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Rom e rappresentazione culturale
Di Fabrizio (del 18/05/2009 @ 09:34:12, in Italia, visitato 1676 volte)

Dopo la presentazione di UPRE ROMA,  un contributo di Dijana Pavlovic sui rapporti tra Rom/Sinti e società maggioritaria

In cosa consiste la cultura di un popolo? Nelle sue espressioni artistiche e intellettuali? Nella sua storia? La cultura Rom non può essere paragonata a quella di un popolo che ha una propria nazione. E' fortemente condizionata dal fatto di non avere e di non pretendere una terra (ed è per questo che il popolo Rom non ha mai fatto una guerra), anche se questo ha provocato nomadismo forzato e costanti persecuzioni. Tuttavia, pur non avendo le caratteristiche di una nazione, il popolo Rom ha mantenuto attraverso i secoli elementi che lo identificano, in primo luogo la lingua.

Ma c'è da porsi una questione che è la chiave di lettura per affrontare questo tema: oggi, vale la pena di parlare della cultura Rom senza tenere conto e occuparsi anche del disagio sociale delle comunità, della loro discriminazione e ghettizzazione, delle conseguenze che queste producono sui comportamenti, sulla cultura? Se i bambini vivono la propria identità culturale e etnica con imbarazzo e con senso di colpa, come una cosa da nascondere davanti ai gage e da vivere solo intimamente, dentro la comunità, il futuro non può essere che di separazione e di chiusura in tutti sensi. Dall'altro lato i cittadini "normali" con i loro comportamenti, la politica con le sue scelte, i media con l'immagine che formano sono qualcosa che ci può lasciare indifferenti, chiusi nel nostro ghetto, oppure questo ci riguarda direttamente?

La chiusura da parte della società italiana si concentra e si esprime in due stereotipi: da una parte c'è lo stereotipo di origine romantica legato all'idea di libertà, alla musica, al ballo e alle zingare bellissime e letali come la Carmen di Merimée o la Zamfira di Puskin. Dall'altra parte c'è lo stereotipo negativo, ultimamente sfruttato con irresponsabilità e cattiveria, quello dello zingaro mendicante e ladro, che vive nell'immondizia, ladro di bambini e fannullone. Questo è uno stereotipo antico che ci è costato migliaia di morti nelle persecuzioni in tutta Europa e nei campi di concentramento tedeschi e italiani.

E' ovvio che l'identità culturale di un popolo così complesso come quello Rom e Sinto non corrisponde a nessuno di questi due stereotipi, ma tuttavia entrambi contengono elementi di verità. E' vero che una componente della nostra cultura è legata al senso del muoversi pacificamente in un mondo considerato senza confini, legata a una libertà, non effettiva ma del tutto soggettiva, come un piccolo riflesso dentro un essere umano che ha bisogno di poco, forse un po' di musica per sentirsi felice e libero dentro, come dire: posso essere povero, disprezzato, potete guardarmi con diffidenza e odio, ma la mia anima non la potete avere, appartiene a me. E non si può neanche negare che le condizioni di vita precarie e la ghettizzazione forzata in moderni campi di concentramento producono fenomeni di microcriminalità, così come nomadismo e forme di sopravvivenza legate al "mangel" (la questua) sono tra loro legate. Ma non ci si può soffermare solo su questo.

Tuttavia entrambi gli stereotipi producono un medesimo effetto: rendono il Rom "lo zingaro", "l'uomo nero" che provoca inquietudine e paura per il suo modo di vita.

Questo non è solo il portato di campagne all'insegna di una insicurezza costruita gridando a un lupo senza denti, ma è il riflesso della paura di una società che scarica sul più debole il proprio malessere, che non affronta un disagio sociale e morale profondo, grande responsabilità del quale tocca a una politica che rinuncia al compito di educazione civile per seguire gli istinti peggiori in un perverso circuito vizioso: la politica, con il coro condiscendente dei media, alimenta la paura dei cittadini che premiano con il voto questa politica.

Questa nuova Italia, l'Italia della violenza contro gli ultimi, del pregiudizio elevato a verità (gli zingari rubano i bambini), della criminalizzazione della povertà, della giustizia fai da te dovrebbe invece far riflettere questa stessa politica e i suoi corifei mediatici sul lungo decorso della malattia della nostra società e sulle preoccupanti prospettive del suo futuro. Non si può non legare i Maso, le Eriche e gli Omar, che uccidono i genitori per denaro, ai ragazzini che violentano e uccidono una coetanea, al branco che uccide un diverso da loro a Verona, al bullismo nelle scuole, alla violenza praticata nelle famiglie.

L'angoscia di fronte a questo scenario e al clima che riporta all'ancora recente passato della nascita, della vita e della morte apparente dei regimi fascista e nazista è dovuta anche al silenzio di chi sottovaluta questi processi e rinuncia a una battaglia prima di tutto culturale contro il luogo comune, lo stereotipo, la criminalizzazione generalizzata. Pesa soprattutto vedere il volto vile di un paese malato. Coloro che aizzano i cani, lanciano molotov e sassi, percorrono in ronde minacciose le città, i sindaci che annunciano nei cartelloni luminosi dei loro borghi che "i clandestini possono stuprare i tuoi figli" sono il volto vigliacco di chi non è capace di guardare al male che porta dentro di sé.

In questa situazione tante e complesse sono le domande che ci si pongono.

Come è possibile superare i reciproci recinti: quello della paura dei Rom nei confronti di una società che li criminalizza e li ghettizza senza riconoscere loro il diritto all'autorganizzazione, a rappresentare direttamente i propri interessi; e il recinto costruito dalla società italiana che li rifiuta e li accetta solo come icona di uno stereotipo irreale. E poi come è cambiata e come cambia la cultura Rom in Italia rispetto agli altri paese Europei. Cos'è adesso nel mondo globalizzato. La televisione per esempio, non lascia indifferenti le comunità e soprattutto i giovani. Quanti ragazzini sono vestiti "all'americana" seguono wrestling, Dragonballs, Amici di Maria De Filippi e quante ragazzine sognano di diventare veline.

Allora viene da pensare ai bambini e alle bambine che si possono incontrare nei campi regolari e irregolari di questo Paese e all'allegria che si legge nei loro occhi, ai loro destini stroncati e alla ricchezza sprecata per inseguire lo stereotipo negativo dello zingaro sporco e ladro che porta voti ala destra. Come possono riuscire a fare quello che i loro genitori non sono stati in grado di fare: non delegare a nessuno il proprio destino, ma esprimere l'orgoglio di sé, della propria storia, della propria cultura nella capacità di organizzarsi, di pretendere il diritto a rappresentare se stessi e i propri interessi come tutti gli altri cittadini.

Contatti: upre.roma@sivola.net