Si intitola così il libro che le edizioni BFS propongono, destinato non ai 
cani ma ai loro padroni. È nato pensando al fatto che alcune cose, alcuni 
concetti, siano molto semplici. E che in realtà non c’è nulla di complicato 
nella questione “zingara”, se non le barriere mentali che noi stessi costruiamo. 
Ne pubblichiamo qui l’introduzione.
Chiariamo subito una cosa. Questo libro non è destinato ai cani, ma ai 
padroni dei cani. È importante dirlo. Non è scritto pensando che chi vuol capire 
qualcosa in più sull’antiziganismo – ossia sui pregiudizi contro rom e sinti – 
sia un cane. Anzi. Questo libro è nato pensando al fatto che alcune cose, alcuni 
concetti, siano molto semplici. E che, in realtà, non c’è nulla di complicato 
nella “questione zingara” se non le barriere mentali che noi stessi costruiamo. 
Questo scritto, quindi, affronta alcuni luoghi comuni sugli “zingari” e cerca di 
spiegare perché non hanno senso.
Gli “zingari”
Finora abbiamo scritto “zingari” tra virgolette. Cominciamo dai termini 
corretti. Non si può, infatti, parlare di qualcosa e usare termini sbagliati. 
Perché è sbagliato usare la parola “zingari”? Prima di tutto perché si tratta di 
un eteronimo. Cioè di un termine attribuito dall’esterno, imposto. Se vogliamo 
ragionare insieme e dialogare, dobbiamo chiamarci con il nostro nome.
La parola “zingaro” di per sé non è dispregiativa, come non lo sarebbe la parola 
“negro”. Negro, una volta, non era un dispregiativo. Ora lo è diventato. E se il 
termine “zingaro” non avesse un carattere negativo? Potrebbe pure essere 
corretto se nella trattazione ci si riferisse ad un insieme di gruppi molto 
eterogenei tra loro per lingua, cultura, valori, modi di vita. Se si vuole 
invece far riferimento a gruppi particolari, è appropriato utilizzare termini 
più specifici. Se poi desiderassimo essere aperti alla comunicazione, ancora di 
più dovremmo rispettarci e chiamarci con il nostro nome. Se invece vogliamo 
esprimere dei pregiudizi, va benissimo.
Se vogliamo riferirci ai gruppi presenti storicamente in Italia, dovremo parlare 
di rom e sinti. Ogni gruppo ha poi denominazioni specifiche. Ci sono i rom 
napulengre (di Napoli), i rom abruzzesi, i sinti piemontesi, lombardi, veneti, 
teich (tedeschi), marchigiani, emiliani. E poi ancora ci sono i roma harvati, 
detti anche istriani o sloveni, anch’essi cittadini italiani dal secondo 
dopoguerra. Rispetto a questi ultimi, infatti, va considerato che il 
rimescolamento geografico dei rom e sinti europei a causa delle due guerre 
mondiali è stato forte. Durante il nazifascismo, poi, sono stati deportati e 
sterminati, per non essere infine riconosciuti come vittime di persecuzione 
razziale neppure al processo di Norimberga.
Negli ultimi anni ci sono anche state nuove migrazioni. Non stiamo parlando di 
nomadismo, ma di migrazioni. Molti rom sono giunti da diversi paesi dell’ex 
Jugoslavia, sono scappati dalle persecuzioni e dalle guerre. Recentemente molti 
rom sono giunti dall’Est Europa, principalmente dalla Romania, ma anche dalla 
Bulgaria e dalla Slovacchia. Migrano perché in questi paesi, oltre ad esservi 
meno ricchezza economica, vi è molta discriminazione nei loro confronti. Non che 
in Italia non ce ne sia, ma almeno c’è qualche opportunità in più di rifarsi una 
vita.
I “nomadi”
Il termine “nomadi” andrebbe usato solamente nel caso in cui si stia parlando di 
gruppi che effettivamente praticano il nomadismo. Pare un concetto nient’affatto 
complicato. Eppure è un argomento difficile. Oltre il 95% dei rom e sinti 
presenti in Italia non pratica il nomadismo. Anni fa i gruppi sinti si 
spostavano molto di più, giravano per i paesi, praticavano vecchi mestieri. Ma 
le cose cambiano.
