiungendo che sono stati create due categorie.
"Un gruppo consiste nei residenti legali a Belgrado, che saranno sistemati permanentemente. Gli altri che sono arrivati nella capitale per lavorare occasionalmente e verrà data loro qualche tipo di sistemazione collettiva. Vorrebbero essere nel primo lotto ma ancora non abbiamo deciso se questo sia fattibile," dice Mitrovic.
Sentire tutti gli abitanti del ponte Gazela ha impiegato 10 giorni, mentre la seconda fase, rivolta alle case future, dovrà essere completata per la fine del 2007.
"Vogliamo fornire a queste persone i loro bisogni basici. Avranno acqua corrente, elettricità, bagni, scolarizzazione e lavoro, con uno stipendio sufficiente a pagare le bollette," dice Mitrovic.
Il segretariato per il welfare sociale ed infantile ha anche giocato un ruolo per trovare casa agli abitanti Rom.
"Stiamo cercando le soluzioni giuste perché alla famiglie Rom siano offerte migliori condizioni di vita ed abbiano la possibilità di integrarsi nella società, " dice Ljiljana Jovcic.
Mica Tapirovic, una residente del ponte Gazela, dice che "tutti noi speriamo in una vita migliore e io voglio dimenticare come viviamo qui." Aggiunge: "Spero che non dovremo tornare qui dopo lo spostamento." [...]
"Vogliamo che l'insediamento porti migliori condizioni di vita, facendo attenzione a quanto potrebbe diventare incompleto e difettoso. Non vogliamo ripetere la disastrosa situazione attuale," spiega Mitrovic.
Ci sono molti pregiudizi sui Rom come pigri e gente litigiosa, ma nessuno di quanti abbiamo sentito a ponte Gazela ha detto di preferire di vivere in mezzo al fango e alla spazzatura, senza elettricità, acqua corrente o lavoro. "Dove c'è volontà, c'è una strada. Noi apprezzeremmo molto migliori condizioni di vita se ci spostano," dice Branko Kalanjos. Le autorità cittadine dicono che ci sono soldi a sufficienza per completare il progetto.
Danijel Djularis, capo dell'ufficio serbo dell'Agenzia di Ricostruzione Europea, ERA, ha recentemente affermato che l'ERA si sta preparando ad investire 2 milioni di € per risolvere il problema dei Rom, non appena il municipio di Belgrado sottoporrà un piano fattivo.
Mitrovic, d'altra parte, rimane scettico su quante promesse possano concretizzarsi. Dice "Sinora, la cosa non è andata oltre gli accordi e le promesse preliminari."
Kristina Lozo and Bozidar Jovanovic are reporters with the Rom Radio in Obrenovac. Balkan Insight is BIRN`s online publication. This article was published with the support of the British embassy in Belgrade and Organization for Cooperation and Security in Europe, OSCE, mission in Serbia, as part of BIRN's Minority Media Training and Reporting Project
Di Fabrizio (del 08/12/2007 @ 22:27:03, in Italia, visitato 1951 volte)
COMUNICATO STAMPA - Invito
MILANO, ITALIA. ROM E POLITICHE SOCIALI, TRA INSICUREZZA E INTOLLERANZA
CONFERENZA STAMPA LUNEDÌ 10 DICEMBRE, ORE 14,30, PRESSO LA CAMERA DEL LAVORO DI
MILANO
Il 10 dicembre la Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo compie 59
anni. Ma non lo si direbbe, tanto è vasto e sistematico il panorama delle
violazioni e delle discriminazioni che colpiscono singoli individui e interi
popoli ai quattro angoli del mondo. In aree di guerre, di conflitti e di
dittature, con stragi, genocidi e uccisioni. Ma anche in Paesi a salda
tradizione democratica, dove la tortura viene ora addirittura teorizzata e
neppure più nascosta, come a Guantanamo.
Seppure su un piano diverso, la violazione dei diritti avanza e si estende anche
nelle nostre città, dove la questione della legalità e della sicurezza non di
rado viene strumentalizzata politicamente e diviene pretesto per politiche miopi
e autoritarie, che trasformano i problemi sociali in questioni di ordine
pubblico.
Uno di questi problemi riguarda i Rom. In generale, e a Milano in modo
particolare, dove le autorità cittadine dal 2003 all’ottobre 2007 hanno fatto
340 interventi di sgombero in aree dismesse e insediamenti abusivi; mentre da
gennaio 2007 a oggi sono stati più di 65. Questi sgomberi quasi mai sono stati
accompagnati da alternative, ma si sono limitati a scacciare con le ruspe,
costringendo all’addiaccio e a condizioni di vita ancora peggiori uomini e
donne, anziani e bambini.
È un modo di spostare il problema, di nascondere la polvere sotto il tappeto. Ma
in questo caso, la polvere è costituita dalla vita di migliaia di persone, di
centinaia di famiglie smembrate e perseguitate senza colpa, se non quella di
essere poveri e privi di opportunità abitative.
Si tratta di una politica, o meglio di una non-politica, che insegue le logiche
di emergenza, incapace com’è di analisi dei problemi, di ascolto, confronto,
programmazione, risposte equilibrate.
Ma l’unica emergenza, in questo caso, è quella umanitaria.
Per questo motivo un gruppo di associazioni il 10 dicembre, alle ore 14,30
presso la Camera del Lavoro di Milano (corso di Porta Vittoria 43) terrà una
Conferenza stampa sui problemi dei rom a Milano, significativamente e
simbolicamente indetta nella Giornata mondiale dei Diritti Umani.
Occasione e motivo della conferenza stampa è la nascita di un Cartello
permanente delle associazioni milanesi che operano per promuovere una città e
politiche inclusive.
· Saranno illustrate le prime proposte del Cartello di associazioni,
finalizzate a uscire dalla logica dell’emergenza e a chiedere confronto e
cambiamento di rotta alle istituzioni locali.
· Proposte che troveranno un successivo momento di dibattito e verifica in un
Convegno che si terrà a metà gennaio a Milano, cui sono stati invitati i
ministri con competenze sui problemi posti.
Prime adesioni al Cartello e saranno presenti:
Caritas Ambrosiana
Acli Milano
Arci
Opera Nomadi Milano
Associazione Rom e Sinti Insieme
Gruppo Abele Milano
Comunità di S.Egidio
Cgil Camera del Lavoro di Milano
Naga
Associazione Nocetum
Associazione Aven Amenza
Padri Somaschi
Associazione Liberi
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