Stefano Galieni | 18 marzo 2013 | Fonte:
corriereimmigrazione.it
Il titolo del convegno è esplicito: Il ruolo delle donne rom nella tutela dei 
diritti umani e in tempi di crisi economica. Lo ha organizzato a Roma la sezione 
italiana di Amnesty international, riunendo quattro donne unite da forti 
motivazioni, esperienza, capacità comunicative e competenza: Isabella Miheleche, 
attivista per i diritti delle donne in Romania, Beatriz Carrillo, presidente 
dell'associazione Fakali, per i gitani nella regione spagnola dell'Andalusia, Dijana Pavlovic, dell'associazione Rom e Sinti insieme che opera in Italia, e 
Dzemila Salkanovic, per l'associazione 21 luglio.
Isabela Michalache, nel denunciare l'aumento delle discriminazioni, le 
difficoltà nell'accesso al lavoro e ai servizi pubblici (è successo che anche i 
medici, a volte, abbiano rifiutato le cure), ha toccato anche il delicato tasto 
delle problematiche interne alle stesse comunità, dai casi di violenza fra le 
mura domestiche al ripristino di regole ancestrali come quella sulla verginità e 
ai matrimoni precoci. A causa della crisi, ha spiegato, le donne sono divenute 
ancora più vulnerabili. In Romania era stato approvato un piano strategico 
nazionale che prevedeva interventi a lungo termine, soprattutto nel campo della 
formazione e dell'istruzione, ma non ci sono le risorse per attuarlo. 
"Bisognerebbe – ha affermato Michalache – operare per rendere le donne più 
autonome, fornendo libri di testo, sussidi alle famiglie, favorendo la 
concessione di crediti per chi ad esempio in Moldavia, vuole lavorare la terra, 
bloccare sfratti e sgomberi che creano emarginazione e disagi, produrre 
cambiamento anche valorizzando le ong composte da rom. Ci sarebbero mille 
piccoli interventi alla nostra portata, non solo in Romania, e che produrrebbero 
cambiamenti importanti e duraturi".
Beatriz Carrillo, con un intervento molto appassionato, ha voluto aprire una 
riflessione su quella che ha definito "storia muta e invisibile", anche se è 
consapevole che la situazione spagnola finora è stata fra le migliori d'Europa. 
Sarà per una presenza numericamente molto consistente, stabile e nata da tempi 
lontani e per una programmazione di interventi messi in atto per la salute, il 
lavoro, l'istruzione, fatto sta che in Spagna sono nate istituzioni partecipate 
e riconosciute dal governo come il Consiglio statale del popolo rom e l'Istituto 
di cultura gitana. In Spagna si è tenuto il primo congresso mondiale delle donne 
gitane senza aver bisogno di intermediari. "La Spagna in questo senso è un 
modello da seguire – ha dichiarato la relatrice- Ma da noi è stato più facile 
anche grazie all'alto numero di gitani che esercitano professioni che hanno 
esercitato influenza nella cultura spagnola e che si sono amalgamati con la 
società". L'immagine che però viene riaffermata anche in Spagna delle 
popolazioni rom è carica di negatività, tanto che nelle scuole, a detta di Carrillo, spariscono la lingua, le differenze e anche la rivendicazione di 
identità. "Anche da noi, come nel resto d'Europa, le cose peggiorano. Gruppi 
estremistici entrano nei governi e nei parlamenti con un messaggio razzista e 
discriminatorio. Gruppi che vengono condannati a parole ma mai concretamente 
sanzionati. La situazione è poi precipitata anche da noi con la crisi. Non 
vogliamo essere un fanalino di coda ma essere ad armi pari. Non siamo disposte a 
vedere annientati i nostri valori culturali, vogliamo affrontare anche con gli 
uomini la società gitana. Fakali è impegnata per l'emancipazione femminile e per 
far valere i nostri valori di solidarietà e rispetto rifiutando però 
l'assimilazione". E c' è stato anche modo e tempo per ricostruire un percorso 
che attraversa gli anni bui della dittatura franchista e che ha una svolta nel 
1978 quando, nel primo governo democratico, trova posto anche un rom che si era 
distinto per l'impegno in anni scomodi. Le donne rom hanno operato anche insieme 
alle altre cittadine spagnole, per una legislazione più paritaria, sono entrate 
nelle università e hanno fatto sentire anche politicamente la propria voce.
Dijana Pavlovic ha stupito e commosso recitando una parte del monologo Vita mia 
parla, basato sulla vita di Mariella Mehr, scrittrice e poetessa jenish (nome 
dato ai rom svizzeri), che nel paese elvetico fu vittima del programma di 
sterilizzazione forzata imposto dagli anni Venti fino al 1974 tramite 
l'istituzione Pro Juventute. Un testo violento e diretto, in cui si raccontano 
con crudo realismo le violenze subite e l'odio accumulato, torture che non 
sembrano possibili e che pure sono state reali in un Europa cieca e pronta a 
girarsi dall'altra parte.
Dzemila Salkanovic, invece, come racconta nella lunga 
intervista che ci ha 
rilasciato, ha parlato della vita difficile che nella capitale italiana 
conducono i rom, tanto divisi e poco capaci ancora di fare fronte comune.
Numerose le domande che hanno trovato puntuale e non scontata risposta. A chi 
criticava il machismo spesso diffuso nelle comunità rom è stato comunemente 
risposto come il machismo, la violenza sulle donne, gli elementi di 
problematicità a volte drammatica, siano caratteristica comune e da combattere 
in ogni cultura. Non nascondendosi dietro alla presunzione che il problema 
riguardi solo universi ritenuti inferiori ma mettendosi, come uomini e come 
donne, in discussione. Fra i tanti elementi emersi, che meriterebbero ulteriori 
approfondimenti, il peggioramento delle condizioni nell'Est europeo dopo il 
crollo del muro e dei regimi. C'era concordia nell'affermare che la 
privatizzazione di ogni servizio abbia approfondito le disparità, tolto ai rom 
diritti acquisiti come la casa, la sanità, la scuola e il lavoro. Duro accettare 
che tali disagi vengano comunemente imputati alla "democrazia". E' comune la 
richiesta di una moratoria continentale della politica degli sgomberi, capaci 
solo di produrre disperazione. E a dirlo, a spiegarlo non sono attivisti neutri 
di associazioni che si occupano dei rom, ma donne rom in carne ed ossa.