Se non sono nomadi, perché i rom e i sinti vengono sempre etichettati come 
nomadi? È uno dei temi interessanti da affrontare. Una delle ragioni dell’odio 
nei confronti di rom e sinti è dovuto alla loro presunta non integrabilità. Il 
nomadismo calza bene con questo concetto. In uno stato-nazione fondato sul 
territorio, sulla sua difesa, sull’identità territoriale, uno che non è legato 
al territorio è pericoloso. Più o meno inconsciamente il nostro ragionamento si 
alimenta del fatto che questi “nomadi” non sono integrabili, che non lo sono 
perché non sono legati ad un territorio. Quindi sono asociali. Sono infatti 
asociali in quanto, si legge nelle carte del III Reich che giustificavano il 
loro internamento e sterminio, possiedono il gene del nomadismo, il 
Wandertrieb.
Come accennavamo prima, durante il processo di Norimberga non venne riconosciuto 
il fatto che lo sterminio di quasi un milione di rom e sinti sia stato dovuto a 
ragioni razziali. In fondo, si disse, erano stati perseguitati in quanto 
asociali. Certo, ammisero i giudici, tutti gli “zingari” sono asociali per 
vocazione innata. Razzialmente asociali allora? No, ma in fondo tutti sappiamo 
che gli “zingari” sono asociali e non integrabili. Questa logica fa acqua da 
tutte le parti, ma si comprende benissimo dove vada a parare.
È qui che lo “zingaro” cade a fagiolo. Perché in qualche modo ci fa comodo 
identificarlo con il nostro peggior nemico. Sono i nomadi coloro che mettono in 
pericolo il nostro ordine, coloro che ci derubano, che ci rapiscono i bambini, 
che stuprano le nostre donne. Li odiamo. Oppure li vogliamo normalizzare, 
rieducare. Ecco allora che siamo noi a voler portare via loro i bambini per 
educarli, integrarli nelle leggi di ordine, proprietà e uniformità. Il termine 
“nomade” è difficile da combattere per queste ragioni. 
Ma forse i rom e sinti non si riconoscono in questo ruolo. Forse non sono i 
razziatori. Forse non agiscono per danneggiare qualcosa o qualcuno. Insomma: e 
se, invece, tutto fosse solo nella nostra testa?
I figli del vento
Il pregiudizio non è solo negativo. Quello positivo può essere altrettanto 
dannoso. Infatti, non ci aiuta certo nella comprensione. Lo “zingaro” libero, 
figlio del vento, l’artigiano nomade che lavora il rame, l’allevatore di 
cavalli, appartenente al popolo anarchico per eccellenza, che balla e canta 
melodie struggenti al chiaro di luna, che dorme sotto le stelle e vive alla 
giornata. Sono in genere nient’altro che luoghi comuni dell’esotismo, proiezioni 
romantiche di ciò che vagamente vorremmo essere. In ogni caso, sono costruzioni 
arbitrarie e unilaterali.
L’idea del Wanderer (“viandante”) era centrale nel romanticismo tedesco di 
inizio Ottocento. La fuga come desiderio poetico statico – desidero la fuga 
perché sono incapace di realizzarla – è però ben diversa dalla fuga reale o 
immaginaria, ma creativa e ricombinatoria, di chi ricerca e persegue la 
trasformazione.
L’attrazione astratta ed asettica verso colui che è capace di lasciare tutto 
(gli affetti, la casa, le proprietà) per mettersi in viaggio verso l’ignoto 
rischia di essere il contraltare dell’odio e del desiderio di annientamento nei 
confronti di chi incarna questa capacità. La staticità monolitica del III Reich, 
apice dello sforzo omologante ed identitario sorge, non a caso, in seno alla 
stessa società che ha generato l’idea romantica del Wanderer, a suo modo 
nutrendosene. Da Wanderer a Wandertrieb il passo può essere breve.
Gli “zingari” vogliono integrarsi?
Se gli “zingari” vogliano integrarsi è una delle domande più comuni che 
circolano. A chi chiede una cosa simile mi è capitato di rispondere di sì, che 
in realtà la stragrande maggioranza dei rom e sinti che vivono in Italia 
vogliono integrarsi. Ed è un dato di fatto. Se solo fossimo capaci di ascoltare, 
ci verrebbe detto da loro stessi.
Se inoltre fossimo capaci di vedere, ci accorgeremmo che quelli che noi 
etichettiamo come “zingari” sono solo una parte dei rom e sinti presenti in 
Italia. Molti rom e sinti sono assolutamente “integrati” e mai si sognerebbero 
di andare a dire in giro di essere “zingari”. Hanno una casa, un lavoro, le 
donne non portano le gonne lunghe. Nessuna di queste caratteristiche in realtà è 
fondamentale per essere rom o sinti.
