Avevo chiesto ad Ernesto Rossi come fosse andato il convegno 
su
Carlo Cuomo, a cui (seppure a malincuore) non avevo potuto partecipare. Mi 
scrive di un convegno caldo e partecipato, con circa 150 presenze. Se qualcuno 
vi ha partecipato, mi faccia sapere le sue 
impressioni, anche commentando qui. Intanto, ecco il testo del lungo intervento 
svolto da Ernesto Rossi, che partendo dai ricordi, affronta molti temi di 
attualità.
4 ottobre 2008 - C'è un libro straordinario di Gianni Rodari, uno dei 
più grandi scrittori del Novecento italiano: C'era due volte il Barone 
Lamberto. Sembra un libro per bambini, categoria letteraria del 
sussiego. Vi si racconta la ventura di un ricco signore che può ricomprarsi la 
vita, perché scopre che "L'uomo il cui nome è pronunciato resta in vita".
Carlo, Carlo, Carlo…ecco cosa stiamo facendo, qui, oggi, adesso: ripetiamo il 
suo nome per raccogliere la nostra memoria e per continuare a tenerlo vivo fra 
di noi.
Perché in effetti non è vero che Carlo non ci sia più, né quando ci si occupa di
Zingari, né per altre questioni, nelle quali ha lasciato segni forti e 
inconfondibili. È solo che, purtroppo per noi, facciamo fatica, nel mutare dei 
tempi, delle sensibilità, delle politiche, ad incontrarlo. 
Ho avuto la fortuna di un'amicizia fraterna troppo breve con Carlo. Venne nel 
'68, giovane consigliere comunale, a vedere e a capire cosa succedeva nella 
biblioteca che dirigevo: un esperimento di gestione partecipata che sembrava 
anticipare nuove forme di decentramento. 
Così adesso per questa amicizia e per il fatto d'aver cercato di proseguire il 
suo impegno con i Rom e i Sinti, mi tocca un compito difficile: parlare di Carlo 
coi verbi al passato, parlare di Carlo e del suo impegno per gli Zingari. 
Per molti anni –una quindicina- Carlo e questo impegno sono stati strettamente 
legati. Certo, si occupava dei destini della sinistra a Milano e lavorava come 
presidente della FILEF Lombardia, l'associazione internazionale fondata 
da un altro Carlo, lo scrittore e pittore Levi, per la quale aveva coniato, 
allargando e in parte rovesciando il primo impegno a favore dei nostri 
emigranti, uno slogan che era un vero sintetico programma: chiediamo per i nuovi 
immigrati gli stessi diritti che abbiamo chiesto per i nostri emigranti.
Ma occuparsi di zingari è impresa d'imparagonabile diversità: essi sono la 
minoranza delle minoranze. Il minimo possibile dell'altrui conoscenza, della 
considerazione, del rispetto dei diritti. Non esiste paese di riferimento, in 
cui siano una maggioranza. Non esiste paese, quale più, quale meno, in cui i 
loro diritti siano veramente rispettati e garantiti. 
Carlo ha disseminato idee e proposte innovative dovunque è stato 
presente.
Per poter fare questo, ci vuole indubbiamente intelligenza e cultura, sapersi 
porre domande, ma lui aveva di più: aveva una capacità non comune di passare dal 
ragionamento alle ipotesi, alle proposte concrete; dal pensare al fare, 
impastando teoria, discussione, suggerimenti, finché non diventavano un progetto 
visibile agli occhi della mente, per divenire poi un'iniziativa. 
Lo ha scritto con felice sintesi, il giorno dopo la sua morte, Manuela Cartosio 
sul Manifesto: aveva la capacità di tenere insieme la rilettura di Marx 
con la fontanella in un campo di Zingari. Insieme. Non una cosa accanto 
all'altra, ma nella successione stessa del ragionamento e del progetto. 
Era, non solo come lasciò detto di sé, una brava persona, ma slow, 
lento. Questa definizione è associata attualmente al contrasto della frenesia, 
del consumo, del cattivo gusto, che sarebbe uno splendido programma politico, ed 
è riferita soprattutto ad un campo, quello enogastronomico; e a Carlo, uomo di 
gusto, che sapeva apprezzare cibi e vini, non sarebbe dunque certamente 
dispiaciuta. 
Ma il senso in cui gliela attribuisco riguarda il suo atteggiamento nei 
confronti dell'altro: il sorriso, dolce e aperto, il rispetto, l'ascolto, 
l'attenzione, il ragionare pacato e coinvolgente; una serie insomma di qualità 
maieutiche. Una cosa nata dalle sue parti. Era lento perché si prendeva il tempo 
e il piacere di ascoltare e ragionare, di gustare e di far gustare il 
ragionamento nel suo articolarsi e procedere dalle premesse alle conclusioni. 
