Da
Gad Lerner - il blog del bastardo
 E’ appena uscito da Feltrinelli questo volume collettivo, cinquanta voci per 
riflettere sulla scomparsa di un’opposizione culturale all’egemonia del 
centrodestra. Ve lo consiglio, ci sono diversi stimoli utili. Nel frattempo vi 
anticipo il mio contributo, dedicato ai Rom: lo spauracchio che ci ha fatto 
alzare bandiera bianca sul terreno della sicurezza.
E’ appena uscito da Feltrinelli questo volume collettivo, cinquanta voci per 
riflettere sulla scomparsa di un’opposizione culturale all’egemonia del 
centrodestra. Ve lo consiglio, ci sono diversi stimoli utili. Nel frattempo vi 
anticipo il mio contributo, dedicato ai Rom: lo spauracchio che ci ha fatto 
alzare bandiera bianca sul terreno della sicurezza. 
La sinistra deve stare con il popolo, ma se il popolo odia gli zingari?
Non c’è dilemma più nitido. Di fronte a quel bivio numerosi amministratori 
della sinistra lombarda (non a caso di matrice comunista amendoliana), dalla 
sindaco di Pavia a quello di Sesto San Giovanni, hanno imboccato la via 
“popolare”. Guidati dal motto politicamente scorretto, e dunque di sicura presa, 
coniato dal presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati: “Non dobbiamo 
ripartire i campi rom. Bisogna farli semplicemente ripartire”. Versione italiana 
del già arcinoto manifesto leghista su cui nessuno aveva mai avuto niente da 
ridire: “Campi rom, foera de ball”. Il popolo, si sa, è ruvido. Quando le 
popolane di Ponticelli presero a sputi in faccia e male parole le zingare, dopo 
che certi loro scugnizzi malavitosi dotati di motorino avevano incendiato 
l’accampamento con le molotov, già la locale sezione del Partito democratico 
aveva provveduto ad affiggere sui muri di quella periferia napoletana, sotto il 
simbolo tricolore, quel solito slogan: “Via il campo rom”. E che nessuno parli 
di pogrom, per favore, la gente non capirebbe. Si trattò di “eccessi”, 
strumentalizzazione camorristica di un legittimo risentimento popolare, favoriti 
dall’inadempienza delle forze dell’ordine.
C’è poi una sinistra che di fronte a quel bivio imbocca la direzione opposta, 
adottando gli zingari per elevarli a nuovi protagonisti dell’antagonismo 
metropolitano, surrogati di un proletariato ormai cooptato nel blocco di potere. 
Sono loro, gli zingari, l’ultimo vero popolo rivoluzionario. Il nomadismo 
andrebbe riconosciuto come insopprimibile vocazione, fascinosa alterità. Poco 
importa che la maggioranza dei “nomadi” aspiri a una residenza normale, e 
comunque se non sgomberati rimangano per decenni nello stesso luogo derelitto. 
Le elevate percentuali di devianza criminale si giustificherebbero con la loro 
tradizione comunitaria, impermeabile ai dogmi della proprietà privata. Le spose 
bambine, le maternità precoci, l’ignoranza contraccettiva sarebbero il naturale 
contrappunto di una società mercificata e sterile. La retorica ultraminoritaria 
dello “zingaro è bello” fa presa crescente nella sinistra comunista e nei centri 
sociali che non si limitano a protestare contro le discriminazioni e le 
malversazioni inflitte agli zingari. Ma giungono a contrapporsi polemicamente al 
volontariato sociale operante nelle baraccopoli. La paziente opera di 
educazione, avviamento al lavoro, regolarizzazione degli habitat (pagamento 
delle bollette, freno al viavai dei residenti, espulsione dei violenti), viene 
denunciata come snaturamento identitario: dovremmo “accettarli così come sono”, 
l’integrazione viene respinta come sottomissione.