Ma torniamo all’“integrazione”. Cosa intendiamo con “integrarsi”? Non facciamo 
confusione. Non vuol dire assimilarsi. Se per un attimo prendiamo in 
considerazione il fatto che in una società integrarsi significhi convivere 
civilmente ed essere rispettati nella propria diversità, allora può andare bene. 
Purtroppo le società aperte a questo tipo di integrazione sono rare. Assimilare, 
invece, vuol dire pretendere dall’altro l’omologazione: un atteggiamento molto 
più diffuso.
Pur essendo ottimista e considerando l’integrazione possibile in una società 
aperta, quando sostengo che i rom e i sinti vogliono integrarsi provo sempre un 
forte disagio. Proviamo anche solo un momento a dircelo da soli: “Sono 
integrato”, “Mi sento pienamente integrato”. Deprimente. L’integrazione, 
insomma, è una fregatura. Non prevede l’apertura verso l’altro, il diverso. Al 
massimo lo tollera, se è disposto a sottomettersi alle leggi civili.
Famiglia e famiglie
Il nostro concetto di famiglia, poi, raggiunge il suo apice quando finalmente le 
istituzioni cercano di dare risposte alle situazioni più critiche, spesso create 
da loro stesse. Esempio. Un campo viene sgomberato per accorgersi solo dopo, 
stranamente, che intere famiglie con bambini piccoli sono state lasciate per 
strada, magari in pieno inverno. In tali casi, le istituzioni “cattive” che 
hanno messo in strada le famiglie fanno un passo indietro, e subentrano quelle 
“buone” – loro stesse, a volte – che per necessità devono intervenire. I bambini 
vanno tutelati. Come se i bambini non fossero parte della famiglia. Come se la 
tutela dei bambini non passasse attraverso i diritti dei genitori. Come a voler 
dire che in realtà sarebbe meglio, per il bene dei minori, separarli dai loro 
padri e madri incapaci, che forse li maltrattano e li sfruttano pure. In queste 
circostanze imbarazzanti, spesso viene offerta una “soluzione” assistenziale 
solo ai bambini e alle loro mamme. I nuclei familiari vengono in pratica 
smembrati. I padri restano tagliati fuori e si trovano, da un giorno all’altro, 
per strada. Riempiamoci la bocca di famiglia, allora, per usarla come randello e 
strumento di coercizione e ordine, da tirare fuori quando è utile per poi 
riporlo quando intralcia.
L’idea di integrazione di rom e sinti che coviamo nel profondo passa proprio da 
questo. Dall’annullamento di ogni legame con i genitori, con il passato, con una 
cultura rom e sinta che giudichiamo irredimibile.
Emergenza campi
L’assunzione dello stato di emergenza è un classico nella gestione del “problema 
zingaro”. Così come sono dei classici le promesse fatte e non mantenute dalle 
istituzioni. E anche la collocazione dei campi in “nonluoghi”, in prossimità di 
frontiere, vicino ai cimiteri, accanto alle discariche, tra gli svincoli 
autostradali. E, infine, l’utilizzo fallimentare del privato sociale per la 
realizzazione di percorsi di scolarità e rieducazione.
Gli “zingari” vengono spesso trattati alla stregua di spazzatura. Nessuno li 
vuole sul proprio territorio. I soldi spesi per i campi vengono buttati senza 
controllo, senza alcun monitoraggio, vengono dati dalle istituzioni pubbliche al 
settore del privato sociale per scaricare un problema, mai per risolverlo. 
Puntualmente va a finire che la situazione non migliora per i rom, mentre il 
privato sociale tende non a risolvere i problemi ma a campare di quello che ne 
ricava, gestendo luoghi infami e badando bene a non criticare l’istituzione che 
fornisce i finanziamenti.
Esiste un problema di logica elementare nelle politiche di “delocalizzazione” 
dei rom. O si trova un luogo isolato da tutto e da tutti, oppure ci sarà sempre 
qualcuno per cui la delocalizzazione è in realtà una localizzazione “a casa 
propria”. Per questo si finisce sempre per destinare i campi a nonluoghi. 
Andiamo al punto: chi non vuole gli “zingari” a casa propria dovrebbe ammettere 
chiaramente che l’unica soluzione è sterminarli. O vogliamo ipocritamente 
pensare che chi non li vuole a casa propria trovi qualcuno che li accolga 
altrove?