Questa era la sua qualità essenziale, strutturale, quella che gli conquistava 
simpatia, attenzione, stima, affetto. 
Sono stato adescato da Carlo ad occuparmi di Rom e Sinti, quelli che col 
sommario disprezzo della non conoscenza chiamiamo Zingari. 
Come nasce un'idea così nella testa d'una persona, di occuparsi di un 
problema marginale di poche persone marginali, 150-160 mila in tutta Italia? 
Quante volte l'hanno chiesto anche a me, ed ora che mi tocca parlare di Carlo, 
mi accorgo che a lui non l'ho mai domandato. Eppure si tratta di una questione 
importante, fondamentale. Forse tra di noi era scontata la risposta: per 
indignazione. Ma è una risposta troppo morale, adulta. Forse quella precedente 
nasce nei giochi da bambino, tra cowboy e indiani, o davanti alle porte Scee 
leggendo i poemi omerici.
Ma credo che qualunque sia il caso che apre l'impegno, questo arriva su un 
terreno già predisposto, incontri, esperienze, che rimangono a giacere in un 
angolo della memoria, pronti a crescere, ad affermarsi, se si formano 
circostanze favorevoli. Come una rosa di Gerico, che verdeggia nuovamente quando 
la bagnate.
Ho un ricordo preciso di una situazione che Carlo raccontava, riferita forse 
anche ai suoi anni giovanili in Grecia, quando nel villaggio o nel quartiere, 
durante la riunione per organizzare una festa di matrimonio o di battesimo, 
qualcuno, inevitabilmente, diceva Carlo, saltava su con un ma i 'nostri' 
zingari qualcuno li ha avvertiti?
Questa frase, che sicuramente si pronuncia ancora oggi in molte lingue nei 
Balcani, dice di una presenza e di una continuità di costume: una tradizione.
I Rom nei Balcani, la regione d'Europa che per prima hanno raggiunto nel loro 
lungo viaggio, e dove tuttora vivono più numerosi che in qualunque altra, con la 
sola eccezione della Spagna, sono portatori di una cultura musicale propria, ma 
anche custodi di quelle locali, che hanno saputo raccogliere e reinterpretare e 
tramandare, traendone una musica nuova senza confini. 
Il caso che muove Carlo è l'incarico di assessore, oltre che al 
decentramento, al lavoro, che comporta anche la responsabilità dell'Ufficio 
Stranieri e Nomadi. Così si chiamavano e credo tuttora si chiamino gli uffici di 
molte città italiane, cui compete di occuparsi di stranieri. E di nomadi, 
che così definiti e percepiti, anche se italiani da secoli, finiscono col parere 
stranieri, persino a se stessi. È qui che Carlo si trova a dover affrontare il 
problema. Come assessore delle giunte di sinistra negli anni dal 1975 all'85, ha 
dovuto gestire temi diversi e per lui talvolta inediti. E ogni volta, magari 
dimenticando le vacanze, ha macinato libri e documenti per prepararsi. 
Ma per questa materia, credo che lo sforzo sia stato minore. C'è una strada già 
tracciata nella sua memoria e nella sua pratica politica, un marxismo usato come 
chiave, non come binario: il senso della dignità umana, come valore fondante di 
ogni politica; della diversità e ricchezza delle storie e delle culture come 
ricchezza unica di tutta l'unica razza umana. Non è un caso dunque che 
quando imposta e in parte redige, per incarico dell'amico e compagno editore 
Nicola Teti, un numero speciale del Calendario del Popolo, dedicato agli
Zingari, il richiamo costante è alla Costituzione antifascista della 
Repubblica italiana.
"Un patto di amicizia e fraternità", furono le parole usate da Umberto 
Terracini, che con De Gasperi e De Nicola firmò quel testo, nel presentarlo nel 
1947 al popolo italiano. 
Parole straordinarie se le pensiamo rivolte a Rom e Sinti, in quegli anni quasi 
esclusivamente cittadini di questo paese, essendovi giunti fin dagli inizi del 
Quattrocento. Un popolo che le statistiche rappresentano come un popolo di 
bambini (oltre il 50% minori di diciott'anni). 
