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Colombia
Di Fabrizio (del 27/01/2006 @ 10:24:53, in Kumpanija, visitato 1955 volte)

su Mundo_Gitano il 23 gennaio sono apparsi 4 articoli sui Gitani in Colombia, a cura di:

PROTSESO ORGANIZATSIAKO LE RROMANE NARODOSKO KOLOMBIAKO / PROCESO ORGANIZATIVO DEL PUEBLO ROM (GITANO) DE COLOMBIA, (PROROM)Organización Confederada a Saveto Katar le Organizatsi ay Kumpeniyi Rromane Anda´l Americhi, (SKOKRA)

Ecco una piccola selezione.


In principio erano conosciuti come “egiziani”, parola che si trasformò poi in "gitanos". I Rom, il vero nome di questa comunità, arrivarono nelle Americhe già nel 1492 quando quattro di loro si imbarcarono con Cristoforo Colombo. Le migrazioni proseguirono in epoca coloniale. La popolazione crebbe ancora all'epoca delle due guerre mondiali, quando dall'Europa fuggivano al razzismo e alle persecuzioni nazifasciste. Molte carovane seguirono la rotta Caracas-Bogotá-Quito-Lima-Buenos Aires installandosi dove si trovavano meglio. In Colombia si contano circa seimila gitani raggruppati in Kumpanias. Le più famose sono quella di Girón a Santander, di Cúcuta (una delle più grandi, con circa mille Rom) e quella di Bogotá, con 250 persone. Hanno una legislazione proria per la risoluzione dei conflitti sulla base del dialogo e dell'accordo. Così, in caso di processi, si riunisce la Kriss Romaní, una specie di tribunale interno dei gitani più anziani, che discutono il problema e cercano come risolverlo, sulla base di una accordo pacifico tra ambo le parti. “Odiamo la guerra, non usiamo armi, siamo pacifisti totali”, dice Miriam.

Il problema

“No signora, crede di poter fare ciò che vuole perché lei è gitana?” Non può. I suoi documenti non sono a posto” disse le rettrice del collegio dove voleva studiare uno dei figli di Jenny. Ma i documenti erano completi e compilati, con un unico problema: loro erano gitani.

Succede che non la facciano entrare nei negozi. “Il commesso vede una donna vestita da gitana e le proibisce di entrare, perché pensa che ruberà. Noi compriamo, come tutti gli altri! Perché dovremmo rubare? Colpa di quanti si spacciano per noi per darci la colpa”, protesta Kolya.

Le loro speranze ora sono poste nelle promesse del 23 gennaio: sistema sanitario con uno schema ispirato alle caratteristiche del loro popolo, riconoscimento dell'etnia rom – con documenti che permettano lo sviluppo dei commerci tradizionali e della vita nomadica, negozi e officine dedicate alle loro attività, tra l'altro.

“Siamo in tanti, colombiani come tutti gli altri, ma i nostri costumi e tradizioni sono differenti. Non siamo maiali o bruti, niente di tutto ciò. Abbiamo bisogno di aiuto perché quando qualcuno di noi si ammala, non sappiamo come curarlo”, dice Jenny.

Il merito dell'essere stati inseriti nel Piano Nazionale di Sviluppo e del riconoscimento come colombiani, va a Prorom (Proceso Organizativo del Pueblo Rom de Colombia), organismo formato da loro stessi, che si occupa dei diritti di queste 6.000 persone e dei rapporti tra le comunità e le autorità comunali e statali.

“Nel frattempo, molti di noi sono partiti per il Perù, gli Stati Uniti o l'Ecuador. Se la situazione continua a peggiorare, ci toccherà andarcene e la Colombia rimarrà senza gitani”, continua Jenny.

La sera si avvicina e un gruppo attacca a suonare canti in romanès e melodie orientali. Valentina balla, si muove e fa roteare le mani. Resta solo una domanda: com'è stato possibile mantenere la tradizione in tutto questo tempo? La risposta di Jenny è di una semplicità disarmante: “Non lo so, i bambini sanno di essere gitani, a loro piace e non facciamo niente per convincerli. Non è difficile, essere Rom è un orgoglio per tutti noi”.



Popolazione vulnerabile

Non vivono più nei carri, ma in case di cemento e mattoni: sono sedentari. Mantengono l'idioma, parente stretto del sanscrito, e osservano leggi proprie, amministrata e tramandata dalla kriss degli anziani. Si tramandano saperi e mestieri di generazione in generazione. Gli uomini artigiani del rame e commercianti di cavalli e scarpe. Il potere della casa poggia sugli uomini, mentre alcune donne si dedicano alla lettura della mano.

Dalila Gómez è una gitana fuori dagli schemi: ha studiato all'università per coordinare gli sforzi governativi per la scolarizzazione dei Rom. Si veste di seta, con colori vivi e monili. Secondo lei, il suo gruppo etnico si caratterizza per [un concetto di] frontiere più esteso di quello della società maggioritaria, però giudica importante l'impegno dello stato perché “prima di essere un gruppo etnico, siamo una popolazione vulnerabile, e cerchiamo che i politici si rivolgano a noi e ai nostri bambini in maniera etno-educativa”.

Vénecer Gómez, un giovane gitano che non differisce in niente da un qualsiasi studente universitario, riconosce che “ci sono molte storie attorno al popolo gitano. Alcune vere, altre totalmente false. Mi sono reso conto che questo era il momento di farci conoscere”.