Buone azioni o cattive pratiche?
Con queste premesse, come si può chiedere ai rom e sinti di “rispettare le 
regole” in cambio della presunta concessione di diritti? Quali diritti? L’idea 
di sedersi ad un tavolo e discutere con i diretti interessati per uscire da 
condizioni spesso drammatiche, mettendo in gioco tutte le energie vitali 
possibili, a nessuno passa nemmeno per la testa. La pianificazione nel sociale 
(ovvero in ciò che ha a che fare con la dimensione della socialità, della 
relazione) in Italia è quasi sempre un fallimento. Gli “zingari” rappresentano, 
in questo ambito, una cartina di tornasole.
Insomma, questi esperimenti privi di strategia complessiva sembrerebbero puntare 
alla rieducazione. Anche tralasciando il cupo retroterra di questo concetto, che 
quantomeno rimanda ai gulag – sempre di campi si tratta – non è possibile tacere 
sul fatto che la rieducazione, esplicita o implicita, è nemica del 
coinvolgimento diretto. E se questo non viene perseguito è perché manca il 
riconoscimento di base, quello al diritto di esistenza. Esisti, ti riconosco, 
parlo con te, ti ascolto.
In questo vuoto comunicativo succede spesso che gli operatori impreparati si 
fidino, per tenere sotto controllo i rom giustamente incazzati, di quei rom che 
sui campi come terra di nessuno ci fanno affari. I furbi e i delinquenti che 
tengono a bada coloro che si sentono schiacciati. Con il passare del tempo, i 
campi diventano luoghi ingestibili, pieni di miseria e frustrazione, in cui 
l’apatia è un peso che spinge sempre più in basso, là dove comandano i furbi.
Nel constatare un riprodursi perenne di problematicità, l’istituzione si 
indigna. Vorrebbe che i derelitti che sta salvando fossero riconoscenti, e 
vorrebbe vedere secoli di emarginazione svanire davanti ad una buona azione 
caritatevole. Invece rom e sinti non accolgono la rieducazione e nemmeno 
ringraziano. Magari sfasciano tutto. Nel frattempo, in genere, crescono le 
pressioni da parte della “gente” e di chi alimenta l’odio per professione e, con 
queste, anche l’astio e l’impotenza in chi pensava di poter risolvere il 
problema. A questo punto si abbandona la via assistenzialista e si passa alla 
repressione, all’espulsione, allo sgombero.
Il sospettabile mostro
Il semplice fatto di essere “zingaro” e di vivere in un campo fa cadere una 
persona nella categoria dei sospettabili. Se poi un rom o un sinto infrange le 
regole, i giornali, il sistema politico e l’opinione pubblica si scatenano.
Fa strano vedere come l’opinione pubblica sia scossa e spiazzata davanti al 
gioco dei sospettabili. Gli “zingari” sono sospettabili. Anzi, colpevoli. Ma 
quello, quello era uno dei nostri. Il marito che picchia la moglie, la signora 
che uccide il figlio che frigna troppo, il figlio che uccide la madre e il 
fratello, i pedofili che agiscono negli asili e tra le mura di casa. 
Stranamente, mentre in Italia crescono i fatti di sangue e la violenza in 
famiglia, la gente ha sempre più paura dell’altro, di chi appartiene alla 
categoria dei sospettabili. Il cittadino integrato non si vuole chiedere perché 
la nostra società partorisce crescente frustrazione e violenza, non si ferma a 
ragionare sul tessuto sociale che si disgrega, sull’incertezza del lavoro e del 
futuro, sulla banalità del successo dei meccanismi di potere che dividono i 
cittadini integrati in coloro che fottono o sono fottuti, in winners or losers. 
Se la paura rimane, lo sfogo si focalizza sul sospettabile, su colui che temo 
possa rubarmi i privilegi accumulati, con o senza merito, o che possa rendermi 
ancora più precaria ed insicura la vita.