Una piccola società sparpagliata in quella più grande, con le sue tradizioni e 
le sue regole, reciprocamente incomunicante con la nostra, con effetti 
devastanti per loro, contro qualche fastidio per noi. Con la quale un patto 
bisogna dunque stabilirlo, un patto sociale, non regole speciali, una strada 
chiara, lineare, aperta, che per condurre tutti nella stessa unica società, deve 
nascere dal rispetto, dall'attenzione, dalla comprensione, da regole nuove. A 
partire dai diritti. I doveri, come ognuno sa, vengono, magari quasi subito ma 
comunque dopo. È su questa mancanza che si esercita la capacità d'indignarsi, se 
sei riuscito a salvarla dal tuo diventare adulto e beneducato.
Ma quanti sono? è il nostro tormentone. Le contiamo e ricontiamo, queste 
pecorelle, quasi sperando, poco evangelicamente, che siano ogni volta di meno. 
Ma di affrontare i problemi sociali poco se ne parla, quasi nulla si fa.
Negli anni di Carlo, da buon comunista vicepresidente dell'Opera Nomadi, da lui 
fondata a Milano nei primi anni Ottanta, nascono i primi campi. Una 
scelta che, senza l'intervento sociale connesso, previsto e mai attuato, gli 
anni dimostreranno inadeguata ad affrontare i problemi dell'abitare. 
I campi, soluzione quasi solo italiana, sono dei ghetti da cui non si esce che a 
fatica verso altre soluzioni abitative, mentre per non trovare lavoro... basta 
l'indirizzo.
Sono questi i percorsi generosi e accidentati di chi cercava una strada giusta.
Adesso, chi cerca una strada? 
In quegli stessi anni troviamo, inattesa, una soluzione per una famiglia di 
Sinti lombardi ben conosciuta nel suo quartiere, ma non per questo meno 
sgomberata: non pare vero, ma si fece una raccolta di firme a loro favore, 
un'offesa alla logica, come l'uomo che morde il cane; e con Carlo indicemmo 
nelle loro roulotte una conferenza stampa, cui intervennero quotidiani e 
televisioni, che stroncò l'insensata persecuzione di vigili e multe. Quel tratto 
di via abbandonata che tuttora abitano serenamente da 12 anni, lo ebbero in base 
alla prima convenzione del genere sottoscritta con il Comune di Milano. E ci 
parve allora che da lì avremmo potuto avviare a soluzione almeno il problema 
delle poche famiglie sinte milanesi.
Nel frattempo erano nate le prime cooperative rom, si era formato, sotto la 
direzione del professor Angelo Arlati, e con la partecipazione di Giovanna 
Lodolo, il Centro Documentazione Zingari, che raccoglieva libri, dischi, video, 
documenti; e studenti e assistenti sociali venivano a prendere confidenza con 
gli Zingari. E si avviavano i progetti per la mediazione sanitaria, che 
in parte ripeteranno l'esperienza di quella scolastica: cosa può essere meglio 
di questa per un popolo di bambini? 
Mediazione ha il suono d'un termine filosofico, tecnico, professionale. 
In realtà è tutte queste cose, ma molto di più. Non posso non ricordare questa 
straordinaria invenzione di Carlo, ma non entrerò nella storia delle vicende che 
portarono alla nascita di un gruppo di giovani romnià, donne rom, 
preparate ad intervenire nelle scuole frequentate da bambini zingari per aiutare 
la reciproca comprensione, la reciproca integrazione. Nella sostanza 
queste ragazze, conseguita la licenza media, proseguirono con un corso impostato 
con la collaborazione di Susanna Mantovani, preside della Facoltà di Magistero, 
con un diploma finale abilitante.
Mi limito a ricordare l'essenza, il nucleo creativo di questa tormentata 
e sottovalutata –o combattuta?- storia. Le maestrine zingare avrebbero 
affiancato le titolari, aiutandole a comprendere i problemi dei bambini rom, 
sarebbero intervenute per facilitare il rapporto fra loro e i bambini non-rom –e 
perché no? le rispettive famiglie. Ma, soprattutto, sarebbero state un ponte tra 
i bambini. E i piccoli rom avrebbero visto per la prima volta una di loro 
in una posizione autorevole, non solo per loro stessi, ma anche per gli altri 
bambini. E questi per la prima volta si sarebbero trovati davanti una zingara 
che era un'autorità. Uno sconvolgimento. Di quelli da cui può cominciare un 
nuovo mondo.
Se, e quanto, così sia stato lo lascio ad altri approfondimenti: il ponte era 
lanciato, costruito; i ponti son fatti per essere attraversati, per unire rive 
diverse. Non è detto che vengano utilizzati. Spesso ci vuol tempo, circostanze, 
volontà per compiere la traversata. Da una parte e dall'altra. Ovviamente di 
più, per chi è più debole e indifeso, per il quale un ponte potrebbe costituire 
anche una minaccia d'invasione, un pericolo, non d'integrazione, di 
assimilazione. 