Questa sinistra affascinata dalla cultura rom, differenza da tutelare contro 
la minaccia di omologazione, non riscuote certo consensi popolari quando si 
oppone alle politiche di sicurezza della destra. Ma è interessante notare la 
rivincita simbolica incamerata dall’intellighenzia sensibile alla questione 
zingara: nel circuito musicale, teatrale, cinematografico, letterario e perfino 
sulle passerelle degli stilisti la suggestione gitana si traduce in opere di 
successo. Come dire: gli zingari intrigano, perfino affascinano, ma a patto che 
restino virtuali, alla larga da casa mia.
Entrambe le visioni sopra descritte scaturiscono da una sopravvalutazione 
parossistica del ruolo attribuito agli zingari (non c’è altro termine generico 
che accomuni le popolazioni rom, sinti e camminanti) nella realtà italiana. 
Stiamo parlando, certo, della più grande minoranza d’Europa, tra i 7 e i 9 
milioni di cittadini dell’Unione. Ma nel nostro paese, neppure dopo l’apertura 
delle frontiere agli immigrati dalla Romania si è raggiunta quota 200 mila: una 
percentuale talmente esigua rispetto alle dimensioni della penisola -tanto più 
se si considera che circa 60 mila sono italiani da secoli, più della metà hanno 
meno di 14 anni, e tra gli stranieri prevalgono gli zingari fuggiti quasi 
vent’anni fa dalle guerre balcaniche (tuttora condannati dalla burocrazia a 
restare privi di documenti)- da smentire che possano davvero rappresentare 
un’emergenza.
La sovrarappresentazione italiana del pericolo rom è un fenomeno unico in 
Europa. Vi sono certo nazioni, come la Romania e la Slovacchia, in cui gli 
zingari subiscono un’ostilità politica e sociale, ma nell’ambito di 
contrapposizioni etniche alimentate da bel altra presenza numerica. Minimizzare 
la questione zingara risulta, ciò nonostante, impossibile. Quando si è trovata a 
dover gestire il turbamento dell’opinione pubblica per reati odiosi che 
sollecitavano allarme sociale –come l’allora sindaco Veltroni a Roma, nel caso 
del delitto Reggiani, novembre 2007- anche la sinistra ha fatto ricorso 
all’espediente degli sgomberi spettacolari. Fingendo d’ignorare che i baraccati 
possono venir costretti a vagabondare altrove in cerca di ricovero notturno, ma 
non scompaiono da un giorno all’altro. Quando erano decine di migliaia ad 
accamparsi nelle baraccopoli dell’hinterland romano, nei primi anni Sessanta, 
narrati magistralmente da Pier Paolo Pasolini, nessuna forza politica popolare 
avrebbe considerato redditizio assumerli come bersaglio. Erano molti di più, 
rispetto ai derelitti delle bidonvilles di oggi, ma non erano né stranieri né 
zingari. Comunità di minoranza che neppure possono godere della protezione di 
uno Stato alle spalle, come accade per esempio ai cinesi e agli ebrei. Bersagli 
ideali del malcontento popolare. Tanto più che la persistenza degli stereotipi 
diffusi da sette secoli sugli zingari –propensione al furto, popolo misterico e 
in integrabile, dedito al ratto dei bambini e alla violenza sulle donne- non è 
stata scalfita neppure dallo sterminio nazista di un numero di zingari compreso 
fra i 219 mila e il mezzo milione, tra il 1942 e il 1945, nei medesimi lager in 
cui venivano deportati gli ebrei. Per decenni si è preferito rimuovere il 
genocidio degli zingari, censurando la memoria dei sopravvissuti e talvolta 
addirittura giustificando la persecuzione (sentenza della Corte suprema tedesca 
nel 1956) in quanto “campagna preventiva contro i crimini”. Nessuno ha eretto un 
tabù per contrastare gli stereotipi antigitani.
Le stesse persone che mai tollererebbero battute ostili nei confronti degli 
ebrei o dei neri, spesso ammettono una deroga culturale riguardo agli zingari. 