Il nostro giudizio universale
Qualche anno fa ho lavorato ad uno studio sulla relazione tra la salute dei 
bambini e le condizioni di vita in cinque campi di rom kosovari e macedoni. La 
decisione di approfondire questo tema non era una mia idea, ma nasceva dal 
confronto con le famiglie che vivevano nei campi: la questione della salute dei 
bambini era la loro maggiore fonte di ansia. I genitori erano preoccupati per la 
salute dei loro figli. Lo studio dimostrò che gli effetti di tali condizioni 
sono devastanti. Non certo per colpa dei genitori. Quelle famiglie che vivevano 
in campi regolari, messi in piedi dalle amministrazioni locali di cinque 
capoluoghi di provincia, non potevano fare di meglio. I colpevoli erano e sono 
le istituzioni, sole responsabili di un danno al futuro dei bambini rom che non 
pagheranno mai. 
Siamo sinceri. Possiamo dire che vi sono bambini (non necessariamente rom) 
sfruttati dai loro genitori e/o da organizzazioni criminali. È tragicamente 
vero. Ma attaccare i rom e i sinti su questo piano è operazione subdola e 
razzista. I rom e i sinti amano i propri figli come ogni genitore. Con chiare 
eccezioni, come ovunque nel mondo. Che vi siano rom e sinti che rubano è 
innegabile. Il furto è sempre esistito (da sempre sanzionato) in tutte le 
società e tanto più in quelle in cui è accentuato il divario tra benessere e 
miseria. Poi ci sono anche gli insospettabili che rubano ben protetti in alto, 
delle istituzioni (pubbliche o private) e che a molti possono persino fare 
invidia per la facilità con cui accumulano successo e denaro. 
La questione non è negare che vi siano rom e sinti che delinquono. Il problema è 
quello di parlare di rom e sinti come dei delinquenti. Questo equivale a 
stravolgere la realtà, a raccontare menzogne. I rom e sinti che vivono nei campi 
sono le prime vittime di questo pensiero.
Eppure non basta mai
Intanto, comunque, i rom e sinti arrancano. Sfangarsi non è facile. La strada 
per liberarsi dal peso del pregiudizio è in salita. Si può vivere come se non 
esistesse? La letteratura scientifica è piena di studi sulle implicazioni 
negative dell’appartenenza a gruppi emarginati, sulla difficoltà di credere 
nelle proprie forze al di là dei meccanismi di oppressione. È facile chiedersi 
perché i rom non escono dai campi e non trovino delle soluzioni alternative.
Ho visto un’opera di suore rifiutarsi di accettare donne rom in corsi per 
collaboratrice domestica che avrebbero dato loro accesso al permesso di 
soggiorno ed a un’eventuale occupazione. Le suore hanno una paura fottuta degli 
“zingari” come chiunque altro. Figuriamoci un datore di lavoro medio. Un’amica 
che fa la bidella ha una paura tremenda che si venga a sapere che è sinta. 
Perché dovrebbe avere paura? Ha un lavoro regolare, paga le tasse. Eppure non 
basta mai. Se non hai un lavoro è perché sei un disadattato, se lo hai sei 
automaticamente sospettato di combinare guai. Non fa differenza se lavori, se 
hai una casa, se i tuoi figli vanno alle superiori. Lo stigma dell’essere un non 
integrabile continua a perseguitarti.
I rom e i sinti sono belli e brutti, intelligenti e stupidi, modesti e 
arrivisti, sinceri e falsi, aperti e chiusi come tutti noi, come i nostri 
parenti e i nostri vicini di casa. E si trasformano e si adattano al mondo. Ogni 
volta che ho una certezza, le nuove conoscenze la spazzano via. Più vado avanti 
e più mi accorgo che alle domande che mi pongono sui rom e i sinti rispondo: 
«dipende». L’uomo nero è una nostra invenzione, è frutto del nostro sistema e 
delle nostre proiezioni. Tocca a noi, e non a rom e sinti, comprendere cosa lo 
genera e lo alimenta.
Lorenzo Monasta
Lorenzo Monasta è nato ad Embu (Kenia) nel 1969. Si è dottorato in 
epidemiologia con una tesi sulla relazione tra salute dei bambini e condizioni 
di vita in campi di rom macedoni e kosovari in Italia (vedi in
www.osservazione.org). 
È tra i fondatori di OsservAzione, centro di ricerca azione contro la 
discriminazione di rom e sinti. Sulla loro condizione ha pubblicato: Vite 
Costrette (con B. Hasani, Ombrecorte 2003); Note sulla mappatura degli 
insediamenti di Rom stranieri presenti in Italia (In Italia Romaní, Vol. IV., a 
cura di C. Saletti Salza, L. Piasere, CISU 2004); Cittadinanze imperfette (con 
N. Sigona, Spartaco 2006).