Progetti grandi e piccoli, dunque (questo della mediazione trovò interesse 
presso altre città italiane e anche all'estero), ma che rimanevano quasi sempre 
rinchiusi fra pochi addetti e un manipolo di funzionari e operatori. Bisognava 
puntare di più sulla cultura come messaggio, trovare Rom e Sinti che fossero 
immagine positiva, ambasciatori del loro popolo, raccontare storia e vicende 
umane. 
"Per occuparsi di zingari, bisogna essere matti", mi disse Carlo una sera 
prima di cena."Tu e io, aggiunse ridendo, ci siamo". 
Mancava Fredi Drugman, che aveva un approccio alla realtà dei problemi 
diametralmente opposto a quello di Carlo, metodico e preciso, quanto Fredi era 
estroso e inventivo. Ma questo divertiva Carlo, che diceva di lui ridendo 
compiaciuto, 'è matto come un cavallo'. Con questo matto abbiamo dunque 
organizzato la prima uscita pubblica per parlare di Zingari, nientemeno 
che in un'aula della Facoltà di Architettura del Politecnico. Fu quel 
giorno, credo, una delle prime volte che risuonarono a Milano le musiche 
sfrenate e dolenti della tradizione zingara davanti a un pubblico d'una 
settantina di studenti, stupiti e attentissimi per quasi quattro ore, 
nell'ambito del corso di museografia, di cui Fredi era docente, insieme a 
storia, lingua, tradizioni, musica, sotto le ipotetiche specie della creazione 
d'un Museo degli Zingari.
Un modello che avremmo poi esportato, presi dal successo, in un corso presso l'Unitre, 
in piazza Vetra, che il primo anno, per un solo trimestre (non ci eravamo fidati 
ad andare oltre), beneficiò anche dei suoi interventi. Facevamo una lezione, e 
la volta dopo la proiezione d'un film.
Il giorno della prima lezione arrivammo davanti all'aula assegnata: piena. Ci 
guardammo interdetti, concludendo che avevamo sbagliato porta e lui propose di 
andarci a bere qualcosa, tanto era ancora presto. Avremmo trovato poi l'aula 
giusta, con i nostri quattro ascoltatori. 
Ma proprio lì ritornammo.
Andammo poi avanti con tre fine settimana di musiche, balli e ragionamenti 
presso il Barrio's di don Gino Rigoldi, appena inaugurato, e con altre 
iniziative, per far conoscere i grandi Rom e Sinti, e il contributo 
d'arte e cultura che questo popolo ha dato al mondo: Django Reinhardt, inventore 
del jazz europeo, Esma Redžepova, candidata al Nobel, scrittori, poeti, pittori 
come Antonio Solaro e Otto Müller, calciatori, naturalmente, uomini politici. 
Come succede in tutti i popoli. 
Una di queste iniziative vive ancora. Rom e Sinti hanno attraversato negli anni 
del nazifascismo uno dei periodi più feroci della loro storia. 600.000 vittime è 
una stima al ribasso, perché non sarà mai possibile ricostruire il numero delle 
famiglie sterminate sul posto in tutti i territori occupati, come in quelli 
degli stati fantoccio o alleati del Reich. 
Ma Rom e Sinti non furono vittime inerti. In tutti i paesi in cui operò una 
Resistenza organizzata essi ne fecero parte, combattendo e morendo per una 
libertà che ancora non li ha raggiunti.
Dopo averne parlato con Carlo, come sempre facevamo, avevo cominciato a indagare 
su questo capitolo storico , che non veniva citato in nessuna pubblicazione. Con 
le prime scarne notizie raccolte, unite a quelle sullo sterminio, confezionai il 
primo volantino, meticolosamente corretto da Carlo, che venne diffuso al corteo 
del 25 Aprile 1998, come tuttora succede ogni anno a cura dell'Associazione Aven 
Amentza, che prosegue in quell'azione, oltre che nella ricerca sulla 
partecipazione di Rom e Sinti alla Resistenza. 
Debout les damnès de la terre, dice un canto che abbiamo insieme 
tante volte intonato: in piedi, dannati della terra, il cui titolo lo indica 
come adatto a tutti i popoli, insomma internazionale. E infatti uno zingaro 
disse: seppellitemi in piedi, perché tutta la vita sono stato in ginocchio. 
Ma con gli Zingari in genere è difficile: seicento anni di persecuzioni 
li hanno convinti che la ribellione non paga.
