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Il ricordo che non avevo - romanzo di Alberto Melis
Di Fabrizio (del 10/09/2010 @ 09:04:46, in musica e parole, visitato 3334 volte)



Ci sono pagine di Storia dimenticate, come quella del Porrajmos, il genocidio nazista del Popolo Rom.
Matteo, Angela e Nazifa Bebé seguono le tracce lasciate da nonno Gabriel, che portano fino a Lodz e all'Obóz Cygański, il "lager degli zingari"...

Mondadori Junior Oro
In libreria: da oggi

Anteprima
Dal Capitolo 11


Rupa che non aveva ali

(...) - Beh, cosa aspetti?
Seduta su una delle assi di poppa del barcone, il cui fondo era ancora umido per la pioggia del giorno prima, Angela attendeva impaziente che cominciassi a leggere il seguito della storia di Nanosh. Ma io continuai per qualche istante a fissare il panorama che si scorgeva oltre la sponda opposta del fiume, un campo incolto costellato da radi cespugli e, più in là, il solito groviglio di strisce d'asfalto soffocate dal traffico e la distesa di palazzi grigi e anonimi che si smarriva a perdita d'occhio.

Quando poco prima avevamo superato il boschetto di aceri, alcuni piccoli gabbiani erano scesi in picchiata sulle acque dell'Aniene, prima di impennarsi di nuovo verso l'alto e di scomparire alla nostra vista. E all'improvviso ero stato colto da una strana sensazione. Quella di trovarmi in un posto lontanissimo e sperduto, una terra straniera e di nessuno dove fino a pochi giorni prima non mi sarei mai sognato di posare i piedi.

- Hai mai pensato che è come se noi e Nazifa Bebé vivessimo in due città diverse – chiesi ad Angela – anche se tra Ponte Mammolo e le nostre case ci sono solo poche centinaia di metri di distanza?

Lei scosse la testa. Poi sussurrò: - Però ho pensato che anche oggi, intorno ai rom, sono state costruite delle barriere impenetrabili. Solo che queste barriere non somigliano a quelle cinte dal filo spinato di Litzmannstadt o di Auschwitz, ma sono dentro ciascuno di noi e si chiamano paura e pregiudizio.

Per qualche istante riflettei sulle sue parole. Poi le passai il quaderno che Mariam ci aveva consegnato e lasciai che fosse lei a leggere a voce alta il secondo capitolo del racconto di nonno Gabriel.

- Quando i soldati dalle facce di lupo fecero scendere dai camion Nanosh e la sua gente – cominciò – la notte si stava stingendo in un'alba nebbiosa e livida. Fu poco dopo che il piccolo rom vide da vicino, e per la prima volta nella sua vita, la ciminiera sbuffante di una locomotiva a vapore.

Per tutto il tempo in cui Angela continuò a leggere, io rimasi in assoluto silenzio, con le ginocchia sollevate sul petto e le braccia allacciate intorno alle gambe.

Nanosh e la sua kumpanìa erano stati portati in una stazione ferroviaria, dove ad attenderli c'erano altri soldati con le divise nere, che li avevano obbligati a salire sul primo vagone di un lunghissimo treno merci. I portelloni non erano stati chiusi subito e il bambino, stretto con sua sorella Mirsada tra suo padre e sua madre, aveva potuto vedere centinaia e centinaia di altri rom che incolonnati in lunghe file venivano fatti salire sul treno, mentre l'aria si riempiva delle grida assordanti dei soldati e dei gemiti disperati dei vecchi e dei bambini.

Faceva un freddo cattivo.

Ma Nanosh, che aveva messo Nùvero al riparo sotto la sua giacca, non riusciva a capire se era per quello che Mirsada e Keja erano scosse da lunghi brividi, o se era perché i beng, i diavoli, avevano deciso di uscire dalle pieghe più oscure della terra per inghiottire i rom, il "Popolo degli Uomini".

Quando ormai quasi tutti erano stati fatti salire sul convoglio, davanti ai vagoni era comparsa un'ultima colonna di prigionieri, formata quasi esclusivamente da bambini e da donne. Nanosh aveva riconosciuto una di loro, la più anziana di tutte, che aveva la pelle del viso scura come un pezzo di cuoio e lunghe trecce bianche che le ricadevano sul petto magro. Si chiamava Rupa ed era una paramisaris, una narratrice di swatura e di paramitsha, le antiche storie e fiabe dei rom Lovara.

Qualche mese prima la kumpanìa di Nanosh e quella di Rupa si erano accampate insieme, vicino a un campo di trifoglio. E quella notte la vecchia, seduta sull'erba davanti al fuoco, aveva fumato la pipa con gli altri anziani e aveva raccontato ai bambini la leggenda di Vadni Rasa, l'oca selvatica che, come i rom, non stava mai ferma nello stesso posto, perché inseguiva il respiro del vento ovunque esso andasse a posarsi.

Nanosh aveva pensato che se Rupa avesse posseduto le stesse ali di Vadni Rasa, di certo si sarebbe librata in volo e sarebbe fuggita lontano. Ma Rupa, come tutti loro, non aveva ali. E quando uno degli ufficiali l'aveva brutalmente spintonata, si era voltata verso di lui e l'aveva colpito sul viso, maledicendolo a gran voce. Era stato allora che Konstant aveva coperto con entrambe le mani gli occhi di Mirsada, perché non vedesse quello che stava per succedere.

L'ufficiale aveva afferrato l'anziana donna per una delle lunghe trecce, e mentre lei continuava a dibattersi e a gridare l'aveva costretta a mettersi in ginocchio. Poi aveva estratto una pistola dalla fondina e gliel'aveva puntata sulla sua fronte.

Un attimo dopo, mentre il fischio della locomotiva annunciava che da lì a poco i portelloni dei vagoni sarebbero stati chiusi e che il treno si sarebbe mosso, il fragore dello sparo si era spento sotto i tetti delle pensiline e Rupa si era rovesciata a terra senza più voce e senza più vita. (...)