Una decisione che l'ha portato a studiare diritto all'università di Bucaramanga. Dice che la cosa più dura è stata accettare il fermarsi per anni nello stesso posto. Ricorda di aver passato l'infanzia di villaggio in villaggio, e di aver frequentato le elementari in diverse scuole. “Mi stufa rimanere fermo in un posto” dice. Andai a a scuola con i documenti di viaggio sotto braccio. I miei genitori vedevano che non c'era lavoro e allora ci si spostava.

Gli ultimi gitani

Le tre sorelle Gómez vivono in casa nel barrio El Poblado di Girón (Santander). Condividono un grande salone ben arredato e con dei grandi divani che nessuno o quasi adopera. Il loro tempo trascorre sedute all'aperto, bevendo e osservando loro fratello Roberto che si fuma quattro pacchetti di sigarette al giorno. L'unica differenza con le vicine è quando rispondono al telefono, in romanès, perché nonostante il cognome e il tetto sulla testa sono gitane purissime.

Loro padre, Matei Bolochoc, arrivò in Colombia dal Venezuela all'inizio secolo. Proveniva da Parigi e si sposò con Ana Teotiste Santos una colombiana che così acquisì gli usi di uno dei popoli più antichi della terra.

Matei mutò il suo nome in Alfonso Gómez e assieme ad Ana Teotiste rapidamente si mise in marcia, rincorrendo con un carro trainato da cavalli i mezzi che da Medellín arrivavano a San Cristóbal, in Venezuela. Le sue figlie e Roberto, che poi avrebbe rifatto lo stesso mestiere con un camion Silverado e la sua famiglia, vissero quegli anni di polvere e pioggia come i più felici della loro vita. Lo conferma Consuela a mezza voce: “Arrivavamo in un paese e all'ingresso montavamo le tende. A volte durava giorni, oppure settimane. Tutto dipendeva se eravamo graditi al prete. Uno disse che eravamo ladri e malfattori, ci presero a sassate, ma non importava. Eravamo libero e potevamo sempre andare dove si voleva.” Il posto dove furono trattati meglio è stato Armenia. Gli abitanti del villaggio li accolsero nel mezzo di una tempesta, che ancora mette paura a ricordarla.

I nuclei principali di gitani si trovano nei quartieri Atalaya (Cúcuta), Galán, San Rafael, La Igualdad, Primavera, Puente Aranda, Nueva Marsella, La Francia y Patio Bonito (Bogotá), Santa María (Itagüí), Jardín (Cali), Santa Inés (Sogamoso) e naturalmente El Poblado, a Girón.

Nei dintorni di Bucaramanga, dove frequentemente piantavano gli accampamenti, si stabilirono quando la violenza nelle campagne fu tale da rendere impossibile il viaggiare oltre. Erano proprietari del miglior locale della zona, il Bar Nebraska, che aveva un'immensa barra tappezzata di rosso.

Oggi sono circa 150 i gitani che vivono in questa località della zona di Santander. La maggioranza di loro mostra sulle finestre un cartello “in vendita”, come simbolo del loro vagabondare. Nel momento di accendere la quinta sigaretta e con la terza tazza di caffé in mano in meno di venti minuti (questo li distingue da quelli arrivati dall'Europa Orientale, che consumano te nella medesima quantità), Roberto spiega il perché del cartello: “Serve a mantenere l'illusione che un giorno tutti potremo rimetterci in cammino un'altra volta”.

Lui, secondogenito di una famiglia di dieci, viaggia da solo. Qualche volta si sposta verso Boyacá, dove costruisce forni per fusione e scappa da suo figlio Venecer, che lo rimprovera preoccupato ogni sigaretta che si accende.

Occhi azzurri e statura considerevole, Venecer Gómez Fuentes appartiene alla seconda generazione di una famiglia che ha fatto la sua piccola fortuna sviluppando il mestiere tradizionale della forgia del rame. Frequenta il quinto semestre di Diritto nell'Università Industriale di Santander ed è portavoce ufficiale del popolo Rom, come loro si definiscono.

Venecer non ha viaggiato con le tende, però conosce il piacere e anche le scomodità che accompagnano l'essere nomade della sua famiglia. “Con la Silverado abbiamo percorso chissà quante strade, portando con noi solo i cinque piatti per mangiare. Ognuno aveva con sé un sacco di piume d'oca per ripararsi dal freddo e dalla pioggia”. Naturalmente parla il romanès e nelal stanza canta canzoni gitane che ha scaricato da internet. “La maggior parte sono tristi all'inizio, come questa: Zia, prestami il tuo grembo per riposare la mia testa pazza e stanca”.

Ma lo stesso è partecipe della tradizione. A 27 anni non è stato ancora protagonista di uno dei riti fondamentali: el abiao o matrimonio.

Per i gitani fondare una famiglia è uno degli scopi della vita e molti lo fanno in giovine età. Senza dubbio, le norme per sposarsi sono rigide. Gli uomini preferiscono sposare una donna della loro etnia invece che una gadyi. In compenso, le donne devono fidanzarsi con un gitano, pena l'espulsione dalla comunità.

In silenzio, Venecer sembra opporre resistenza a sposarsi. Il compito di portavoce che ha assunto lo ossessiona. Sa che se non lavorerà per i loro diritti, i gitani di Colombia spariranno definitivamente.