Segnalazione di M. Cristina Di Canio
Storia incredibile di alcune famiglie rom, imparentate tra loro, che dagli 
anni novanta in poi, quando il clima sociale e politico in Kosovo cominciava a 
farsi pesante, lasciarono le loro case per raggiungere l'Italia. Pensavano di 
essersi lasciati alle spalle l'inferno. Arrivarono, invece, al CASILINO 900. 
10 settembre 2009 - Raffaele Coniglio (http://raffaeleconiglio.blogspot.com)
Reportage fotografico
Roma. Giornata calda e afosa di fine agosto. Il clima insopportabile si 
percepisce nei volti dei rom del Kosovo che vivono nel campo-ghetto più vecchio 
della capitale. Sanno di dover presto lasciare la miseria costruita in tanti 
anni per una nuova destinazione rimasta ancora oggi top secret, probabilmente 
per non creare allarmismi tra i residenti che dovranno accoglierli. Tredici 
villaggi autorizzati, a fronte degli oltre cento campi nomadi oggi esistenti, 
tra insediamenti abusivi e campi cosiddetti "tollerati". Non più di 6.000 nomadi 
sul territorio romano, invece dei quasi 7.200 attuali. Sono questi i principali 
obiettivi del piano "Nomadi" messo a punto dal prefetto Pecoraro e tanto voluto 
dal sindaco capitolino che ha impostato la sua campagna elettorale anche e 
soprattutto su queste tematiche. Grande senso di sollievo per i residenti del VII municipio di Roma che dopo decenni di "degrado e criminalità spicciola" si 
vedono finalmente riqualificare l'intera area. Grande senso di smarrimento per i 
circa 800 abitanti delle baraccopoli del Casilino 900 che non conoscono il loro 
futuro. Il Casilino 900 è infatti uno dei primi campi che si prevede sarà 
chiuso. Entrò metà ottobre, il 50% circa dei suoi abitanti dovrebbe essere 
spostato altrove. I lavori sono già in corso. Ieri, durante la mia visita al 
campo con il fine principale di parlare con i rom del Kosovo e conoscerli 
meglio, ho notato che la Croce Rossa Italiana era lì, intenta a consegnare le 
schede per un primo censimento. "Modulo ricognizione nuclei familiari", era 
scritto su tali documenti. Accompagnato, in questa mia avventura, dai miei amici 
Santo e Ehsan, ci siamo dovuti improvvisare mediatori per rispondere alle 
domande che le varie mamme preoccupate e gli uomini del posto ci rivolgevano, 
ignari di cosa fossero quelle carte che tenevano tra le mani. Accolti nel 
"giardino" di casa del signor Resat, il neo avvocato Santo ha riempito i moduli 
della famiglia Prekuplja, mentre io ed Ehsan, incantati dallo scenario che 
avevamo davanti ai nostri occhi, abbiamo scattato qualche foto e chiacchierato 
con i parenti di Resat ed i suoi vicini. Questa era la mia prima volta nel 
Casilino 900. Ed anche per i miei accompagnatori. A differenza loro, però, avevo 
familiarità con i campi rom, avendoli visitati in Kosovo già svariate volte. 
Trovandomi di fronte al centro romano, sono però rimasto immobile per diversi 
secondi. Il degrado e la miseria del Casilino 900 non si differenziavano affatto 
da quelli del Plemetina Camp nelle vicinanze di Obliq o Cesim Lug e Osterode di 
Mitrovica. Comuni erano anche le agghiaccianti scene di vita quotidiana e le 
terribili azioni dei bambini dettate dal bisogno. Dovendole mettere sulla 
bilancia dell'indigno umano, credo, però, che il Casilino 900 supera, seppur di 
poco, i campi rom del Kosovo, per il semplice fatto che in una potenza mondiale, 
come si definisce l'Italia, culla della democrazia e dei diritti umani, cuore 
dell'Europa, è inaccettabile vedere, ancora oggi, luoghi mostruosi e inumani 
come quello che mi si è presentato davanti agli occhi sulla Palmiro Togliatti. 
All'interno del Casilino 900 sono alloggiate oggi circa 800 persone, la maggior 
parte di loro bambini. Qui, ognuno nella propria fetta di terra, in modo da aver 
costituito autentici ghetti nel ghetto, vivono i rom di 4 diverse nazionalità. 
Sono montenegrini, macedoni, bosniaci e kosovari. Per via delle diversità 
culturali e di problemi causati da motivi a noi sconosciuti, gli abitanti del 
campo ci hanno raccontato che le tensioni tra i vari gruppi non sono mai 
mancate, anzi, nei pochi momenti di aggregazione e di collaborazione, 
incentivati soprattutto dalle organizzazioni che di volta in volta hanno 
lavorato nel campo, si sono verificati scontri sfociati in vere e proprie risse. 
La chiusura e l'ermetismo che sembrano propri della cultura rom lasciano 
trapelare comunque ben poco all'esterno. Anche per questo Savorengo Ker (in 
lingua Romanés "La casa di tutti"), il nobile progetto realizzato da vari 
architetti italiani in collaborazione con alcune Università di Roma ed i 
rappresentanti delle 4 comunità rom del campo, è andato in fumo, bruciato in 
meno di due ore in una piovosa notte di inverno. Nessuno sa chi sia stato a 
distruggerlo. Comincio a pensare che le tensioni interne ai quattro gruppi siano 
alla base delle poche macerie rimaste. Comincio a sospettare questo, non per 
annacquare le grandi responsabilità delle amministrazioni locali che negli anni 
si sono succedute, o dell'Italia in generale, ma perché, di fronte 
all'inefficienza delle politiche sociali dell'Italia - per quel po' che vi 
rimane, alle maldestre politiche di immigrazione, e di fronte ai preoccupanti 
scenari populistici cavalcati in questi anni, le divisioni e le lotte intestine 
tra gli occupanti del campo hanno certo contribuito a rendere questo posto 
ancora più deplorevole. In poche parole, è evidente che nessuno dei suoi 
abitanti si preoccupa più di rendere il posto sicuro e pulito, spazzando via 
l'erbaccia e la spazzatura. Al contrario, nell'indifferenza e nel menefreghismo 
generale, usano i loro stessi spazi come mondezzai, terreno fertile per le 
malattie dei propri figli. Porto grande rispetto per chi versa in grandi 
difficoltà, e i rom del Casilino 900 senza dubbio si trovano in questa 
situazione, ma non credo che si possa restare indifferenti ed inattivi di fronte 
alla giungla che cresce vicino casa, quella dove provano a giocare e divertirsi 
i tuoi figli. Potrebbero provvedere a ripulire il campo per vivere un po' più 
decorosamente e mostrare all'esterno un'immagine meno grigia di quella che tanti 
esterni gli hanno facilmente affibbiato. Ad ogni modo, sono stato felice di 
essere ospite di alcuni generosi membri del campo. La famiglia Hamdi, ad 
esempio, mi ha fatto accomodare dentro casa sua. E, per quanto precaria questa 
potesse essere, la sua costruzione in legno mi è apparsa molto dignitosa, pulita 
e ordinata. Davvero! Una sorpresa, l'esatto opposto di quello che si vedeva 
fuori.
Quanto alle responsabilità nostre potrei scrivere un libro. Mi limito a 
soffrire in silenzio.