Eppure qualcosa si muove finalmente anche in Italia. Dopo il periodo delle 
piccole associazioni autoreferenziali o familiari, ecco che queste 
finalmente si uniscono in una federazione, che ha come valore aggiunto un Rom 
e Sinti insieme. E a Milano è attivo un tavolo di associazioni, in Camera 
del Lavoro. 
Nei suoi ultimi mesi, Carlo affronta instancabile, respingendo la resa al male 
che ormai lo consuma, ancora una battaglia, quella fondamentale, per il 
diritto. La commissione Affari costituzionali del Senato, nel testo 
predisposto per la discussione in aula, ha sgomberato Rom e Sinti 
dall'elenco delle minoranze, peraltro malamente tutelate. La legge uscirà così, 
pretestuosamente monca, l'anno dopo (L.482/99). Ma lui diffonde subito un 
appello per il loro reinserimento, in cui si chiede con lungimiranza di valutare 
anche le nuove minoranze, quelle degli immigrati, la cui presenza diventerà 
stabile nel paese.
E mentre tratta per la sistemazione dei Rom di Palizzi-Fattori, trasferiti in 
blocco dall'altra parte della città, lancia un nuovo progetto: una Casa dei 
popoli e delle culture, che ne sia il luogo d'incontro, di valorizzazione e 
di conoscenza. 
Ma la nuova vecchia politica è quella degli sgomberi, intervento 
feroce e stupido, che serve solo a spostare persone e problemi, senza risolvere 
nulla: solo nel 2007 a Milano ne sono stati attuati una quarantina. Il campo di 
Triboniano viene positivamente sistemato, ma ne viene distrutta l'organizzazione 
sociale tradizionale. Per abitare questa terra promessa e recintata bisogna 
sottoscrivere un regolamento speciale, che vale solo lì. È un bantustan. Si 
parlerà imprudentemente d'un intervento epocale. 
Ciò che sta accadendo è sotto gli occhi di tutti, forse segna davvero una nuova 
epoca: quella della tolleranza che non ce n'è mai stata ed ora mostra il 
suo vero aspetto: sotto lo zero. 
Ora è il tempo della sicurezza, anzi della sua percezione.
Ma non si tratta di morti sul lavoro, di violenze su donne e bambini fra le mura 
di casa dolce casa, di arrivare alla quarta o terza settimana, di pezzi d'Italia 
in mano alla criminalità. Il pericolo additato per distrarre sono quattro gatti 
di Zingari: ricontiamoli, anche se poi le cifre deludono, dov'è l'invasione? ci 
son solo problemi trascurati a lungo, cioè le emergenze, che nascono dal 
malgoverno. 
È stato avviato in questo periodo un processo di degenerazione della società e 
della democrazia.
Si è cercato di lasciare nella storia impronte di bambini, non con 
l'inchiostro della scuola, con quello della polizia, cui vengono affidate parti 
delle politiche sociali. Un inizio subito maldestramente ringoiato, che è 
bastato a promuovere il nostro paese da barzelletta a preoccupazione 
internazionale. Aspettiamo ancora di vedere qualche sussulto in più 
d'indignazione. E invece la prossima primavera rischia di portare nuove 
tempeste. 
È vero, la storia non si ripete, ormai forse lo imparano anche a scuola. Ma 
risuona. Oggi in modo orribile: Berlin ohne Zigeuner, dicevano i 
manifesti diffusi nella capitale germanica per le Olimpiadi del 1936, Berlino 
senza Zingari. Non sarà in preparazione, insieme a molti affari, una 
Mailand ohne Zigeuner per l'Expo 2015? 
Perché il problema è sempre lo stesso, immutabile, eterno: non sono gli 
Zingari che disturbano –loro sono utili. Non ci piacciono i poveri. 
E di questi è pieno il mondo. Sempre di più, sempre più poveri, premono fuori 
dalle mura della fortezza di Schengen, come tanti gengiscan disarmati, sbarcano 
sugli scogli, sulle spiagge, di cui è ricco, ancora, il nostro paese. Quando ci 
arrivano. Di baracche è pieno il mondo. Tempeste e terremoti le distruggono, le 
guerre e la fame ne creano altre. 
E noi siamo quando va bene solidali. Purché i loro disperati abitanti restino là 
dove sono. 
Non so cosa avrebbe fatto Carlo davanti a quello che sta succedendo. Ma 
non è difficile immaginarlo, perché noi tutti sappiamo che non si sarebbe 
arreso. Per questo è importante che oggi siamo qui con lui, perché si continui a 
rimanere insieme.
Avete sentito quante volte ho pronunciato il suo nome?
Ernesto Rossi