Non è considerato infame desiderarne l’eliminazione perché nei loro confronti 
persiste l’identificazione fra un popolo e una colpa. Difendi gli zingari? Vuol 
dire che sei un difensore dei delinquenti. E’ un’accusa che viene rivolta in 
perfetta buona fede: ma come, non ti rendi conto che “quelli” sono davvero 
diversi da noi, sono il male?
Per alcuni mesi tra il 2007 e il 2008 la leadership veltroniana del Partito 
democratico si è illusa di poter cavalcare anche le pulsioni irrazionali del 
paese, rifugiandosi dietro a una formula anodina: “La sicurezza non è né di 
destra né di sinistra”. Ma proprio la sovrarapresentazione del pericolo rom si è 
incaricata di confutare per prima tale scioglilingua: quando accetti di 
trasformare in emergenza nazionale, finalizzata alla repressione o 
all’espulsione di un popolo, le manchevolezze della politica nell’opera di 
integrazione-repressione, hai già consegnato alla destra lo scettro del comando. 
Prima di rassegnarsi a questa banale constatazione, nella sinistra più 
subalterna culturalmente al leghismo abbiamo dovuto assistere a ulteriori 
elucubrazioni verbali. Come il Documento sulla Sicurezza diramato dal Pd 
lombardo nel giugno 2008 che auspicava la formazione di reparti di vigilanti 
volontari da affiancare alle forze di polizia, sorta di “ronde democratiche” da 
contrapporre alle ronde padane. Con lapsus involontario ma significativo, lo 
stesso documento conteneva la richiesta di un tetto percentuale per limitare 
l’eccessiva concentrazione di bambini stranieri nelle classi della scuola 
primaria: proposta di per sé non scandalosa, se i demagoghi della sinistra 
filoleghista non l’avessero proposta come questione di ordine pubblico.
Proprio così, quando la paura gioca brutti scherzi la gente comincia a temere 
anche i bambini. Il caso rom è di nuovo esemplare. Se il ministro Maroni ha 
voluto con insistenza sottolineare la necessità di raccogliere le impronte 
digitali dei minori rom, è perché sa benissimo di riscuotere i consensi di una 
massa che in quelle manine scorge prima di tutto la destrezza dei borseggiatori 
impuniti. Niente di meglio, è il passo successivo, che presentarsi con cinismo 
beffardo come unici veri protettori di quei bambini indifesi. Favorendo il loro 
avviamento scolastico? Sostenendo le amministrazioni che gli schiudono 
l’ospitalità nelle case popolari? No, identificandoli. E promettendo loro 
salvezza attraverso la sottrazione ai genitori naturali. Promettendo di 
incrementare le revoche della patria potestà, come se tale provvedimento estremo 
e delicatissimo dovesse simboleggiare la liberazione dei bambini zingari –non 
dall’emarginazione e dalla povertà- ma dalla loro etnia maledetta.
A discarico degli amministratori di sinistra che hanno cavalcato l’ostilità 
anti-rom, va riconosciuto che è difficile, soprattutto per dei politici, 
mettersi contro il popolo. Col rischio di passare per difensori della 
delinquenza, dei violentatori, dei ladri di bambini (sia ben chiaro: negli 
ultimi vent’anni non risulta un solo caso di minore rapito da zingari in 
Italia). I mass media registrano passivamente la commedia di un popolo 
esasperato, l’ira dei giusti che talvolta anticipa le forze dell’ordine nel 
necessario repulisti. Nei talk show televisivi da anni i leaders degli opposti 
schieramenti considerano improponibile adoperare la parola “integrazione” e 
hanno fatto semmai a gara nel promettere espulsioni, dimenticando quanto sia 
vasta la categoria dei drop-out non estradabili. Perfino i vescovi e i parroci 
troppo caritatevoli vengono accusati di tradimento, rifacendosi a dottrine 
medievali secondo cui la compassione e l’assistenza sono lecite solo nei 
confronti dei poveri appartenenti alla tua comunità: dunque i vagabondi devono 
essere rinchiusi, cacciati o uccisi. Così gli episodi di violenza contro la 
presenza degli zingari nelle periferie urbane si moltiplicano senza neppure 
bisogno dell’incitamento dei titoloni di prima pagina di giornali degni eredi, 
settant’anni dopo, de “La difesa della razza”. Si va dal solito demagogico 
“Obiettivo: zero campi rom”, fino al ridicolo “I rom sono la nuova mafia”, per 
sfociare nel bieco stereotipo “Quei rom ladri di bambini”. Sarebbe assai 
benefico ricordare qui il precetto biblico dell’immedesimazione (“In ogni 
generazione ciascuno deve considerare se stesso come se fosse uscito 
dall’Egitto”) e perciò ogni volta sostituire con la parola “ebrei” o “italiani” 
la parola “rom”. Ma è un esercizio liquidato come poco redditizio da un gruppo 
dirigente della sinistra che ha sottovalutato le conseguenze della sconfitta 
subita sul terreno dei valori di civiltà, senza neanche provarsi a difenderli.
