 CORRIEREIMMIGRAZIONE 28 aprile 2013 | di Clelia Bartoli
CORRIEREIMMIGRAZIONE 28 aprile 2013 | di Clelia Bartoli
Le forme del razzismo sono tante e diverse: ve ne sono di chiassose e sfacciate, 
ma anche di pudicamente ipocrite, alcune utilizzano la forza bruta, altre si 
avvalgano dell'insulto o del semplice sguardo, altre ancora impiegano strumenti 
di oppressione più subdoli e sottili.
Tra i razzismi che amano mascherarsi, a mio avviso, va annoverato 
l'assistenzialismo: tale agire appare generoso, benevolo, preoccupato di 
soddisfare i bisogni dei deboli, ma esso in realtà è offensivo, dannoso e 
perfino razzista.
È razzista perché ripropone il mito coloniale del buon selvaggio, del quale 
l'uomo bianco deve "prendersi cura", senza che il selvaggio venga però invitato 
al tavolo delle decisioni che riguardano la sua vita. L'assistenzialismo dunque 
infantilizza l'assistito: lo reputa minore, lo tratta da minore, lo abitua alla 
minorità. E ciò, come spiega Kant, reca vantaggio al narcisismo degli aspiranti 
tutori e foraggia l'inclinazione umana alla pigrizia e alla delega. Una perfetta 
rappresentazione iconografica dell'assistenzialismo l'ha fatta il regista che ha 
firmato uno spot (...) per un programma di solidarietà verso le donne 
africane Un mese per la vita, promosso dalla fondazione Rita Levi-Montalcini 
insieme all'acqua Lete.
Lo spot – alquanto discutibile a sostegno di un progetto probabilmente meritorio 
– mostra la mano di una donna nera che iniziava a scrivere con un gesso su una 
lavagna la parola "futuro", quando arrivava la mano di un'anziana donna bianca a 
guidarla nella scrittura di tale parola. La donna africana è così paragonata ad 
una bambina di scuola elementare che l'insegnante europea deve guidare dirigendo 
la progettazione del futuro dell'assistita. Viene ad istaurarsi un rapporto 
fortemente asimmetrico tra chi guida e chi è guidato, tra chi è autore del 
proprio futuro e chi è eterodiretto nel proprio progetto di vita.
L'assistenzialismo ha inoltre un elevato costo per l'intera comunità e questo fa 
sì che i "beneficiati", visti come parassiti, non attirino su di sé troppe 
simpatie. Ma ciò non sarebbe un vero problema se davvero soggetti svantaggiati 
acquisissero un vantaggio e dunque una maggiore uguaglianza. Il problema è che 
l'assistenzialismo (cosa diversa da una giusta solidarietà sociale) non reca 
grandi benefici ai "beneficiati". Dijana Pavlovic, in un articolo dal titolo 
appunto Dall'assistenza alla responsabilità apparso sull'ultimo numero di "Near" 
(p. 27), scrive:
"Il mio amico attivista rom Giorgio Bezzecchi mi racconta che nel suo villaggio 
di 50 persone (una famiglia allargata) non ci sono particolari problemi. Tutti 
sono autonomi e si occupano di se stessi da anni. Lavorano, sono cittadini 
italiani, accedono ai servizi come tutti gli altri. Da qualche anno quel campo è 
affidato in gestione a una cooperativa. Ci sono alcuni operatori che vengono al 
campo per "assistere" le persone. La conseguenza è che i rom che hanno bisogno 
di fare una fotocopia o andare in un ufficio per compilare un modulo adesso si 
fanno accompagnare dagli operatori. Oltre ai costi materiali di questa 
operazione da non sottovalutare e che pesano su tutti i cittadini, il costo più 
grande lo pagherà per intero quella comunità rom: sempre più deresponsabilizzata 
e sempre meno autonoma".
L'assistenzialismo è una forma di aiuto che tarpa le ali, che non cede potere, 
che parte dall'assunto dell'incapacità del debole di risolvere le cose da sé, 
che anchilosa la forza e le abilità, che abitua alla dipendenza e alla 
deresponsabilizzazione, che produce apatia e fatalismo, che foraggia 
l'autocompiacimento di chi vuole controllare per mezzo di un aiuto interessato. 
Esso umilia obbligando ad una gratitudine che facilmente si converte in rabbia 
verso il solerte salvatore. La rabbia, infatti, si scatena puntualmente verso 
quei genitori, insegnanti, operatori sociali, ecc. che "dandoci" in realtà "ci 
rubano" la possibilità di essere autori delle nostre vite.