C’è infatti un’accusa particolarmente insidiosa da cui la sinistra sente il 
bisogno di difendersi, col rischio di accentuare la sua subalternità culturale 
alla destra.
Difendere gli zingari; denunciare il chiaro scopo intimidatorio e 
discriminatorio del censimento nei cosiddetti campi nomadi e delle impronte 
digitali da rilevare solo a loro; ricordare che i Commissari prefettizi nominati 
a Roma, Milano, Napoli per l’emergenza nomadi sono i primi dal 1938 incaricati 
di una sovrintendenza etnica: tutto ciò avrebbe il difetto di separare 
ulteriormente la sinistra dal popolo. Rivelando un’ostilità elitaria tipica 
della casta dei privilegiati che ignorano il disagio delle periferie. 
L’adulazione del popolo, il germe del populismo, penetrano così anche un ceto 
politico amministrativo della sinistra che mal sopporta la convivenza con le sue 
stesse tradizioni culturali. Chi si oppone è fuori dal popolo. Ti senti buono, 
superiore? Allora ospitali nel tuo attico, e non venirci a dire che dobbiamo 
investire risorse pubbliche per mantenere e ospitare questi corpi estranei alla 
società perbene. I veri poveri sono i nostri italiani, gli zingari sono dei 
privilegiati. Non a caso impazzano leggende metropolitane secondi cui 
riceverebbero sussidi quotidiani dagli enti locali, e il volontariato cattolico 
li alloggerebbe a scapito dei concittadini senzatetto.
Rinunciando a una battaglia culturale su un terreno considerato troppo 
sfavorevole e impopolare come la questione zingara, la sinistra ha sacrificato 
un tratto distintivo della sua idealità. Ma l’approccio corrivo a una destra che 
ricorre impunemente a termini come “derattizzazione”, allude all’eliminazione 
fisica dei rom, li stigmatizza con stereotipi identici a quelli antisemiti, non 
è solo mortificante: alla lunga si rivela anche nocivo politicamente. E’ vero 
che ci sono sindaci di sinistra che hanno perso le elezioni, in apparenza, solo 
per il fatto di aver consentito la sistemazione provvisoria sul territorio 
comunale di poche decine di zingari, metà dei quali bambini. E perfino un 
nordista come Cacciari, che strizza maliziosamente l’occhio alla Lega, viene 
ripagato con la furia di chi si oppone alla sistemazione di un campo per zingari 
italiani residenti a Venezia da decenni.
Ma alla dimensione irrazionale della politica di destra può contrapporsi 
efficacemente solo la passione civile e religiosa, la memoria storica, la 
denuncia del sopruso perpetrato nei confronti di un popolo, il coraggio di 
propugnare un’opera d’integrazione. Nel 1938 coloro che si opposero alla 
legislazione razziale promulgata dal regime fascista furono accusati di 
“pietismo” e con questa motivazione un migliaio di loro furono espulsi dal Pnf. 
Perché mai dovremmo sentirci disonorati dall’accusa di “buonismo”, settant’anni 
dopo?